Corte Costituzionale, Sentenza n.262 del 04/12/2020

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Thema decidendum - Ricognizione dell'oggetto del giudizio incidentale - Delimitazione ad una parte soltanto della disposizione indicata nell'ordinanza di rimessione - Possibilità suggerita in modo chiaro dalla relativa motivazione

È possibile circoscrivere l'oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte della disposizione censurata, se ciò è chiaramente suggerito dalla motivazione dell'ordinanza di rimessione. (Nel caso di specie, avente ad oggetto l'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, si evince dall'ordinanza di rimessione che le questioni riguardano unicamente il rimborso dell'imposta sul reddito delle società - IRES - nella misura dell'importo dell'imposta municipale propria - IMU - corrisposta nell'anno 2012 dalla società contribuente). (Precedenti citati: sentenze n. 108 del 2019, n. 35 del 2017, n. 203 del 2016 e n. 244 del 2011).

Prospettazione della questione incidentale - Sufficiente descrizione della fattispecie e adeguato esame dell'evoluzione normativa da parte del giudice a quo - Ammissibilità della questione - Rigetto di eccezione preliminare

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, non è accolta l'eccezione d'inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza. Il rimettente ha esaminato in modo adeguato, seppur sinteticamente, l'evoluzione normativa della disposizione censurata, al fine di trarne conseguenze coerenti e non contraddittorie con le questioni prospettate; ha inoltre sufficientemente descritto la fattispecie, precisando che, in mancanza di un effetto retroattivo dello ius superveniens, la sorte del giudizio principale resta regolata dalla disposizione censurata nella formulazione in vigore per il solo 2012. (Precedente citato: sentenza n. 163 del 2019).

Imposte e tasse - Imposta municipale propria (IMU) - Corresponsione sugli immobili strumentali all'attività di impresa - Deducibilità dalle imposte sui redditi d'impresa - Esclusione - Irragionevolezza e violazione del vincolo di coerenza interna - Illegittimità costituzionale in parte qua

È dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione degli artt. artt. 3 e 53 Cost. - l'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui dispone che, anche per gli immobili strumentali, l'imposta municipale propria (IMU) è indeducibile dall'imponibile delle imposte sui redditi d'impresa. La disposizione censurata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano viola il principio di coerenza e quindi di ragionevolezza in quanto, avendo il legislatore espressamente individuato il presupposto dell'imposta sul reddito delle società (IRES) nel possesso di un reddito complessivo netto, la deducibilità dell'IMU dal relativo imponibile assume natura strutturale, essendo la sottrazione all'imposizione (o la sua riduzione) resa necessaria dall'applicazione coerente e sistematica dello stesso presupposto. Compiuta tale scelta, il legislatore non può, senza rompere il vincolo di coerenza interna, rendere indeducibile un costo fiscale chiaramente e interamente inerente, il che comporta, peraltro, effetti concreti di distorsione fiscale e numerose irragionevoli conseguenze. La disposizione censurata non può nemmeno essere giustificata alla luce della sua temporaneità, dal momento che la limitazione della indeducibilità all'anno 2012 è solo accidentale, derivando da discrezionali e successivi interventi del legislatore. La riscontrata violazione con riguardo all'indeducibilità dell'IMU sugli immobili strumentali dall'imponibile IRES, infine, non può che coinvolgere, per effetto del rinvio disposto dall'art. 56 TUIR, anche l'indeducibilità della stessa dal reddito d'impresa ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF). (Precedenti citati: sentenze n. 120 del 2020, n. 264 del 2017, n. 177 del 2017 e n. 159 del 1985).

Imposte e tasse - Discrezionalità del legislatore in materia tributaria - Necessità di un suo uso ragionevole, a tutela dei principi di uguaglianza, proporzionalità e capacità contributiva

L'ampia discrezionalità del legislatore tributario nella scelta degli indici rivelatori di capacità contributiva non si traduce in un potere discrezionale altrettanto esteso nell'individuazione dei singoli elementi che concorrono alla formazione della base imponibile, una volta identificato il presupposto d'imposta: quest'ultimo diviene, infatti, il limite e la misura delle successive scelte del legislatore. (Precedente citato: sentenza n. 269 del 2017). È principio consolidato nella giurisprudenza costituzionale che il controllo in ordine alla lesione dei principi di cui all'art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., si riconduce a un giudizio sull'uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo presupposto economico. In particolare, se non è escluso che il legislatore possa prevedere limiti alla deducibilità dei costi effettivamente sostenuti nell'ambito di un'attività d'impresa, tuttavia forme di deducibilità parziale o forfetaria si devono giustificare in termini di proporzionalità e ragionevolezza, come deroghe che rispondono a esigenze di tutela dell'interesse fiscale o anche a finalità extrafiscali, ma sempre riferibili a specifici valori costituzionali. Alla mera esigenza di gettito, pertanto, il legislatore è tenuto a rispondere in modo trasparente, aumentando l'aliquota dell'imposta, non attraverso incoerenti manovre sulla deducibilità, che si risolvono in discriminatori, sommersi e rilevanti incrementi della base imponibile a danno solo di alcuni contribuenti. (Precedenti citati: sentenze n. 10 del 2015, n. 116 del 2013, n. 223 del 2012, n. 111 del 1997 e n. 42 del 1980). Secondo la Corte costituzionale, l'inderogabilità del dovere tributario si giustifica solo nella misura in cui il sistema tributario rimanga saldamente ancorato al complesso dei principi e dei relativi bilanciamenti che la Costituzione prevede e consente, tra cui il rispetto del principio di capacità contributiva. Sicché quando il legislatore disattende tali condizioni, si allontana dalle altissime ragioni di civiltà giuridica che fondano il dovere tributario: in queste ipotesi si determina un'alterazione del rapporto tributario, con gravi conseguenze in termini di disorientamento non solo dello stesso sviluppo dell'ordinamento, ma anche del relativo contesto sociale. (Precedente citato: sentenza n. 288 del 2019). Di per sé la temporaneità dell'imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un'imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali. (Precedente citato: sentenza n. 288 del 2019).

Thema decidendum - Accoglimento della questione di legittimità costituzionale in riferimento ad uno dei parametri evocati - Assorbimento delle ulteriori censure

Accolta parzialmente, per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., quest'ultimo sotto il profilo della coerenza e ragionevolezza del tributo al suo presupposto, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, rimangono assorbite le ulteriori censure proposte in riferimento agli artt. 41 e 53 Cost., sotto il profilo dell'effettività della capacità contributiva e del divieto di doppia imposizione.

Pronunce della Corte Costituzionale - Dichiarazione di incostituzionalità consequenziale - Esclusione in mancanza dei necessari presupposti

Dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, non sussistono i presupposti per dichiarare, ai sensi dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953, l'illegittimità costituzionale consequenziale degli artt. 1, commi 715 e 716, della legge n. 147 del 2013, 3, comma 1, del d.l. n. 34 del 2019, conv., con modif., nella legge n. 58 del 2019 e 1, commi 4 e 773, della legge n. 160 del 2019, che hanno disposto, successivamente alla disposizione censurata, una deducibilità parziale dell'IMU sugli immobili strumentali con riguardo ai redditi di impresa. Attraverso le norme indicate, infatti, il legislatore si è gradualmente corretto - prendendo atto di esigenze di equilibrio del bilancio - fino a giungere alla virtuosa previsione della totale deducibilità dell'IMU sugli immobili strumentali con riguardo ai redditi di impresa a partire dal 2022. (Precedente citato: sentenza n. 187 del 2016)

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SENTENZA N.262

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 715, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Milano nel giudizio vertente tra la Tecnogras srl e l’Agenzia delle entrate, Direzione provinciale II di Milano, con ordinanza del 2 luglio 2019, iscritta al n. 191 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti l’atto di costituzione della Tecnogras srl, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 novembre 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato Giulio Enea Vigevani per la Tecnogras srl e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;

deliberato nella camera di consiglio del 19 novembre 2020.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 luglio 2019, la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 715, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», ai sensi del quale l’imposta municipale propria (IMU) «è indeducibile dalle imposte erariali sui redditi e dall’imposta regionale sulle attività produttive».

1.1.– Il rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso dalla Tecnogras srl, «attiva nel settore immobiliare (acquisto, vendita, locazione, leasing, costruzione, ristrutturazione) e proprietaria di diverse unità immobiliari», per il rimborso di parte dell’imposta sul reddito delle società (IRES) interamente versata per il 2012 (anno in cui aveva partecipato con altra società controllata al consolidato fiscale in qualità di consolidante). Il rimettente soggiunge che il rimborso attiene alla parte corrispondente a quanto pagato in conseguenza dell’indeducibilità dell’IMU, quest’ultima a sua volta integralmente corrisposta, nel medesimo periodo 2012, «su immobili propri», con la precisazione che «[t]ale esborso […] deriva dagli immobili strumentali della società stessa».

1.2.– In punto di rilevanza, la CTP precisa che la norma censurata: a) stabilisce l’indeducibilità dell’IMU dall’IRES in deroga all’art. 99, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito anche: TUIR), a norma del quale tutte le imposte, diverse da quelle sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento; b) si applica ratione temporis al periodo d’imposta a cui si riferisce la richiesta di rimborso; c) «conduce inevitabilmente al rigetto della richiesta e del ricorso poiché inibisce il rimborso».

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza il rimettente ritiene che il censurato art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011 vìoli:

a) l’art. 53 Cost., sotto il profilo dell’effettività della capacità contributiva, in quanto, nel disporre l’indeducibilità dell’IMU dall’IRES, farebbe gravare la tassazione su «un reddito d’impresa in parte fittizio, in contrasto con il principio di capacità contributiva»; ciò muovendo dal presupposto che: i) «[l]’indeducibilità totale o parziale […] è ammissibile soltanto con riguardo a costi che presentano elementi di incertezza nell’inerenza o nella determinazione, o ancora qualora sia fondato il pericolo che la deduzione di tali costi rischi di coprire l’elusione o l’evasione fiscale»; ii) la spesa per il pagamento dell’IMU relativa agli immobili strumentali della società stessa deve essere considerata un costo certo e inerente alla produzione del reddito;

b) l’art. 53 Cost., sotto il profilo del divieto della doppia imposizione, atteso che la società ricorrente nel giudizio a quo, in ragione della proprietà degli immobili, sarebbe «costretta a pagare, di fatto, due volte un’imposta sulla base del medesimo presupposto», il che potrebbe, peraltro, «condurre all’esaurimento della capacità contributiva, o comunque può costituire un carico eccessivo che supera il limite massimo tollerabile per il prelievo tributario»;

c) gli artt. 3 e 53 Cost., con riferimento al principio di ragionevolezza, poiché il censurato regime di indeducibilità, in assenza di una valida giustificazione, non sarebbe «coerente con la struttura stessa del presupposto» dell’IRES, tributo che, a norma dell’art. 75, comma 1, TUIR, «si applica sul reddito complessivo netto»: è vero infatti che il legislatore in materia tributaria «gode di una discrezionalità ampia nel fissare il presupposto d’imposta; tuttavia, nell’individuazione dei singoli elementi che concorrono alla formazione della base imponibile tale discrezionalità si restringe in modo considerevole» essendo tenuto a strutturare il tributo in modo coerente con il presupposto prescelto;

d) l’art. 3 Cost., quanto al principio di uguaglianza formale, poiché la mancata deducibilità avrebbe «un impatto sul piano della cd. equità orizzontale», sottoponendo irragionevolmente a una maggiore tassazione la società che si serve di immobili strumentali di proprietà rispetto a quella che invece utilizza immobili strumentali che non sono di sua proprietà;

e) l’art. 41 Cost., avuto riguardo al principio di libertà di iniziativa economica privata, in quanto la norma censurata penalizzerebbe indebitamente la scelta dell’impresa di investire gli utili nell’acquisto degli immobili strumentali, senza che peraltro siano rinvenibili «differenze qualitative apprezzabili del costo in esame rispetto alla generalità dei costi deducibili» in base alla disciplina generale dell’IRES.

2.– Con atto depositato il 26 novembre 2019, si è costituita la Tecnogras srl, chiedendo che la norma censurata sia dichiarata incostituzionale.

La società afferma di condividere «pienamente la prospettazione del Giudice a quo».

Quanto alla rilevanza, la difesa privata ritiene che «[n]on può […] sussistere alcun dubbio sul fatto che la norma rilevante nel giudizio a quo» sia quella censurata, considerato che, in particolare, è lo stesso legislatore ad aver escluso ogni effetto retroattivo dell’art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013, disponendo che la parziale deducibilità dell’IMU relativa agli immobili strumentali avesse effetto «a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013».

La parte ritiene, poi, di doversi confrontare con le motivazioni della sentenza n. 163 del 2019, emessa successivamente all’odierna ordinanza di rimessione, con cui questa Corte ha dichiarato l’inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza e incongruenza nella prospettazione, di una questione di legittimità «che, sotto alcuni profili, appare simile a quella odierna» perché: a) avente parimenti a oggetto l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, ma nella formulazione così come sostituita dal citato art. 1, comma 715, della legge n. 147 del 2013; b) prospettata con riferimento all’art. 53 Cost., sotto il profilo dell’effettività della capacità contributiva. Ad avviso della società, entrambe le ragioni che hanno condotto alla citata pronuncia di inammissibilità non ricorrerebbero nel caso di specie. L’ordinanza di rimessione, infatti, recherebbe, da un lato, una diffusa motivazione circa la rilevanza della questione e, dall’altro, una precisa individuazione della norma censurata.

Da ultimo, la parte privata osserva che la norma indubbiata ha cessato di avere efficacia a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013; pertanto a distanza di molti anni le controversie ancora pendenti che riguardano la sua applicazione sarebbero plausibilmente «un numero limitato», cosicché l’auspicata declaratoria di incostituzionalità «non comporterebbe il rischio di determinare alcuna significativa alterazione dell’equilibrio di bilancio».

3.– Con atto depositato il 26 novembre 2019, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

3.1.– La difesa statale innanzitutto ripercorre il complesso iter evolutivo in cui si è sviluppata la graduale previsione di deducibilità dell’IMU.

Ciò premesso, ad avviso della difesa dello Stato, la questione prospettata sarebbe inammissibile «[i]n analogia» a quanto statuito da questa Corte nella sopra citata sentenza n. 163 del 2019, poiché «il giudice a quo omette di confrontarsi con i regimi normativi relativi ad altri periodi d’imposta altrettanto rilevanti nella fattispecie per il suo esame».

3.2.– Nel merito, l’Avvocatura ritiene, quanto alla violazione dell’art. 53 Cost., che il rimettente muova dall’erroneo presupposto interpretativo per cui «tutte le imposte siano sempre deducibili l’una dalla base imponibile dell’altra», mentre rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore regolare la materia degli oneri deducibili e in particolare di quelli natura fiscale. Tale disciplina, infatti, atterrebbe «in sostanza alla congruità delle aliquote che è compito esclusivo del legislatore valutare e fissare in relazione ai diversi obiettivi della politica economica e fiscale».

Inoltre proprio la conformità al principio di capacità contributiva dovrebbe portare a considerare la deducibilità degli oneri fiscali come un’eccezione e a ritenere che, dato il suo carattere di agevolazione, «semmai lo strumento della deduzione dall’imponibile vada riservato dal legislatore ad altro tipo di oneri, non coattivi, dei quali si intende per varie ragioni incentivare l’assunzione da parte dei contribuenti».

Sotto un diverso profilo la difesa erariale precisa che la previsione dell’integrale indeducibilità dell’IMU avrebbe costituito una non irragionevole «misura eccezionale e temporanea, per il solo anno 2012», giustificata dalla «grave crisi economica che il Paese stava attraversando», la quale aveva, tra l’altro, determinato il legislatore ad anticipare l’introduzione dell’IMU proprio a tale anno. Per queste ragioni la norma censurata sarebbe finalizzata a conciliare le esigenze finanziarie dello Stato con quelle del cittadino chiamato a contribuire ai bisogni della vita collettiva, come del resto già concluso da questa Corte, con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., nella sentenza n. 574 del 1988.

Ad avviso dell’Avvocatura andrebbe inoltre considerato che le medesime argomentazioni varrebbero a legittimare dal punto di vista costituzionale anche il successivo regime di deducibilità parziale, introdotto dal 2013 e poi nel tempo modificato, in quanto espressivo del non irragionevole esercizio discrezionale del potere legislativo nella valutazione contingente di tale bilanciamento.

La difesa statale ritiene, infine, che la denunciata duplicazione dell’imposizione dovrebbe considerarsi esclusa in ragione del diverso presupposto impositivo dell’IMU, imposta patrimoniale di carattere reale, rispetto a IRES e IRPEF, imposte personali incidenti sui flussi di reddito del contribuente. Onde, la legittima coesistenza di detti tributi.

Infine, osserva l’Avvocatura, la censura formulata con riferimento all’art. 41 Cost. dovrebbe ritenersi inammissibile in quanto meramente enunciata o comunque infondata poiché tramite «l’agevolazione fiscale il legislatore vuole promuovere la competitività delle imprese nell’interesse generale, senza che possa dirsi sussistente né un obbligo per il medesimo legislatore di estendere la misura agevolativa, né tanto meno la palese arbitrarietà o irrazionalità nella scelta discrezionale di non estendere il beneficio».

4.– In prossimità dell’udienza la Tecnogras srl ha presentato memoria, replicando in modo analitico alle argomentazioni della difesa erariale.

La difesa della parte insiste per l’accoglimento delle questioni e, in particolare, ritiene non condivisibile l’argomento della transitorietà ed eccezionalità della norma censurata, utilizzato dall’Avvocatura generale e basato sulla circostanza che la suddetta norma è rimasta in vigore solo per il 2012.

Osserva, infatti, la società che, «nel momento in cui è entrata in vigore, la norma oggetto del presente giudizio non aveva carattere transitorio o eccezionale e soltanto una successiva valutazione del legislatore ha portato a una sua riscrittura (e ciò proprio nel malcelato tentativo di rimediare ai profili di illegittimità che i commentatori hanno da subito evidenziato rispetto al totale divieto di deducibilità)».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 2 luglio 2019, la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 715, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», ai sensi del quale l’imposta municipale propria (IMU) «è indeducibile dalle imposte erariali sui redditi e dall’imposta regionale sulle attività produttive» (IRAP).

1.1.– A giudizio del rimettente la disposizione violerebbe:

a) l’art. 53 Cost., sotto il profilo dell’effettività della capacità contributiva, in quanto, nel disporre l’indeducibilità dell’IMU dall’imposta sul reddito delle società (IRES), farebbe gravare la tassazione su «un reddito d’impresa in parte fittizio, in contrasto con il principio di capacità contributiva»; ciò sul presupposto che: i) «l’indeducibilità totale o parziale è ammissibile soltanto con riguardo a costi che presentano elementi di incertezza nell’inerenza o nella determinazione, o ancora qualora sia fondato il pericolo che la deduzione di tali costi rischi di coprire l’elusione o l’evasione fiscale»; ii) la spesa per il pagamento dell’IMU relativa agli immobili strumentali della società stessa deve essere considerata un costo certo e inerente alla produzione del reddito;

b) l’art. 53 Cost., sotto il profilo del divieto della doppia imposizione, atteso che la società ricorrente nel giudizio a quo, in ragione della proprietà degli immobili, sarebbe «costretta a pagare, di fatto, due volte un’imposta sulla base del medesimo presupposto», il che potrebbe, peraltro, «condurre all’esaurimento della capacità contributiva, o comunque può costituire un carico eccessivo che supera il limite massimo tollerabile per il prelievo tributario»;

c) gli artt. 3 e 53 Cost., con riferimento al principio di ragionevolezza, poiché il censurato regime di indeducibilità, in assenza di una valida giustificazione, non sarebbe «coerente con la struttura stessa del presupposto» dell’IRES, tributo che, a norma dell’art. 75, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (di seguito anche: TUIR), «si applica sul reddito complessivo netto»: è vero infatti che il legislatore in materia tributaria «gode di una discrezionalità ampia nel fissare il presupposto d’imposta; tuttavia, nell’individuazione dei singoli elementi che concorrono alla formazione della base imponibile tale discrezionalità si restringe in modo considerevole» essendo tenuto a strutturare il tributo in modo coerente con il presupposto prescelto;

d) l’art. 3 Cost., quanto al principio di uguaglianza formale, poiché la mancata deducibilità avrebbe «un impatto sul piano della cd. equità orizzontale», sottoponendo irragionevolmente a una maggiore tassazione la società che si serve di immobili strumentali di proprietà rispetto a quella che invece utilizza immobili strumentali che non sono di sua proprietà;

e) l’art. 41 Cost., avuto riguardo al principio di libertà di iniziativa economica privata, in quanto la norma censurata penalizzerebbe indebitamente la scelta dell’impresa di investire gli utili nell’acquisto degli immobili strumentali, senza che peraltro siano rinvenibili «differenze qualitative apprezzabili del costo in esame rispetto alla generalità dei costi deducibili» in base alla disciplina generale dell’IRES.

1.2.– Preliminarmente è necessario delimitare il thema decidendum.

Dalla motivazione e dal tenore letterale dell’ordinanza di rimessione si evince chiaramente che le questioni riguardano unicamente il rimborso dell’IRES nella misura dell’importo dell’IMU corrisposta nell’anno 2012 dalla contribuente – società «attiva nel settore immobiliare» – in relazione a «immobili propri […] strumentali della società stessa». Dal complesso delle argomentazioni sulla non manifesta infondatezza risulta infatti che viene richiesta una pronuncia di accoglimento delle questioni limitatamente alla parte in cui la norma censurata prevede, ai fini della determinazione dell’IRES, l’indeducibilità dell’IMU corrisposta per gli immobili strumentali. Non è, invece, oggetto di censura, da parte del giudice a quo, la previsione dell’indeducibilità dell’IMU dall’IRAP.

La possibilità di «circoscrivere l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale ad una parte soltanto della o delle disposizioni censurate, se ciò è suggerito dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione», trova del resto costante conforto nella giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2019, n. 35 del 2017, n. 203 del 2016 e n. 244 del 2011).

1.3.– Ai fini della rilevanza, il rimettente ha sufficientemente descritto la fattispecie da cui è originata la richiesta di rimborso dell’IRES, specificando che l’importo domandato corrisponde all’esborso dell’IMU derivante «dagli immobili strumentali della società stessa» e, altresì, correttamente precisando che, in mancanza di un effetto retroattivo dello ius superveniens, la sorte del giudizio principale resta regolata dall’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011, nella sua formulazione in vigore per il solo 2012, che costituisce appunto oggetto dell’odierna censura.

Va in particolare osservato che la natura strumentale, accertata dal rimettente, degli immobili sui quali era stata corrisposta l’IMU nel 2012 non è incompatibile con l’oggetto dell’attività d’impresa della srl contribuente, indicato nell’ordinanza di rimessione («acquisto, vendita, locazione, leasing, costruzione, ristrutturazione» nel settore immobiliare): di qui la plausibilità della suddetta qualificazione di strumentalità degli immobili fornita dal giudice a quo, del resto non contestata né nel giudizio principale, né nel giudizio di costituzionalità.

1.4.– Da tali considerazioni discende anche l’infondatezza dell’eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo la quale le questioni prospettate sarebbero inammissibili «[i]n analogia» a quanto statuito da questa Corte nella sentenza n. 163 del 2019, anch’essa in tema di deducibilità dell’IMU dall’IRES, poiché il giudice a quo avrebbe omesso (come nell’ordinanza di rimessione esaminata con detta sentenza) «di confrontarsi con i regimi normativi relativi ad altri periodi d’imposta altrettanto rilevanti nella fattispecie per il suo esame».

Non solo, infatti, da almeno due punti dell’ordinanza di rimessione si evince che la CTP ha esaminato in modo adeguato, seppur sinteticamente, l’evoluzione normativa del censurato art. 14, comma 1, al fine di trarne conseguenze coerenti e non contraddittorie con le questioni prospettate; ma, come prima precisato, la valutazione da compiere nel presente giudizio è circoscritta alla sola formulazione in vigore nel 2012 del citato articolo. Pertanto, nel caso di specie, non è replicabile la richiamata motivazione di inammissibilità, addotta con riferimento a una differente fattispecie dalla sentenza n. 163 del 2019.

2.– Nel merito, le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. sotto il profilo della coerenza e quindi della ragionevolezza.

2.1.– È opportuno premettere che la censurata indeducibilità dell’IMU dall’imponibile dell’IRES si pone all’interno di un complesso sviluppo normativo, che ha condotto, ben al di là del fisiologico effetto di un’imposta patrimoniale, all’esito di un particolare aggravio della pressione fiscale a carico delle imprese proprietarie di immobili strumentali.

Il tributo, infatti, è stato in origine previsto nell’àmbito del d.lgs. n. 23 del 2011 sul federalismo fiscale municipale, attuativo della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), e diretto a spostare l’asse del prelievo sul comparto immobiliare dallo Stato ai Comuni, in vista degli obiettivi di rafforzarne il grado di autonomia finanziaria, di valorizzare il principio di correlazione tra imposizione e funzioni e di semplificare il sistema della finanza locale.

A tale scopo, in particolare, si prevedeva che a decorrere dall’anno 2014 fossero introdotte nell’ordinamento fiscale due nuove forme di imposizione municipale: a) una imposta municipale propria; b) una imposta municipale secondaria.

La prima, la cosiddetta IMU, riuniva in un unico, nuovo, tributo la precedente imposta comunale sugli immobili (ICI) (che già significativamente aveva ampliato il livello della finanza autonoma), e l’imposta (statale) sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) – e relative addizionali – dovuta in relazione ai redditi fondiari (riguardanti i beni non locati). Si attribuiva in tal modo ai Comuni un significativo gettito erariale, compensato da una corrispondente riduzione dei trasferimenti statali; così limitando il grado di finanza derivata.

La seconda imposta – destinata però a rimanere prima inattuata e poi abrogata dall’art. 1, comma 25, della legge 28 dicembre 2015, n. 208 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – perseguiva il medesimo scopo di semplificazione accorpando altri tributi minori locali in un’unica forma impositiva.

Per quanto qui interessa è opportuno precisare che ai Comuni, a cui era destinato l’intero gettito dell’IMU e a cui si consentiva una manovra in aumento o in diminuzione fino allo 0,30 per cento, veniva attribuita la facoltà di ridurne fino alla metà l’aliquota «nel caso in cui abbia ad oggetto immobili non produttivi di reddito fondiario ai sensi dell’articolo 43 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, ovvero nel caso in cui abbia ad oggetto immobili posseduti dai soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società» (art. 8, comma 7, del citato d.lgs. n. 23 del 2011).

Tale disposizione era funzionale a consentire ai Comuni di evitare che il nuovo tributo determinasse un incremento della pressione fiscale sulle imprese: infatti l’IMU, calibrata in modo da risultare sostanzialmente a saldo zero (nell’aliquota standard dello 0,76 per cento) per il contribuente persona fisica (che avrebbe corrisposto al Comune quanto prima versava allo Stato a titolo di IRPEF fondiaria), senza questa misura di riduzione si sarebbe risolta in un aggravio per quei soggetti, come le imprese (o i lavoratori autonomi), proprietari di immobili strumentali, che non versavano IRPEF fondiaria.

2.2.– La linearità di questo disegno è stata però travolta da una serie di interventi normativi immediatamente successivi che hanno radicalmente trasformato, già dal 2012, l’IMU.

In particolare, in conseguenza dell’acuirsi della grave crisi finanziaria, proprio sull’IMU si è scaricato gran parte del peso di una manovra emergenziale che, soprattutto per le imprese, ha aggravato il livello dell’imposizione patrimoniale sugli immobili e ha, peraltro, anche inciso fortemente sul grado di autonomia finanziaria dei Comuni.

Infatti con il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici) ), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214 – il cosiddetto “decreto salva Italia” –, è stata disposta l’anticipazione dell’introduzione dell’IMU al 2012; sono stati introdotti moltiplicatori delle rendite catastali che ne hanno notevolmente incrementato l’incidenza; è stato attribuito allo Stato, pur mantenendo il carattere municipale dell’imposta, metà del gettito su tutti gli immobili, a eccezione dell’abitazione principale e dei fabbricati rurali a uso strumentale; è stata, inoltre, prevista l’applicazione dell’imposta anche all’abitazione principale.

Di lì a poco, con l’art. 1, comma 380, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)», il quadro è stato nuovamente modificato, definendo così le grandi linee dell’assetto attuale: a) la menzionata riserva allo Stato, che riguardava prevalentemente l’IMU sulle seconde case, è stata sostituita con una riserva allo stesso dell’intero gettito IMU dovuto sugli immobili a uso produttivo classificati nel gruppo catastale D (ovverosia capannoni industriali e opifici); b) tale gettito è stato determinato ad aliquota standard dello 0,76 per cento, così sostanzialmente impedendo la possibilità, in precedenza accordata, per i Comuni, di dimezzare l’IMU sugli immobili strumentali; c) è stata ribadita espressamente la possibilità dei Comuni di incrementare, trattenendo il relativo gettito, fino a 0,3 punti percentuali tale aliquota standard sugli immobili a uso produttivo, portandola quindi fino all’1,06 per cento (art.1, comma 380, lettera g, della legge n. 228 del 2012).

2.3.– Una volta definito questo assetto, il legislatore si è subito mostrato avvertito che esso era divenuto particolarmente gravoso e critico per le imprese. Già l’incipit dell’art. 1, comma 1, del decreto-legge 21 maggio 2013, n. 54 (Interventi urgenti in tema di sospensione dell’imposta municipale propria, di rifinanziamento di ammortizzatori sociali in deroga, di proroga in materia di lavoro a tempo determinato presso le pubbliche amministrazioni e di eliminazione degli stipendi dei parlamentari membri del Governo), convertito, con modificazioni, nella legge 18 luglio 2013, n. 85, significativamente afferma: «[n]elle more di una complessiva riforma della disciplina dell’imposizione fiscale sul patrimonio immobiliare […] volta, in particolare, a riconsiderare l’articolazione della potestà impositiva a livello statale e locale, e la deducibilità ai fini della determinazione del reddito di impresa dell’imposta municipale propria relativa agli immobili utilizzati per attività produttive».

Inoltre, nell’agosto del 2013 (a pochi giorni della conversione del suddetto decreto-legge) il Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze, nel documento «Ipotesi di revisione del prelievo sugli immobili», esaminava espressamente il tema della «deducibilità ai fini della determinazione del reddito di impresa dell’imposta municipale propria relativa agli immobili utilizzati per attività produttive». In particolare, preso atto che «[c]on il passaggio dall’ICI all’IMU, gli immobili di proprietà delle imprese hanno subito un incremento di prelievo, dovuto sia all’aumento delle aliquote e dei coefficienti moltiplicativi applicati alle rendite catastali, sia alla circostanza che l’IMU non ha sostituito le imposte sui redditi che gravano sugli immobili ad uso produttivo (mentre ha sostituito il prelievo IRPEF sui redditi di tutti gli altri immobili non locati)», viene evidenziato come «[i]l riferimento alla deducibilità dell’IMU relativa agli immobili utilizzati per attività produttive ai fini della determinazione del reddito di impresa contenuto nell’art. 1 del D.L. n. 54 del 2013, prospetta un intervento che sarebbe in linea con quanto avviene nei principali Paesi europei e, inoltre, consentirebbe di superare i problemi di incostituzionalità che l’indeducibilità attualmente prevista può porre sul piano della capacità contributiva».

Tuttavia, mentre il menzionato d.l. n. 54 del 2013, così come convertito, aveva solo sospeso il pagamento della prima rata 2013 dell’IMU sull’abitazione principale (fattispecie che poi la legge n. 147 del 2013 avrebbe definitivamente escluso dalla tassazione in relazione a immobili classificati nelle categorie diverse da A/1, A/8 e A/9), l’intervento sulla norma oggetto dell’odierna censura è concretamente avvenuto solo con l’art. 1, commi 715 e 716, della legge n. 147 del 2013, che l’ha sostituita stabilendo che «[l]’imposta municipale propria relativa agli immobili strumentali è deducibile ai fini della determinazione del reddito di impresa e del reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni» nella misura del 30 per cento per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013 e del 20 per cento dal 1° gennaio 2014.

Sono poi seguite ulteriori modifiche: l’art. 1, comma 12, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), ha innalzato al 40 per cento la percentuale di deducibilità dell’IMU a decorrere dal 1° gennaio 2019 (art. 19 della medesima legge n. 145 del 2018). In realtà questa disposizione non è mai stata effettivamente applicata, poiché prima con l’art. 3, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi), convertito, con modificazioni, nella legge 28 giugno 2019, n. 58, e poi con l’art. 1, commi 4, 772 e 773, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), le percentuali sono state rimodulate nei seguenti termini:

- 50 per cento per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2018;

- 60 per cento per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019;

- 60 per cento per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2020;

- 100 per cento per i periodi d’imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2021.

3.– La descritta evoluzione, nel denotare un quadro normativo poco lineare e sistematico, lascia in ogni caso intravedere come proprio l’indeducibilità totale dell’IMU ai fini delle imposte erariali sui redditi, dato il forte impatto sul sistema delle imprese, sia risultata ben presto, per stessa ammissione del legislatore, uno dei temi critici e quindi da riformare.

In effetti la deducibilità in esame, rispondendo a finalità intrinseche al prelievo, non si pone affatto, contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, sul piano delle agevolazioni fiscali propriamente dette, che sono dettate da finalità extrafiscali e rispetto alle quali la giurisprudenza di questa Corte – che pertanto qui non rileva – ha riconosciuto un’ampia discrezionalità (purché non trasmodi in palese irrazionalità e arbitrarietà) al legislatore (ex plurimis, sentenze n. 264 e n. 177 del 2017).

La deducibilità qui considerata attiene, invece, a quegli istituti tributari nei quali è «ravvisabile la prevalenza di un carattere strutturale, dal momento che la sottrazione all’imposizione (o la sua riduzione) è resa necessaria dall’applicazione coerente e sistematica del presupposto del tributo» (sentenza n. 120 del 2020). Nella medesima pronuncia questa Corte ha precisato che tali istituti non sono riconducibili a quelli in cui «invece, la natura di agevolazione è propriamente riscontrabile, perché, a differenza di quelli appena descritti, essi presuppongono l’esistenza di una capacità contributiva coerente con la struttura del tributo, ma, in deroga (già, in tal senso, sentenza n. 159 del 1985) al dictum de omni di cui all’art. 53, primo comma, Cost., prevedono, per motivi extrafiscali, forme di esenzione, di tassazione sostitutiva più favorevole o altre misure comunque dirette a rendere meno gravoso o non incidente il carico tributario in relazione a determinate fattispecie».

La deducibilità dell’IMU dall’imponibile dell’IRES assume natura strutturale in quanto, come si approfondirà di seguito, il legislatore ha espressamente individuato il presupposto dell’IRES nel possesso di un «reddito complessivo netto» (art. 75, comma 1, TUIR); ciò a differenza di quanto ha invece stabilito per alcune categorie di reddito, come, ad esempio, i redditi di lavoro dipendente, che sono computati al lordo, senza deduzione (analitica) dei costi di produzione.

È ben vero che il TUIR fissa poi regole specifiche per la misurazione del reddito d’impresa, precisando, per alcune componenti positive o negative risultanti dal conto economico, la misura in cui possono concorrere alla determinazione del reddito complessivo, ovverosia alla base imponibile dell’IRES. Tuttavia, costituisce principio imprescindibile della determinazione del reddito d’impresa quello di inerenza del costo da portare in deduzione.

Nella sua formulazione essenziale, «[i]l principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo» (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 22 gennaio 2020, n. 1290); sostanzialmente conforme, ex plurimis, a Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 11 gennaio 2018, n. 450): tale principio da un lato definisce e dall’altro delimita, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa, l’area dei costi che concorrono al reddito tassabile.

Da tale principio il legislatore non può arbitrariamente prescindere: questo infatti costituisce il presidio della verifica della ragionevolezza delle deroghe rispetto all’individuazione di quel reddito netto complessivo che il legislatore stesso ha assunto a presupposto dell’IRES.

3.1.– Tale principio si riflette anche sui costi fiscali.

Va precisato, infatti, che in relazione agli oneri fiscali l’art. 99, comma 1, del TUIR (rubricato «Oneri fiscali e contributivi») sancisce in via generale il principio della deducibilità delle imposte dal reddito, stabilendo che «[l]e imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento».

Tale disciplina prevede espressamente dunque solo due esclusioni dalla regola della deducibilità, del tutto ragionevoli e confermative del principio di tassazione al netto: a) una attiene alle imposte per le quali è prevista la rivalsa (il cui peso non è sopportato dall’impresa, onde la logicità della mancata deduzione del relativo onere); b) l’altra riguarda le imposte sui redditi (che, in quanto derivanti dal reddito, non possono logicamente rientrare tra gli antecedenti causali di questo).

Quanto alle «altre imposte», il richiamato art. 99 TUIR, come detto, ne stabilisce la deducibilità, affermando un criterio sì derogabile dal legislatore, ma non quando vengano in considerazione fattispecie come quella in esame, relative a un tributo (non commisurato al reddito e né oggetto di rivalsa) direttamente e pienamente inerente alla produzione del reddito.

Un tributo così caratterizzato costituisce, infatti, un costo fiscale inerente di cui non si può precludere, senza compromettere la coerenza del disegno impositivo, la deducibilità una volta che il legislatore abbia, nella propria discrezionalità, stabilito per il reddito d’impresa il criterio di tassazione al netto.

In questa prospettiva, dunque, correttamente le considerazioni del rimettente concentrano la censura sull’indeducibilità dell’IMU relativa ai beni strumentali, che rappresenta un onere certo e inerente, costituendo un costo necessitato che si atteggia alla stregua di un ordinario fattore della produzione, a cui l’imprenditore non può sottrarsi.

3.2.– La disposizione censurata contrasta, pertanto, con gli artt. 3 e 53 Cost., sotto il profilo della coerenza e quindi della ragionevolezza, con assorbimento di ogni altra questione.

L’ampia discrezionalità del legislatore tributario nella scelta degli indici rivelatori di capacità contributiva (ex plurimis, sentenza n. 269 del 2017) non si traduce in un potere discrezionale altrettanto esteso nell’individuazione dei singoli elementi che concorrono alla formazione della base imponibile, una volta identificato il presupposto d’imposta: quest’ultimo diviene, infatti, il limite e la misura delle successive scelte del legislatore.

È del resto principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che il controllo «in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.», si riconduce a un «giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico» (sentenza n. 116 del 2013; ma anche, ex plurimis, sentenze n. 10 del 2015, n. 223 del 2012, n. 111 del 1997, nonché, in senso analogo, già sentenza n. 42 del 1980).

Quindi, con riferimento all’IRES, una volta che il legislatore nella sua discrezionalità abbia identificato il presupposto nel possesso del «reddito complessivo netto», scegliendo di privilegiare tra diverse opzioni quella della determinazione analitica del reddito, non può, senza rompere un vincolo di coerenza, rendere indeducibile un costo fiscale chiaramente e interamente inerente.

Quanto precede è ampiamente sufficiente per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. Tuttavia non è inopportuno sottolineare, altresì, che la rottura del vincolo di coerenza interna comporta effetti concreti di distorsione fiscale, determinando numerose irragionevoli conseguenze, alcune delle quali evidenziate dallo stesso rimettente nel prospettare altri profili di illegittimità costituzionale.

Nel caso in esame, ad esempio, il mancato riconoscimento della deducibilità si riflette in un aggravio del tributo sui redditi causato soltanto dalla misura dell’IMU (divenuta, come si è visto particolarmente incidente per le imprese), che potrebbe, di fatto, azzerare lo stesso reddito netto o che paradossalmente potrebbe, in via di diritto, essere incrementata esponenzialmente dal legislatore con il solo limite della capacità contributiva desumibile dall’imposta indeducibile. Senza che si dia luogo a un fenomeno di doppia imposizione giuridica (perché i presupposti di IMU e IRES sono diversi), rimane comunque fermo che in tal modo l’entità del prelievo IRES subìto da ciascun soggetto risulta in realtà irragionevolmente determinata da un indice di capacità contributiva riferito a un presupposto diverso dal reddito netto.

Altra conseguenza della rottura del principio di coerenza è, nel caso di specie, l’indebita penalizzazione, rilevata dal rimettente, di quelle imprese che abbiano scelto (opzione non certo biasimabile, perché funzionale alla solidità dell’azienda) di investire gli utili nell’acquisto della proprietà degli immobili strumentali rispetto a quelle che svolgono la propria attività utilizzando immobili in locazione: solo queste ultime possono infatti dedurre tutti i costi (i relativi canoni), non essendo soggette, come invece le prime, all’IMU (indeducibile).

3.3.– Va precisato che quanto detto non esclude in assoluto che il legislatore possa prevedere limiti alla deducibilità dei costi, anche se effettivamente sostenuti nell’ambito di un’attività d’impresa; tuttavia forme di deducibilità parziale o forfetaria si devono giustificare in termini di proporzionalità e ragionevolezza, come ad esempio al fine di: a) evitare indebite deduzioni di spese di dubbia inerenza; b) evitare ingenti costi di accertamento; c) prevenire fenomeni di evasione o elusione.

Si tratta di deroghe che rispondono a esigenze di tutela dell’interesse fiscale (non immediatamente rinvenibili nel caso in esame, che concerne beni immobili, ovvero i cosiddetti “beni al sole”, difficilmente sfruttabili per manovre evasive, elusive o erosive) o che possono rispondere anche a finalità extrafiscali, ma sempre riferibili a specifici valori costituzionali, come, ad esempio, nel caso dell’indeducibilità dei costi da reato al fine di penalizzare condotte disapprovate dall’ordinamento.

Fuori da queste ipotesi le deroghe stentano a trovare adeguata ragione giustificatrice: alla mera esigenza di gettito, in particolare, il legislatore è tenuto a rispondere in modo trasparente, aumentando l’aliquota dell’imposta principale, non attraverso incoerenti manovre sulla deducibilità, che si risolvono in discriminatori, sommersi e rilevanti incrementi della base imponibile a danno solo di alcuni contribuenti.

Rimarcando il valore della inderogabilità del dovere tributario, questa Corte, ha del resto precisato che tale «qualifica, tuttavia, dato il contesto sistematico in cui si colloca, si giustifica solo nella misura in cui il sistema tributario rimanga saldamente ancorato al complesso dei principi e dei relativi bilanciamenti che la Costituzione prevede e consente, tra cui, appunto, il rispetto del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.). [S]icché quando il legislatore disattende tali condizioni, si allontana dalle altissime ragioni di civiltà giuridica che fondano il dovere tributario: in queste ipotesi si determina un’alterazione del rapporto tributario, con gravi conseguenze in termini di disorientamento non solo dello stesso sviluppo dell’ordinamento, ma anche del relativo contesto sociale» (sentenza n. 288 del 2019).

3.4.– Nemmeno può porsi a giustificazione della integrale indeducibilità disposta dalla norma censurata quanto asserito dalla difesa erariale sul carattere di «misura eccezionale e temporanea, per il solo anno 2012» che essa rivestirebbe, giustificata dalla «grave crisi economica che il Paese stava attraversando» e che aveva determinato il legislatore ad anticipare l’introduzione dell’IMU proprio a tale anno.

Non solo questa Corte ha già precisato che di per sé «la temporaneità dell’imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un’imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali» (sentenza n. 288 del 2019), ma tale carattere non è nemmeno propriamente riferibile – come osserva la parte privata – alla norma censurata, nella cui struttura l’integrale indeducibilità è stata prevista come permanente e solo accidentalmente, per effetto di discrezionali e successivi interventi del legislatore, è risultata limitata all’anno 2012.

3.5.– Deve quindi essere dichiarata la illegittimità costituzionale del censurato art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2011 nella parte in cui prevede l’indeducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali dall’imponibile delle imposte sui redditi d’impresa.

La riscontrata violazione del principio di coerenza e quindi di ragionevolezza ai sensi degli artt. 3 e 53 Cost., rilevata con riguardo alla indeducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali dall’imponibile dell’IRES, infatti non può che coinvolgere anche l’indeducibilità dal reddito d’impresa ai fini dell’IRPEF, poiché per effetto del rinvio disposto dall’art. 56 TUIR – «[i]l reddito d’impresa è determinato secondo le disposizioni della sezione I del capo II del titolo II, salvo quanto stabilito nel presente capo» – esso si determina sostanzialmente secondo le regole dell’IRES disposte all’art. 81 e seguenti TUIR.

4.– Infine questa Corte ha valutato se procedere all’estensione d’ufficio in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), della suddetta pronuncia di illegittimità costituzionale alle disposizioni successive a quella censurata e che negli anni hanno previsto una parziale deducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali con riguardo ai redditi di impresa, senza tuttavia disporre l’integrale deducibilità: art. 1, commi 715 e 716, della legge n. 147 del 2013; art. 3, comma 1, del d.l. n. 34 del 2019, convertito, con modificazioni, nella legge n. 58 del 2019; art. 1, commi 4 e 773, della legge n. 160 del 2019, limitatamente alla parte in cui prevede la deducibilità parziale dell’IMU.

Ha ritenuto però che non sussistano i presupposti di tale estensibilità. Nel descritto percorso, infatti, il legislatore (in sostanziale analogia con quanto accaduto nel caso deciso con la sentenza n. 187 del 2016) si è gradualmente corretto – prendendo atto via, via, di esigenze di equilibrio del bilancio (art. 81 Cost.) – fino a giungere alla virtuosa previsione, certamente non più procrastinabile, della totale deducibilità a partire dal 2022 (secondo quanto oggi previsto dall’art. 1, comma 773, della legge n. 160 del 2019).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 715, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», nella parte in cui dispone che, anche per gli immobili strumentali, l’imposta municipale propria è indeducibile dalle imposte sui redditi d’impresa.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2020.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2020.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

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