SENTENZA N. 57
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), promosso dal Tribunale ordinario di Palermo nel procedimento vertente tra R.M. S., in proprio e nella qualità di titolare della ditta S. S. di R.M. S., e la Commissione provinciale per l’artigianato della Provincia di Palermo costituita presso la Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura (CCIAA) di Palermo-Enna, con ordinanza del 10 maggio 2018, iscritta al n. 131 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di R.M. S., in proprio e nella qualità di titolare della ditta S. S. di R.M. S., e della Commissione provinciale per l’artigianato della Provincia di Palermo costituita presso la CCIAA di Palermo-Enna, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 14 gennaio 2020 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi gli avvocati Girolamo Rubino per R.M. S. in proprio e nella qualità di titolare della ditta S. S. di R.M. S., e Lillo Fiorello per la Commissione provinciale per l’artigianato della Provincia di Palermo costituita presso la CCIAA di Palermo-Enna, nonché l’avvocato dello Stato Marco Corsini per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza del 10 maggio 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.
2.- Il giudice a quo premette di essere stato adito da R.M. S., in proprio e nella qualità di titolare della ditta S. S. di R.M. S., che ha impugnato, ai sensi dell’art. 7, sesto comma, della legge 8 agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l’artigianato), la cancellazione dall’albo delle imprese artigiane disposta dalla Commissione provinciale per l’artigianato, dopo che il ricorso proposto in via amministrativa alla Commissione regionale per l’artigianato era rimasto senza esito.
3.- Il provvedimento di cancellazione richiamava gli artt. 67 e 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, ed era fondato sulla nota della Prefettura di Palermo con la quale veniva comunicato, ai sensi dell’art. 91, comma 7-bis, del d.lgs. n. 159 del 2011, l’adozione, nei confronti della suddetta impresa artigiana, di informazione antimafia interdittiva.
4.- Il rimettente precisa, quindi, di non essere stato chiamato a verificare la sussistenza dei presupposti della informazione antimafia interdittiva, che è devoluta alla giurisdizione amministrativa, ma a sindacarne le conseguenze, e cioè se tale misura integri o meno il presupposto per la cancellazione dall’albo delle imprese artigiane.
Tanto premesso, il Tribunale di Palermo osserva quanto segue.
5.- L’art. 67, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011 ricollega all’applicazione di una misura di prevenzione personale «con provvedimento definitivo» il divieto di ottenere benefici, erogazioni pubbliche, autorizzazioni, concessioni e iscrizioni di vario genere, comprese «altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati» (lettera f), nonché, ai sensi del comma 2, la decadenza di diritto da quelli già ottenuti.
L’art. 83, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011 individua i soggetti pubblici tenuti all’acquisizione della documentazione antimafia, mentre l’art. 84 del medesimo decreto legislativo definisce il contenuto della comunicazione antimafia e della informazione antimafia.
La prima, ai sensi dell’art. 84, comma 2, «consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67».
La seconda, ai sensi dell’art. 84, comma 3, «consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4».
L’informazione antimafia è richiesta solo per operazioni che superino certe soglie di valore, ovvero che siano poste in essere in settori sensibili.
A differenza della comunicazione antimafia, che ha una valenza ricognitiva dell’esistenza di cause di revoca, decadenza o divieto tipizzate, l’informazione antimafia è il frutto di una valutazione dell’autorità prefettizia, che, fondandosi su una serie di elementi sintomatici, esprime un motivato giudizio, in chiave preventiva, circa il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa, interdicendole l’inizio o la prosecuzione di attività con l’amministrazione pubblica, o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione, e determinando la revoca di quelli già eventualmente in essere.
In tale contesto, si inserisce l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, che stabilisce al comma 1: «Quando in esito alle verifiche di cui all’articolo 88, comma 2, venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva e ne dà comunicazione ai soggetti richiedenti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, senza emettere la comunicazione antimafia».
Al successivo comma 2, la suddetta disposizione sancisce: «L’informazione antimafia adottata ai sensi del comma 1 tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta».
6.- Assume il rimettente che l’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 ha esteso al settore delle autorizzazioni, tradizionalmente inciso dalla comunicazione antimafia, gli effetti dell’informazione antimafia, ampliando l’ambito di rilevanza del tentativo di infiltrazione mafiosa.
Tale impostazione, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, è coerente con l’impostazione del d.lgs. n. 159 del 2011, e la stessa non può dar luogo a perplessità, allorchè trovi applicazione nel caso in cui non vi sia un rapporto contrattuale con l’amministrazione pubblica, atteso che, anche in ipotesi di attività soggette a mera autorizzazione, l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica.
7.- Tanto premesso, il Tribunale di Palermo afferma di condividere i princìpi espressi dal Consiglio di Stato in ordine alla pervasività e alla profonda lesività dell’infiltrazione mafiosa nell’economia, e alla conseguente necessità di una risposta efficace da parte dello Stato che si estenda a tutto campo, e che dunque - elidendo in radice la libertà di iniziativa economica privata assicurata dall’art. 41 Cost. - sostanzialmente elimini dal circuito dell’economia legale, e non solo da quello dei rapporti con la pubblica amministrazione, i soggetti economici infiltrati dalle associazioni mafiose, che, in quanto tali, quella iniziativa esercitano in contrasto con l’utilità sociale, e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Tuttavia, il rimettente ritiene che una legislazione che affida tale radicale risposta ad un provvedimento amministrativo, quale è l’informazione antimafia, sostanzialmente equiparandola negli effetti ad un provvedimento giurisdizionale definitivo, pone dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.
8.- Ad avviso del rimettente è irragionevole ricollegare al rilascio dell’informazione antimafia interdittiva, dunque ad un atto di natura amministrativa, gli stessi effetti - e cioè il divieto generalizzato di ottenere tutti i provvedimenti indicati nell’art. 67, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011, e la decadenza di diritto da tutti quelli eventualmente già ottenuti - che il suddetto art. 67 riconnette all’applicazione con provvedimento definitivo di una misura di prevenzione personale, vale a dire alla definitività di un provvedimento di natura giurisdizionale.
Ciò apparirebbe irragionevole anche considerando che:
- l’effetto dell’informazione antimafia interdittiva è immediato ai sensi dell’art. 91, comma 7-bis, del d.lgs. n. 159 del 2011, e non è subordinato alla definitività del provvedimento;
- l’autorità amministrativa non può procedere ad alcuna esclusione delle decadenze e dei divieti, a differenza di quanto può fare il tribunale, in ragione della previsione dell’art. 67, comma 5, del medesimo decreto legislativo, «nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia».
9.- Il rimettente richiama, quindi, la sentenza della Corte costituzionale n. 4 del 2018, che ha affermato che la disposizione di cui all’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011 non esorbitava dalla delega legislativa: «Con questa disposizione il legislatore delegante, prendendo evidentemente le mosse dalla situazione di estrema gravità ravvisabile nel tentativo di infiltrazione mafiosa, ha concesso al legislatore delegato di introdurre ipotesi in cui tale infiltrazione, alla quale corrisponde l’adozione di un’informazione antimafia, giustifichi un impedimento non alla sola attività contrattuale della pubblica amministrazione, ma anche ai diversi contatti che con essa possano realizzarsi nei casi ora indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011».
La Corte costituzionale, inoltre, ha affermato la ragionevolezza della suddetta disposizione atteso che: «La fattispecie delineata dall’art. 89-bis censurato si riconnette a una situazione di particolare pericolo di inquinamento dell’economia legale, perché il tentativo di infiltrazione mafiosa viene riscontrato all’esito di una nuova occasione di contatto con la pubblica amministrazione, che, tenuta a richiedere la comunicazione antimafia in vista di uno dei provvedimenti indicati dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, si imbatte in una precedente documentazione antimafia interdittiva. Non è perciò manifestamente irragionevole che, secondo l’interpretazione dell’art. 89-bis censurato condivisa dallo stesso rimettente, a fronte di un tentativo di infiltrazione mafiosa, il legislatore […], reagisca attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia».
10.- Il giudice a quo afferma, tuttavia, che è irragionevole ricomprendere nella sfera d’incidenza dell’inibitoria, ma soprattutto nella sfera della decadenza, tutti i provvedimenti previsti dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011, senza escludere quelli che sono il presupposto dell’esercizio della attività imprenditoriale privata che non comporti alcun rapporto con la pubblica amministrazione e alcun impatto su beni e interessi pubblici.
Assume il rimettente che travolgere, per effetto dell’informazione antimafia interdittiva, anche i provvedimenti, quale quello in esame, che sono esclusivamente funzionali all’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, significa espungere un soggetto dal circuito dell’economia legale privandolo in radice del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica e ponendolo in tutto e per tutto nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione definitiva adottata in sede giurisdizionale, anzi in una situazione deteriore ove si consideri il contenuto derogatorio dell’art. 67, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011.
Infine, benché la Corte costituzionale, con la sentenza n. 4 del 2018 abbia affermato che: «[n]aturalmente spetta alla giurisprudenza comune, in sede di interpretazione del quadro normativo, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia», il rimettente ritiene di non poter procedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che valorizzi detta distinzione, anche in ragione della interpretazione della norma da parte della giurisprudenza amministrativa.
11.- Si è costituita nel giudizio incidentale la parte del giudizio a quo, che ha chiesto dichiararsi l’illegittimità costituzionale delle norme censurate.
Dopo aver aderito alla prospettazione del rimettente, la parte privata ha dedotto la violazione di un ulteriore parametro costituzionale e cioè l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1982, n. 217, in riferimento alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, e 28 giugno 2018, G.I.E.M. srl e altri contro Italia.
Ricorda come la prima delle suddette pronunce ha riconosciuto che la disciplina italiana sulle misure di prevenzione non rispetta gli standard di prevedibilità ed accessibilità imposti dal principio di legalità insito nell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU, attinente alla libertà di circolazione, mentre la seconda sentenza richiama il legislatore italiano al rispetto del principio di proporzionalità in materia di misure repressive e/o sanzionatorie.
12.- Anche la Commissione provinciale per l’artigianato della Provincia di Palermo si è costituita nel giudizio incidentale chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
Richiama l’attività consultiva e la giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo cui le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) soggiacciono alla informazione antimafia.
13.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi inammissibili o non fondate le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Palermo.
14.- In particolare, l’Avvocatura generale ha osservato quanto segue.
Le questioni sarebbero state sollevate in termini del tutto generici, in quanto il rimettente non individua con precisione la specifica disposizione censurata né la pronuncia da adottare per eliminare la denunciata illegittimità costituzionale.
Non sarebbe stata, altresì, chiarita la rilevanza delle questioni.
Con riguardo alla dedotta lesione dell’art. 3 Cost., dall’ordinanza di rimessione non emergerebbero elementi per ritenere violato il principio di uguaglianza.
In relazione all’art. 41 Cost., osserva l’Avvocatura generale dello Stato che il legislatore ha introdotto l’istituto in questione, ritenendo che la salvaguardia dell’interesse pubblico, libero da qualsivoglia inquinamento mafioso, sia prioritaria rispetto alla tutela della libertà di iniziativa economica, come affermato anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Inoltre, la valutazione del prefetto è di tipo preventivo e non sanzionatorio, ed è volta a contrastare il metodo mafioso che costituisce un danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Considerato in diritto
1.- Il Tribunale ordinario di Palermo, con ordinanza del 10 maggio 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione.
Le censure sono svolte rispetto all’art. 89-bis e solo in via conseguenziale nei confronti dell’art. 92, commi 3 e 4.
1.1.- Il rimettente osserva che con le norme censurate si sono estesi gli effetti della informazione antimafia interdittiva agli atti elencati nell’art. 67, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011 - tradizionalmente incisi dalla comunicazione antimafia interdittiva – e, in particolare, a quelli funzionali all’esercizio di una attività imprenditoriale puramente privatistica, così privando un soggetto del diritto, sancito dall’art. 41 Cost., di esercitare l’iniziativa economica, e ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo.
Riconosce la pervasività e la lesività dell’infiltrazione mafiosa nell’economia, e la necessità di una risposta efficace e che elimini i soggetti economici infiltrati dalle associazioni mafiose dal circuito dell’economia legale, e non solo da quello dei rapporti con la pubblica amministrazione. Tuttavia, ritiene che una legislazione che affida tale radicale risposta ad un provvedimento amministrativo, quale è l’informazione antimafia prefettizia, ponga dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.
Sarebbe infatti irragionevole ricollegare ad un provvedimento di natura amministrativa gli stessi effetti di una misura di prevenzione applicata con un provvedimento di natura giurisdizionale, incidendo sull’esercizio dell’iniziativa economica.
Ciò, anche considerando che:
- l’effetto dell’informazione antimafia interdittiva è immediato ai sensi dell’art. 91, comma 7-bis, del d.lgs. n. 159 del 2011, e non è subordinato alla definitività del provvedimento;
- l’autorità amministrativa non può procedere ad alcuna esclusione delle decadenze e dei divieti, a differenza di quanto può fare il tribunale, in ragione della previsione dell’art. 67, comma 5, del medesimo decreto legislativo, «nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia».
1.2.- Il rimettente ricorda la sentenza di questa Corte n. 4 del 2018, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159 del 2011, sollevate, in riferimento agli artt. 76, 77, primo comma, e 3 Cost., ma ribadisce che appare una irragionevole lesione della libertà d’impresa ricomprendere nella sfera d’incidenza dell’inibitoria, ma soprattutto della decadenza, che conseguono alla informazione antimafia interdittiva, tutti i provvedimenti previsti dall’art. 67 del medesimo decreto legislativo, senza escludere quelli che sono il presupposto dell’esercizio di una attività imprenditoriale meramente privata.
1.3.- Conclude che, benché la Corte costituzionale con la sentenza n. 4 del 2018 abbia affermato che: «[n]aturalmente spetta alla giurisprudenza comune, in sede di interpretazione del quadro normativo, decidere in quali casi e a quali condizioni il legislatore delegato abbia inteso attribuire all’informazione antimafia gli effetti della comunicazione antimafia», non può procedersi ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che valorizzi detta distinzione, anche alla luce della lettura della norma data dalla giurisprudenza amministrativa.
2.- In via preliminare, va rilevata l’inammissibilità degli ulteriori profili di censura sollevati dalla parte privata, ricorrente nel giudizio a quo e costituitasi nel presente giudizio incidentale, che ha prospettato la lesione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), adottato a Strasburgo il 16 settembre 1963 e reso esecutivo con il decreto del Presidente della Repubblica 14 aprile 1982, n. 217, in riferimento alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, e 28 giugno 2018, G.I.E.M. srl e altri contro Italia.
Si tratta, infatti, di censure tese ad allargare il thema decidendum, e che non possono essere prese in considerazione (da ultimo, sentenze n. 27 del 2019, n. 14 del 2018, n. 29 del 2017 e n. 96 del 2016).
Sono altresì inammissibili le eccezioni di inammissibilità delle questioni sollevate dalla difesa dello Stato, in quanto non sussistono le dedotte carenze dell’ordinanza di rimessione.
3.- Ai fini dell’esame del merito, va premesso che la normativa in questione incide su un contesto ampiamente noto e studiato (e di cui il giudice a quo è perfettamente consapevole), caratterizzato dalla costante e crescente capacità di penetrazione della criminalità organizzata nell’economia.
3.1.- La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (istituita con legge 19 luglio 2013, n. 87), nella relazione conclusiva del 7 febbraio 2018, ha rilevato che sono vulnerabili anche i mercati privati e in particolare i «settori connotati da elevato numero di piccole imprese, basso sviluppo tecnologico, lavoro non qualificato e basso livello di sindacalizzazione, dove il ricorso a pratiche non propriamente conformi con la legalità formale diviene prassi diffusa» (pag. 22).
Soggiunge la Commissione che «[q]ui le mafie possono offrire diversi tipi di servizi alle imprese, come la protezione, l’elusione della libera concorrenza, il contenimento del conflitto con i lavoratori, l’immissione di liquidità. Tuttavia, nei mercati privati è possibile ravvisare anche le forme più evidenti di imprenditoria mafiosa, quando sono gli stessi boss, famiglie o affiliati ad assumere in vario modo il controllo delle imprese, investendo in attività legali i capitali ricavati da estorsioni e traffici illeciti. Le imprese mafiose rivelano un’elevata capacità di realizzare profitti proprio per la possibilità di avvalersi di mezzi preclusi alle imprese lecite nella regolamentazione della concorrenza, nella gestione della forza lavoro, nei rapporti con lo Stato, nella disponibilità di risorse finanziarie» (pag. 22).
3.2.- Il fenomeno mafioso è stato poi oggetto - specie negli ultimi tempi – di una ricca e sistematica giurisprudenza amministrativa, su cui si è a lungo soffermata la relazione sull’attività della Giustizia amministrativa del Presidente del Consiglio di Stato per l’anno giudiziario 2020 (parte allegata, paragrafo “Attività giurisdizionale”, punto 5.1.).
Ne emerge un quadro preoccupante non solo per le dimensioni ma anche per le caratteristiche del fenomeno, e in particolare – e in primo luogo - per la sua pericolosità (rilevata anche da questa Corte: sentenza n. 4 del 2018). Difatti la forza intimidatoria del vincolo associativo e la mole ingente di capitali provenienti da attività illecite sono inevitabilmente destinate a tradursi in atti e comportamenti che inquinano e falsano il libero e naturale sviluppo dell’attività economica nei settori infiltrati, con grave vulnus, non solo per la concorrenza, ma per la stessa libertà e dignità umana.
Le modalità, poi, di tale azione criminale non sono meno specifiche, perché – si desume sempre dalla giurisprudenza citata nella relazione – esse manifestano una grande “adattabilità alle circostanze”: variano, cioè, in relazione alle situazioni e alle problematiche locali, nonché alle modalità di penetrazione, e mutano in funzione delle stesse.
4.- È alla luce di questi dati che va valutata la scelta di affidare all’autorità amministrativa questa misura, che pure si caratterizza per la sua particolare gravità.
Quello che si chiede alle autorità amministrative non è di colpire pratiche e comportamenti direttamente lesivi degli interessi e dei valori prima ricordati, compito naturale dell’autorità giudiziaria, bensì di prevenire tali evenienze, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento.
È in questa prospettiva anticipatoria della difesa della legalità che si colloca il provvedimento in questione, al quale, infatti, viene riconosciuta dalla giurisprudenza natura «cautelare e preventiva» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3), comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa.
4.1.- Deriva dalla natura stessa dell’informazione antimafia che essa risulti fondata su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari.
Si afferma infatti nella giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 30 gennaio 2019, n. 758 e 3 aprile 2019, n. 2211), che l’atto implica una valutazione tecnico-discrezionale dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa, e se, da una parte, deve considerare una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011: quali i cosiddetti delitti spia), altri, a condotta libera, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che «può» desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata» (citato art. 91, comma 6).
5.- Tutto ciò, peraltro, non comporta che nella specie si debba ritenere violato il principio fondamentale di legalità sostanziale, che presiede all’esercizio di ogni attività amministrativa.
5.1.- Al riguardo, la stessa giurisprudenza ha anzitutto precisato (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 9 febbraio 2017, n. 565, punto 12) che «l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale […], richiedano alla prefettura una attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa».
Tale quadro deve emergere, poi, da una motivazione accurata che nella specie assume una rilevanza affatto particolare (sentenza prima citata) come ha affermato anche questa Corte in un caso affine (sentenza n. 103 del 1993, che ha preso in esame la disciplina dei provvedimenti di scioglimento di consigli comunali e provinciali allorché emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata, o su forme di condizionamento).
5.2.- Infine, queste complesse valutazioni che – come si è rilevato – sono, sì, discrezionali, ma dalla forte componente tecnica, sono soggette ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo.
Di fatto è questa la portata delle numerose sentenze amministrative che si sono occupate dell’istituto. Esse non si limitano ad un controllo “estrinseco” (così ancora una volta la relazione citata) e, pur dando il giusto rilievo alla motivazione, procedono ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza.
5.3.- Il risultato di questo impegno è la individuazione di un nucleo consolidato (sin dalla sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 3 maggio 2016, n. 1743, come ricorda la sentenza della terza sezione, 5 settembre 2019, n. 6105) di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.
Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
Si tratta di puntualizzazioni di cui va apprezzata la rilevanza alla luce di quella giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 24 del 2019) che, anche se relativa a fattispecie diversa, ha valorizzato l’apporto fornito da una giurisprudenza costante e uniforme, al fine di delimitare l’applicazione di disposizioni legislative incidenti su diritti costituzionalmente protetti, pure caratterizzate da una certa genericità.
6.- Il dato normativo, arricchito dell’articolato quadro giurisprudenziale, esclude, dunque, la fondatezza dei dubbi di costituzionalità avanzati dal rimettente in ordine alla ammissibilità, in sé, del ricorso allo strumento amministrativo, e quindi alla legittimità della pur grave limitazione della libertà di impresa che ne deriva.
In particolare, quanto al profilo della ragionevolezza, la risposta amministrativa, non si può ritenere sproporzionata rispetto ai valori in gioco, la cui tutela impone di colpire in anticipo quel fenomeno mafioso, sulla cui gravità e persistenza – malgrado il costante e talvolta eroico impegno delle Forze dell’ordine e della magistratura penale – non è necessario soffermarsi ulteriormente.
In questa valutazione complessiva dell’istituto un ruolo particolarmente rilevante assume il carattere provvisorio della misura.
È questo il senso della disposizione dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo il quale l’informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell’interdittiva, con l’effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell’albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell’impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un’applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile.
7.- Quanto alle altre caratteristiche del provvedimento evidenziate dal rimettente, esse non sono tali da pregiudicarne la costituzionalità.
7.1.- Non anzitutto la sua efficacia immediata, che, all’evidenza, è connaturata ai provvedimenti amministrativi, e a cui comunque si può porre rimedio in sede giurisdizionale con una pressoché immediata sospensione nella fase cautelare.
7.2.- L’altro rilievo attiene alla impossibilità di esercitare in sede amministrativa i poteri previsti nel caso di adozione delle misure di prevenzione dall’art. 67, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011, e cioè l’esclusione da parte del giudice delle decadenze e dei divieti previsti, nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.
La differenza, che in parte trova una compensazione nella temporaneità dell’informazione antimafia (ciò che valorizza ulteriormente l’importanza del riesame periodico cui sono chiamate le autorità prefettizie), merita indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore, ma non può essere oggetto di una pronuncia specifica poiché non è dedotta in modo autonomo (non vi è infatti alcun riferimento al caso concreto), e come argomento integrativo e secondario dell’illegittimità dell’informazione interdittiva non ha una incidenza determinante.
8.– Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 159 del 2011, sollevate dal Tribunale ordinario di Palermo, devono essere dichiarate non fondate in riferimento agli indicati parametri costituzionali.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 gennaio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA