SENTENZA N. 78
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 857, 859, 862, 863, 865 e 866, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), promossi dalla Regione Lazio, dalla Regione Siciliana e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano con ricorsi notificati i primi tre il 1° marzo 2019, il quarto il 1°-7 marzo 2019, depositati in cancelleria i primi tre il 7 marzo 2019, il quarto l’11 marzo 2019, iscritti rispettivamente ai numeri 36, 38, 39 e 45 del registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 20, 21 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 25 febbraio 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini per la Regione Lazio, Marina Valli per la Regione Siciliana, Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Provincia autonoma di Trento, Renate von Guggenberg per la Provincia autonoma di Bolzano e l’avvocato dello Stato Giulio Bacosi per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato il 1° marzo 2019, depositato in cancelleria il 7 marzo 2019 e iscritto al n. 36 del reg. ric. 2019, la Regione Lazio ha impugnato l’art. 1, commi 857, 865 e 866, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, della Costituzione.
1.1.– Tali disposizioni, insieme ad altre ricomprese nei commi da 849 a 872, riguardano il tema dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali delle pubbliche amministrazioni.
In particolare, il comma 865 stabilisce che, per gli enti del Servizio sanitario nazionale che non rispettano i tempi di pagamento previsti dalla legislazione vigente, le Regioni e le Province autonome «provvedono ad integrare i contratti dei relativi direttori generali e dei direttori amministrativi inserendo uno specifico obiettivo volto al rispetto dei tempi di pagamento ai fini del riconoscimento dell’indennità di risultato». La disposizione prevede che la quota dell’indennità condizionata a tale obiettivo non può essere inferiore al 30 per cento e declina poi singoli scaglioni che modulano il riconoscimento di tale quota in base ai giorni di ritardo registrati e alla riduzione del debito commerciale residuo.
Ai sensi del comma 860, per l’applicazione delle misure di cui al comma 865 si fa riferimento ai tempi di pagamento e al ritardo calcolati sulle fatture ricevute e scadute nell’anno precedente e al debito commerciale residuo, di cui all’art. 33 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
A norma del comma 857, inoltre, nell’anno 2020 la quota dell’indennità di risultato condizionata al rispetto dei tempi di pagamento è raddoppiata «nei confronti degli enti di cui al comma 849 che non hanno richiesto l’anticipazione di liquidità entro il termine di cui al comma 853 e che non hanno effettuato il pagamento dei debiti entro il termine di cui al comma 854».
Infine, il comma 866 prevede che le Regioni trasmettono «una relazione in merito all’applicazione e agli esiti del comma 865» al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali di cui all’art. 12 dell’intesa sancita il 23 marzo 2005 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, aggiungendo che «[l]a trasmissione della relazione costituisce adempimento anche ai fini e per gli effetti dell’articolo 2, comma 68, lettera c), della legge 23 dicembre 2009, n. 191»: disposizione questa che, al fine di consentire l’erogazione di una quota del finanziamento del Servizio sanitario nazionale (SSN) a cui concorre ordinariamente lo Stato, la condiziona alla verifica positiva degli adempimenti regionali, previsti dalla normativa vigente e dalla stessa legge n. 191 del 2009. Infine, l’ultimo periodo del comma 866 prevede che «[l]e regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano relazionano al citato Tavolo sullo stato di applicazione del comma 865».
1.2.– Con una prima censura, la Regione Lazio lamenta la violazione del principio di leale collaborazione «ex artt. 5 e 120 Cost.»: il legislatore avrebbe omesso ogni concertazione con le Regioni sia nella fase ascendente, in sede di adozione delle disposizioni impugnate, sia in quella discendente, relativa all’attuazione delle stesse. Tale concertazione sarebbe da ritenersi, invece, necessaria in entrambi i casi, in quanto l’intervento del legislatore intersecherebbe diverse materie relative sia alla competenza concorrente – «coordinamento della finanza pubblica» e «tutela della salute» – che a quella residuale – «ordinamento e organizzazione amministrativa regionale» e «organizzazione e funzionamento della Regione» –, con un inestricabile intreccio e senza che possa individuarsi la prevalenza di una competenza esclusiva statale.
Inoltre, con specifico riferimento alla disciplina della dirigenza sanitaria regionale, che la giurisprudenza di questa Corte avrebbe costantemente ricondotto «al prevalente ambito della tutela della salute», la ricorrente richiama la sentenza n. 251 del 2016, segnalando che il legislatore si è uniformato al rispetto della leale collaborazione, imposto dalla suddetta pronuncia, nell’adozione del decreto legislativo 26 luglio 2017, n. 126, recante «Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, di attuazione della delega di cui all’articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di dirigenza sanitaria». Del decreto attuativo della delega si richiama, peraltro, l’art. 2, comma 3, che prevede anche un accordo in Conferenza Stato-Regioni per definire i criteri e le procedure per la valutazione dell’attività dei direttori generali.
Infine, la ricorrente precisa che la violazione del principio di leale collaborazione ridonderebbe sulle competenze legislative attribuite alla Regione e sulle corrispondenti funzioni amministrative ai sensi degli artt. 114, 117, terzo, quarto e sesto comma, nonché 118, primo e secondo comma, Cost.
1.3.– La seconda censura si incentra sulla violazione dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost., ribadendo che le disposizioni impugnate – e in particolare quelle recate dai commi 857 e 865 sulla dirigenza sanitaria – non sarebbero ascrivibili in maniera prevalente al coordinamento della finanza pubblica e che in ogni caso non si atteggerebbero a principi fondamentali: contraddicendo l’autoqualificazione operata dal comma 858 dell’art. 1 della stessa legge n. 145 del 2018, a causa del loro carattere di «massimo dettaglio» non avrebbero, infatti, lasciato alcun margine di autonomia all’ente regionale.
1.4.– La ricorrente prospetta, infine, la violazione degli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo comma, Cost. argomentandola con l’irragionevolezza e il difetto di proporzionalità delle disposizioni impugnate, nonché rilevando la ridondanza sulle competenze regionali ai sensi dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost.
Al riguardo, si sostiene che per l’effetto delle suddette norme risulterebbe irragionevolmente sacrificata la possibilità di orientare l’azione amministrativa regionale, «in violazione dei principi di buon andamento, differenziazione e adeguatezza», a obiettivi prioritari più attinenti alla tutela della salute, tra cui il perseguimento di un più alto livello di erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
Il denunciato difetto di proporzionalità deriverebbe invece dalla mancata considerazione di circostanze significative quali «il debito commerciale complessivo, i progressi nei termini di pagamento rispetto agli esercizi precedenti, le cause del ritardo, le eventuali responsabilità o al contrario i progressi ottenuti dal singolo dirigente rispetto alla progressiva riduzione del debito commerciale e dei termini di pagamento».
La censura in esame colpirebbe in maniera ancor più evidente la norma contenuta nell’impugnato comma 866. La possibile mancata erogazione della «quota di finanziamento del SSN cui concorre lo Stato» discenderebbe in maniera automatica dal ritardo dei pagamenti, senza che sia dato rilievo ai progressi ottenuti rispetto all’obiettivo e alle specifiche responsabilità in materia, nonché alla complessiva riduzione del debito commerciale residuo.
Inoltre, tale norma sconterebbe un difetto di chiarezza, destinato a incidere «sulla sua intrinseca ragionevolezza», perché non chiarirebbe se l’adempimento da essa richiesto sia riferibile alla sola trasmissione della relazione regionale o alla concreta gestione delle indennità di risultato. Intesa in tale secondo significato, «che sembra plausibile in ragione dell’inciso, contenuto nel comma 866» relativo alle autonomie speciali, la norma non sarebbe comunque idonea a raggiungere lo scopo che si prefigge: la mancata erogazione della quota di finanziamento statale potrebbe, infatti, incidere ulteriormente sul ritardo dei pagamenti.
2.– Con atto depositato il 10 aprile 2019 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
2.1.– La difesa erariale richiama la finalità del quadro normativo in cui le disposizioni impugnate si inseriscono, che è quella di assicurare il tempestivo pagamento dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni, a tutela soprattutto delle piccole imprese che operano con queste. L’intervento dello Stato, garante dell’attuazione della normativa europea che tale finalità prevede, sarebbe necessitato dal perdurare di una situazione di criticità.
In questo senso, sarebbe corretta la qualificazione delle norme impugnate come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, operata dal comma 858 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018.
2.2.– L’Avvocatura generale, inoltre, esclude che nella specie sia coinvolta anche la competenza concorrente regionale in tema di tutela della salute in quanto il legislatore non avrebbe inciso i profili pubblicistico-organizzativi della dirigenza pubblica, ma avrebbe operato sui contratti di lavoro dei dirigenti, al fine di rendere questi ultimi effettivamente coinvolti nella corretta gestione del sistema dei pagamenti. Lo Stato avrebbe, dunque, esercitato una competenza «assolutamente generale e prevalente» rispetto a quella che la Regione ritiene lesa, «non appalesandosi necessaria l’adozione di iniziative di condivisione con gli enti territoriali».
Sotto altro profilo, a parere della difesa erariale non sarebbero stati superati i limiti della competenza statale esercitata, anche perché nella valutazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica questa Corte in più occasioni avrebbe escluso «criteri formalistici e meramente “quantitativi”» (è richiamata la sentenza n. 137 del 2018) valorizzando, invece, le finalità perseguite da tali norme.
2.3.– Le norme impugnate sarebbero, inoltre, pienamente ragionevoli e proporzionate laddove, in maniera non illogica né gravosa, prescrivono modalità di monitoraggio e, eventualmente, interventi correttivi. Quanto all’impugnato comma 866, la difesa statale richiama a confutazione delle censure la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la piena attuazione del coordinamento della finanza pubblica implicherebbe, oltre all’esercizio del potere legislativo, anche quello di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo.
3.– Con ricorso notificato il 1° marzo 2019, depositato il 7 marzo 2019 e iscritto al n. 38 del reg. ric. del 2019, la Regione Siciliana ha impugnato l’art. 1, commi 857, 859, 862 e 863, della legge n. 145 del 2018.
3.1.– Secondo la ricorrente, tali norme violerebbero, nel complesso, gli artt. 3, primo comma, 97, secondo comma, 117, quarto comma, e 120 Cost. – in riferimento, quest’ultimo, al principio di leale collaborazione – nonché gli artt. 20 e 36 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2.
La norma su cui si incentrano le censure è quella contenuta nel comma 862, che prevede l’obbligo, per le amministrazioni diverse da quelle dello Stato che adottano la contabilità finanziaria, di stanziare nella parte corrente del proprio bilancio «un accantonamento denominato Fondo di garanzia debiti commerciali, sul quale non è possibile disporre impegni e pagamenti, che a fine esercizio confluisce nella quota libera del risultato di amministrazione». Tale obbligo scatta al ricorrere delle condizioni previste dal comma 859, ossia quando nell’esercizio precedente: a) il debito commerciale residuo di cui all’art. 33 del d.lgs. n. 33 del 2013 non si sia ridotto nella misura richiesta oppure b) l’indicatore di ritardo annuale dei pagamenti – calcolato sulle fatture ricevute e scadute nell’anno ancora precedente – non rispetti i termini di pagamento delle transazioni commerciali fissati dall’art. 4 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali).
Le disposizioni impugnate, inoltre, prevedono che l’accantonamento debba essere quantificato in misura crescente rispetto ai ritardi registrati, in relazione agli stanziamenti riguardanti nell’esercizio in corso la spesa per acquisto di beni e servizi (comma 862), e che debba essere adeguato, nel corso dell’esercizio stesso, alle variazioni di bilancio relative ai predetti stanziamenti (comma 863).
Nell’argomentare le censure, la ricorrente premette che, se tutto il sistema delineato dalla legge di bilancio sembrerebbe muovere dall’assunto che i ritardi nei pagamenti delle amministrazioni pubbliche «siano da imputare esclusivamente a mancanza di liquidità», nella Regione Siciliana, invece, il ritardo registrato non sempre dipenderebbe dalla suddetta motivazione, richiamandosi al riguardo una – peraltro non specificata – dichiarazione della ragioneria generale dell’ente.
Pertanto, le disposizioni impugnate recherebbero alla Regione Siciliana «un pregiudizio in termini finanziari la cui consistenza appare sproporzionata rispetto alle eventuali violazioni rilevate».
3.2.– Con specifico riferimento alla disposizione di cui al comma 862, il ricorso osserva che, ove si realizzino le condizioni da essa previste, lo stanziamento del fondo di garanzia debiti commerciali, secondo la stima operata dalla ragioneria generale della Regione riferita all’anno 2019, oscillerebbe da un minimo di euro 6.908.299 a un massimo di euro 34.541.496 (in ragione del criterio progressivo previsto dal richiamato comma 859).
L’accantonamento previsto determinerebbe quindi, in forza del divieto di disporre impegni e pagamenti a valere sul fondo da istituire, «l’indisponibilità di risorse finanziarie con effetti negativi sugli equilibri del bilancio regionale».
Inoltre, richiamando la sentenza n. 272 del 2015, la ricorrente sostiene che le modalità individuate dal legislatore statale per raggiungere l’obiettivo di evitare i ritardi nei pagamenti non supererebbero il test di proporzionalità. Omettendo di considerare la causa del ritardo esse, infatti, risulterebbero inidonee a conseguire la loro finalità perché, qualora il ritardo stesso sia «derivante da difficoltà oggettive o da fattori esterni», l’effetto auspicato non sarebbe raggiunto né dalla facoltà di accedere all’anticipazione di liquidità prevista dalla legge n. 145 del 2018, che finirebbe per assumere il carattere della doverosità, né dall’obbligo di prevedere in bilancio l’accantonamento.
Secondo la ricorrente, da tanto conseguirebbe che «il sistema sanzionatorio introdotto dalle disposizioni della Legge di Bilancio per il 2019» sarebbe in contrasto sia con il principio di proporzionalità di cui all’art. 3, primo comma, Cost., sia con il principio di buon andamento di cui all’art. 97, secondo comma, Cost., ridondando in una lesione dell’autonomia finanziaria e organizzativa della Regione.
Sotto altro profilo l’obbligo di stanziare gli importi prefissati nel fondo di garanzia lederebbe le norme di cui agli artt. 20 e 36 dello statuto reg. Siciliana, sia perché inciderebbe sull’autonomia organizzativa della Regione, sia perché la relativa compressione dell’autonomia finanziaria ne limiterebbe lo «svolgimento delle funzioni pubbliche».
Infine, la ricorrente evidenzia che una soluzione al problema dei ritardi nei pagamenti avrebbe potuto essere individuata «legittimamente e più utilmente» nell’ambito degli accordi in materia finanziaria tra Stato e Regione Siciliana, in ossequio al principio di leale collaborazione, che risulterebbe, invece, parimenti violato dalle disposizioni impugnate.
4.– Con atto depositato il 10 aprile 2019 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
4.1.– Nel merito delle censure, l’Avvocatura ritiene che le disposizioni introdotte dall’art. 1, commi da 858 a 873, della legge n. 145 del 2018 non avrebbero natura sanzionatoria, dovendo piuttosto «inquadrarsi come misure di garanzia» rivolte alle pubbliche amministrazioni che dimostrano di «non essere in grado di effettuare una programmazione della spesa efficiente». In questo senso, la disciplina del fondo determinerebbe la formazione di economie di spesa e di maggiori giacenze di cassa, così favorendo il pagamento dei residui. Infatti, l’accantonamento non costituisce un prelievo a carico del bilancio regionale, «in quanto a fine esercizio confluisce nella quota libera dell’avanzo di amministrazione».
Analogamente, la previsione di cui al comma 857 realizzerebbe un potenziamento delle misure di garanzia di cui ai successivi commi 862, 864 e 865 per i casi di mancata richiesta dell’anticipazione di liquidità da parte delle pubbliche amministrazioni inadempienti.
4.2.– L’Avvocatura, inoltre, contesta l’assimilazione delle disposizioni oggetto del giudizio a quelle dichiarate costituzionalmente illegittime dalla sentenza n. 272 del 2015, in quanto le prime risultano modulate proporzionalmente alla gravità della violazione rispetto ai tempi medi di pagamento, mentre le seconde prescindevano da ciò.
Quanto alla censura sull’inidoneità delle misure, che non darebbero rilievo alla causa del ritardo, la difesa erariale ricorda che il Governo nell’ultimo quinquennio ha posto in essere numerose iniziative per contenere il fenomeno dei ritardi dei pagamenti e che «le pubbliche Amministrazioni tuttora inadempienti hanno avuto a disposizione un lasso di tempo più che adeguato per porre rimedio» sia alle cause di ritardo derivanti da ragioni di ordine finanziario sia a quelle derivanti da disfunzioni organizzative o strutturali.
Sottolinea quindi che dai dati risultanti dal sistema della «Piattaforma per i crediti commerciali» (PCC) emerge che nel 2018 i fornitori della Regione Siciliana sono stati pagati mediamente con un ritardo variabile dai 29 ai 19 giorni.
Il rimedio ora adottato dal legislatore statale non potrebbe quindi ritenersi irragionevole anche in relazione alla Regione ricorrente.
Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione dei parametri statutari, atteso che l’impugnato comma 862 non costituirebbe norma di dettaglio ma misura di carattere strumentale finalizzata a favorire la riduzione dei tempi di pagamento dei debiti commerciali e, in quanto tale, espressione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (si richiamano le sentenze n. 175 e n. 39 del 2014).
Infine, non fondata risulterebbe anche la censura sulla violazione del principio di leale collaborazione: lo Stato, essendo garante del rispetto dei tempi di pagamento sanciti «da una normativa europea e nazionale di recepimento», non potrebbe stipulare accordi derogatori a tale normativa e differenziati con i diversi livelli di governo.
5.– Con ricorso notificato il 1° marzo 2019, depositato il 7 marzo 2019 e iscritto al n. 39 del reg. ric. del 2019, la Provincia autonoma di Trento ha impugnato l’art. 1, commi 857, 865 e 866, della legge n. 145 del 2018.
Secondo la ricorrente, tali norme violerebbero, nel complesso, gli artt. 3, 117, terzo comma, 119 – in combinato disposto con l’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – e 120, secondo comma, Cost. – in riferimento, quest’ultimo, al principio di leale collaborazione –, nonché gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16 e 79 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del Testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) e l’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra gli atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento).
5.1.– La ricorrente premette che la Provincia autonoma di Trento e i suoi enti, tra cui quelli del servizio sanitario, «non sono interessati dal fenomeno del ritardo nei pagamenti dei debiti commerciali, dal momento che la Provincia ha messo in atto, da molti anni, buone prassi, che hanno condotto l’ente e le sue agenzie ad avere, fin dal 2016, un indicatore di tempestività dei pagamenti negativo, cioè dimostrativo di un anticipo dei pagamenti sulla scadenza delle fatture».
Inoltre, rileva che la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1, comma 1130, della legge n. 145 del 2018 non opererebbe per le disposizioni impugnate, poiché queste menzionano espressamente le Province autonome e hanno un contenuto precettivo prevalente sulla generale clausola di garanzia.
Tanto premesso, la ricorrente – pur condividendo la piena vigenza e operatività, anche in relazione alla propria amministrazione, «del principio di tempestività dei pagamenti dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni» – ritiene che le disposizioni degli impugnati commi 865 e 866 invadano le competenze provinciali.
5.2.– In particolare, il disposto del comma 865, relativo, come si è visto, alla disciplina dell’indennità di risultato dei direttori generali e amministrativi degli enti del servizio sanitario, viene censurato sotto più profili.
5.2.1.– Una prima violazione è ravvisata con riferimento all’art. 79, comma 4, dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, poiché questo consentirebbe allo Stato di dettare norme di coordinamento finanziario condizionanti le potestà legislative delle Province autonome «solo nella misura in cui tali norme articolino limiti statutari alle competenze provinciali».
Inoltre, tale norma, da un lato autoqualificandosi come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e, dall’altro, incidendo «ratione materiae sulla organizzazione del sistema sanitario», risulterebbe illegittima perché quello della Provincia autonoma è un sistema sanitario interamente finanziato con risorse proprie, per cui lo Stato non avrebbe titolo per dettare norme di coordinamento finanziario (è richiamata la sentenza n. 125 del 2015).
In ogni caso, la disposizione impugnata sarebbe illegittima per violazione dell’art. 79 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, o comunque degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., nelle parti applicabili alle Province autonome ai sensi dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, perché quello contenuto nel comma 865 sarebbe «un minuto precetto di dettaglio» che non lascia all’ente autonomo «alcuna libertà in ordine ai modi con i quali conseguire il risultato».
5.2.2.– In quanto norma che incide sulla organizzazione amministrativa e sanitaria della Provincia autonoma, il comma 865 si porrebbe inoltre in contrasto con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige ovvero, se più favorevole, con l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento alla materia della «tutela della salute», in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
L’ambito materiale regolato dalla norma impugnata inciderebbe, infatti, sulle materie di competenza legislativa primaria della organizzazione amministrativa e del personale e sulla materia di competenza concorrente relativa a igiene e sanità, comprensiva dell’assistenza sanitaria e ospedaliera, ovvero su quella della tutela della salute, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., se più favorevole; la disposizione statale, inoltre, conformerebbe in modo diretto anche l’esercizio delle funzioni amministrative che l’art. 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige riserva alla Provincia autonoma.
D’altro canto, la ricorrente evidenzia di avere già compiutamente regolato tale settore con la legge della Provincia autonoma di Trento 23 luglio 2010, n. 16 (Tutela della salute in provincia di Trento); e, con specifico riferimento alla figura del direttore generale, precisa che la citata disciplina affida alla Giunta provinciale sia il compito di approvare lo schema di contratto (art. 28, comma 6), sia quello di stabilire «criteri e modalità per la valutazione dell’attività del direttore generale, con riferimento agli obiettivi assegnatigli e alla qualità complessiva dell’offerta assistenziale assicurata dall’azienda» (art. 28, comma 7).
In tale contesto, la norma impugnata non potrebbe essere qualificata né come norma fondamentale di grande riforma né come principio fondamentale della materia «igiene e sanità» o «tutela della salute», in ragione del suo carattere estremamente dettagliato e dell’assenza «di collegamento teleologico con le specifiche materie interessate dalla misura».
5.2.3.– Il richiamato comma 865 sarebbe, in ogni caso, illegittimo in quanto norma immediatamente applicabile e, quindi, lesiva dell’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992. Tale disposizione di attuazione statutaria prevede, infatti, un mero obbligo di adeguamento della legislazione provinciale da realizzare entro sei mesi dalla pubblicazione dell’atto legislativo dello Stato recante principi e norme costituenti limiti indicati dagli artt. 4 e 5 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige.
5.3.– Per quanto riguarda la disposizione di cui all’art. 1, comma 866, della legge n. 145 del 2018, la ricorrente appunta l’impugnazione sul suo terzo periodo; questo prevede che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome relazionano al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali di cui all’art. 12 dell’intesa raggiunta in Conferenza Stato-Regioni il 23 marzo 2005 «sullo stato di applicazione del comma 865».
Ove il comma 866 sia inteso come statuente un vero e proprio obbligo a carico della Provincia autonoma, la ricorrente ne ravvisa un primo motivo di illegittimità in via consequenziale dagli stessi argomenti di censura del comma 865, essendo gli obblighi sanciti da entrambe le disposizioni strutturalmente inscindibili. Una volta dichiarata la illegittimità di quest’ultimo, l’obbligo previsto dal comma successivo diverrebbe privo di oggetto o comunque del tutto irragionevole, con violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.
La norma sarebbe comunque elusiva dell’intesa del 23 marzo 2005 in quanto neutralizzerebbe la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 13 di tale accordo a tutela delle autonomie speciali, rendendo direttamente applicabile un monitoraggio che l’intesa non prevedeva come obbligatorio. E ciò dimostrerebbe la violazione anche del principio di leale collaborazione radicato nell’art. 120, secondo comma, Cost. e del principio di ragionevolezza ricavabile dall’art. 3, primo comma, Cost., in quanto la legge ordinaria dello Stato non potrebbe strumentalizzare l’istituto del tavolo tecnico di monitoraggio neutralizzando le specifiche condizioni in base alle quali esso è stato attivato.
La denunciata irragionevolezza ridonderebbe, secondo la ricorrente, sull’esercizio delle funzioni provinciali, poiché costringerebbe l’ente a un’attività di monitoraggio e di redazione di particolari relazioni «non correlata ad una esigenza propria della funzione provinciale».
5.4.– Infine, il comma 857 è impugnato ove interpretato nel senso che il raddoppio della quota dell’indennità di risultato dei dirigenti sanitari apicali condizionata al rispetto dei tempi di pagamento sia disposto per il solo fatto dell’assenza della richiesta di anticipazione della liquidità: se così fosse, ne conseguirebbe «un obbligo di ricorrere a tali anticipazioni al solo fine di evitare la responsabilità per il tardivo pagamento dei debiti», con violazione per difetto di ragionevolezza e proporzionalità dell’art. 3, primo comma, Cost., con riflesso sull’autonomia finanziaria dell’ente e sull’esercizio delle funzioni attribuite alle Province autonome dagli artt. 8, 9 e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dall’art. 117, terzo comma, Cost., per effetto dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Si prospetta inoltre la violazione dell’autonomia finanziaria e di bilancio riconosciuta alla Provincia autonoma dal Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dall’art. 119 Cost., anche in relazione con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
6.– Con atto depositato il 10 aprile 2019 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
6.1.– Preliminarmente, la difesa erariale afferma che le disposizioni in questione introdurrebbero principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, applicabili in quanto tali anche alle autonomie speciali, come sarebbe stato affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (sono richiamate, tra le altre, le sentenze n. 103 del 2018 e n. 62 del 2017).
6.2.– In merito alle censure mosse al comma 865 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, l’Avvocatura osserva che questo, in coerenza con il principio di proporzionalità, gradua le misure di garanzia in relazione alla gravità dell’inadempimento. D’altronde, poiché il presupposto per l’applicazione di tali disposizioni è il mancato rispetto dei tempi di pagamento, nulla sarebbe innovato «per gli enti virtuosi come la Provincia dichiara di essere».
Infondate sarebbero, inoltre, le censure basate sulle specificità del sistema di finanziamento sanitario provinciale e sulla conseguente carenza di titolo da parte dello Stato a disciplinare la materia: la ratio delle norme di cui si tratta sarebbe del tutto svincolata dal mancato concorso dello Stato al finanziamento del servizio sanitario provinciale.
Quanto all’asserito contrasto con lo statuto di autonomia e con la disciplina di settore di fonte provinciale nella materia della «tutela della salute», l’Avvocatura vi oppone che nella specie è stata in realtà esercitata la funzione di coordinamento della finanza pubblica, anche per superare le censure formulate dalla Commissione europea, che ha introdotto innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea un ricorso contro l’Italia per violazione della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
6.3.– Con riferimento al comma 866 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, l’Avvocatura ritiene che la piena attuazione del coordinamento della finanza pubblica implica anche l’esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo (sono richiamate le sentenze n. 229 e n. 122 del 2011). Le censure sarebbero, quindi, infondate attesa la funzione di controllo assolta dalla disposizione in esame.
6.4.– Quanto all’impugnativa in via cautelativa del comma 857 della legge n. 145 del 2018, se ne ritiene evidente la infondatezza, non essendo state in alcun modo violate le prerogative provinciali. Infatti, la disposizione non si applicherebbe all’ente che sia abitualmente rispettoso dei termini di pagamento dei debiti commerciali e degli obblighi di riduzione del debito residuo e che non evidenzi, quindi, un «comportamento incauto».
7.– Con ricorso notificato il 1°-7 marzo 2019, depositato l’11 marzo 2019 e iscritto al n. 45 del reg. ric. del 2019, la Provincia autonoma di Bolzano ha impugnato l’art. 1, commi 865 e 866, della legge n. 145 del 2018.
7.1.– Secondo la ricorrente, tali norme violerebbero, nel complesso, gli artt. 3, 117, terzo e quarto comma, 119, secondo comma, – questi ultimi due in combinato disposto con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 – e 120, Cost., in riferimento al principio di leale collaborazione; gli artt. 4, numero 7), 8, numero 1), 9, numero 10), 16, 79, 103, 104 e 107, il Titolo II e il Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige; il decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale); l’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); l’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, nonché l’accordo concluso tra il Governo, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 15 ottobre 2014.
7.2.– La ricorrente osserva che l’impugnazione sarebbe necessaria perché le disposizioni dei commi 865 e 866 del citato art. 1 si riferiscono espressamente anche alle Province autonome, vanificando la garanzia della clausola di salvaguardia contenuta nel comma 1130 del medesimo art. 1.
7.3.– A sostegno del ricorso si premette che l’autoqualificazione operata dal legislatore nel comma 858 – a mente del quale le disposizioni di cui ai commi da 859 a 872 costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica – non sarebbe corretta, in quanto le norme impugnate non esprimerebbero principi bensì «norme specifiche e di estremo dettaglio che pretendono di trovare diretta applicazione nell’ordinamento provinciale».
In particolare le disposizioni del comma 865 violerebbero l’autonomia della Provincia autonoma di Bolzano come definita dagli artt. 4, numero 7), 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dalle relative norme di attuazione; tale violazione sarebbe altresì rilevabile in riferimento all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., «in combinato disposto con l’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3», con riguardo alla «materia “tutela della salute”».
Del resto, quand’anche le disposizioni di cui al comma 865 costituissero principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, sarebbe comunque violato l’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, perché le disposizioni medesime pretenderebbero di far valere immediatamente e direttamente la propria efficacia anche nel territorio delle Province autonome. In via subordinata, sarebbe violato l’art. 107 statuto reg. Trentino-Alto Adige in relazione al procedimento dallo stesso disciplinato per l’emanazione delle relative norme di attuazione.
Inoltre, la ricorrente aggiunge che, essendo il servizio sanitario provinciale finanziato autonomamente, non sarebbe consentita allo Stato «l’imposizione di vincoli di spesa in materia sanitaria» (è citata la sentenza n. 231 del 2017), risultando quindi violati gli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119, secondo comma, Cost.
Viene quindi richiamato il quadro delle relazioni finanziarie tra Stato e Provincia autonoma di Bolzano e in particolare l’accordo sottoscritto con lo Stato il 15 ottobre 2014, nonché gli artt. 79, 103 e 104 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige: la norma censurata si porrebbe in violazione di tale assetto, contrastando anche con il principio di leale collaborazione di cui all’art. 120 Cost.
Sulla scorta delle medesime considerazioni appena esposte sarebbe censurabile anche il comma 866, nella parte in cui impone alle Province autonome l’obbligo di relazionare al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali sullo stato di applicazione del comma 865, poiché l’intesa tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome raggiunta il 23 marzo 2005 conterrebbe un’espressa disposizione di salvaguardia della specialità di queste ultime. Tale disposizione, pertanto, si porrebbe in contrasto con le norme costituzionali e statutarie prima richiamate nonché con il principio di leale collaborazione, anche in relazione all’art. 120 Cost., e quello di ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost.
8.– Con atto depositato il 12 aprile 2019 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto del ricorso.
8.1.– Gli argomenti esposti sono in buona sostanza gli stessi contenuti nell’atto di costituzione nel giudizio promosso dalla Provincia autonoma di Trento.
Con specifico riferimento al merito delle censure prospettate dalla Provincia autonoma di Bolzano, l’Avvocatura ne ritiene errato il presupposto: sarebbe infatti evidente che le disposizioni impugnate non incidono minimamente sull’ordinamento degli enti sanitari, né sulla organizzazione degli uffici e che esse nemmeno impongono misure a carico delle finanze provinciali. Da escludere sarebbe anche la loro riconducibilità alla competenza in materia di salute, essendo il riflesso in tale ambito soltanto indiretto.
Altresì infondata sarebbe la qualificazione delle disposizioni impugnate come norme di dettaglio, travalicanti la competenza statale, ciò sia perché alla Provincia autonoma sarebbe lasciato comunque un margine di intervento, sia perché nella valutazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica questa Corte in più occasioni avrebbe escluso «criteri formalistici e meramente “quantitativi”» valorizzando, invece, le finalità perseguite da tali norme.
9.– In prossimità dell’udienza, tutte le ricorrenti hanno depositato una memoria, con cui hanno ribadito e approfondito le ragioni espresse nei ricorsi.
9.1.– La Regione Lazio evidenzia preliminarmente che, limitatamente alla disposizione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, si sarebbe determinata la cessazione della materia del contendere: infatti, il comma citato – che avrebbe trovato applicazione «nell’anno 2020» – è stato abrogato dall’art. 50, comma 1, lettera a), del decreto-legge 26 ottobre 2019, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, in legge 19 dicembre 2019, n. 157.
Con riferimento al motivo di ricorso incentrato sulla violazione del principio di leale collaborazione, e in replica all’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri, la Regione approfondisce il presupposto dell’esistenza di un inestricabile intreccio di competenze, esplicitando che le norme di cui al comma 865 afferirebbero anche alla materia «tutela della salute», in quanto portatrici di una «disciplina che interv[iene] sullo statuto giuridico ed economico della dirigenza sanitaria». Regolandone il trattamento economico, il legislatore statale avrebbe, infatti, indirizzato dettagliatamente gli obiettivi della dirigenza stessa, di competenza regionale, e inciso comunque sulla disciplina pubblicistica del rapporto.
Quanto al secondo motivo, riferito alla impossibilità di considerare le disposizioni impugnate come espressione di principi fondamentali, la memoria, replicando al resistente, esclude che vi siano margini di intervento rimessi al legislatore regionale.
9.2.– Anche la memoria della Regione Siciliana ha preso atto della intervenuta abrogazione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, auspicando di poter comunicare in udienza la valutazione del Presidente della Regione circa l’eventuale cessazione della materia del contendere.
Quanto alle modifiche che, successivamente al deposito del ricorso, hanno riguardato i parimenti impugnati commi 859, 862 e 863, la difesa regionale le ritiene non satisfattive delle censure mosse nei loro confronti e alle quali si richiama.
9.3.– Con la propria memoria, la Provincia autonoma di Trento dichiara di non avere interesse a coltivare l’impugnazione del comma 857, per la quale ritiene possa essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.
Nel replicare alle deduzioni della difesa erariale la ricorrente precisa di non disconoscere che la responsabilità finale per il rispetto sui tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni rimane allo Stato anche se sono coinvolte amministrazioni autonome.
Segnalando al riguardo la pubblicazione, nelle more del ricorso, della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa C-122/18, 28 gennaio 2020, Commissione europea contro Repubblica italiana, dove tale responsabilità è stata affermata indipendentemente dall’ente la cui azione o inerzia abbia dato luogo all’inadempimento, precisa tuttavia che con le norme impugnate lo Stato avrebbe esercitato «in via preventiva un potere sostitutivo nei confronti dell’ente sanitario provinciale», che precluderebbe alla Provincia, qualora in futuro dovesse versare nella situazione (al momento esclusa) di ritardo nei pagamenti, di scegliere altri mezzi per la risoluzione del problema.
La ricorrente ribadisce inoltre la censura sul carattere tipicamente di dettaglio delle disposizioni impugnate, precisando che nel diritto costituzionale «il fine» (nel caso di specie il coordinamento della finanza pubblica) «non giustifica qualunque mezzo», potendo tale fine essere attuato, in questo caso, solo con norme di principio.
Infine, con riferimento alla violazione dell’art. 79, comma 4, dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, precisa che le norme di coordinamento, per essere vincolanti per la Provincia autonoma, «debbono essere anche norme di grande riforma, se la materia è in potestà primaria, o principi fondamentali della materia, se la competenza è concorrente»; qualità che le norme impugnate, che incidono, «quoad obiectum, nella materia della organizzazione amministrativa della Provincia e dei suoi enti», «all’evidenza non rivestono».
9.4.– La memoria della Provincia autonoma di Bolzano richiama gli argomenti già illustrati nel ricorso.
10.– In udienza le parti hanno illustrato gli argomenti a sostegno delle rispettive richieste. La difesa della Regione Siciliana, in particolare, ha dichiarato di prendere atto della intervenuta abrogazione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, rimettendosi alla valutazione della Corte per la eventuale cessazione della materia.
Considerato in diritto
1.– Con separati ricorsi, iscritti rispettivamente ai numeri 36, 39 e 45 del registro ricorsi 2019, la Regione Lazio e le Province autonome di Trento e di Bolzano hanno impugnato l’art. 1, commi 865 e 866, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021). Dello stesso art. 1, la Regione Lazio e la Provincia autonoma di Trento hanno impugnato anche il comma 857.
Inoltre, con ricorso iscritto al n. 38 del registro ricorsi 2019, la Regione Siciliana ha impugnato l’art. 1, commi 857, 859, 862 e 863, della richiamata legge n. 145 del 2018.
2.– I giudizi promossi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alle medesime norme, censurate in riferimento a parametri in buona parte coincidenti, e, per il resto, questioni relative a norme comunque oggettivamente connesse.
3.– Si esaminano innanzi tutto le questioni promosse dalla Regione Lazio e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano, le quali riguardano misure introdotte dal legislatore statale in tema di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali degli enti del Servizio sanitario nazionale (SSN).
L’art. 1, comma 865, della legge n. 145 del 2018 stabilisce che per gli enti del SSN «che non rispettano i tempi di pagamento previsti dalla legislazione vigente, le regioni e le province autonome provvedono ad integrare i contratti dei relativi direttori generali e dei direttori amministrativi inserendo uno specifico obiettivo volto al rispetto dei tempi di pagamento ai fini del riconoscimento dell’indennità di risultato. La quota dell’indennità di risultato condizionata al predetto obiettivo non può essere inferiore al 30 per cento». In base al ritardo registrato, la norma gradua poi il riconoscimento di tale quota, fino a escluderlo per ritardi superiori a sessanta giorni oppure in caso di mancata riduzione di almeno il 10 per cento del debito commerciale residuo.
Il successivo comma 866 prevede che «[l]e regioni trasmettono al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali di cui all’articolo 12 dell’intesa tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, del 23 marzo 2005 […] una relazione in merito all’applicazione e agli esiti del comma 865. La trasmissione della relazione costituisce adempimento anche ai fini e per gli effetti dell’articolo 2, comma 68, lettera c), della legge 23 dicembre 2009, n. 191 […]. Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano relazionano al citato Tavolo sullo stato di applicazione del comma 865». In sostanza, solo per le Regioni a statuto ordinario la trasmissione della relazione costituisce adempimento rilevante ai fini della erogazione della quota cosiddetta premiale del finanziamento del SSN a cui concorre ordinariamente lo Stato, condizionata appunto alla verifica positiva degli adempimenti regionali previsti dalla richiamata intesa e dalla legislazione vigente.
È opportuno segnalare che, ai sensi del comma 860, per l’applicazione delle misure di cui al comma 865 si fa riferimento ai tempi di pagamento e al ritardo calcolati sulle fatture ricevute e scadute nell’anno precedente e al debito commerciale residuo, di cui all’art. 33 del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni).
Infine, a norma del comma 857, nell’anno 2020 la quota dell’indennità di risultato condizionata al rispetto dei tempi di pagamento è raddoppiata nei confronti degli enti che non hanno richiesto l’anticipazione di liquidità – oggetto della disposizione di cui al comma 849 – entro il termine di cui al comma 853 (fissato al 28 febbraio 2019) e che, avendola ottenuta, non hanno poi effettuato il pagamento dei debiti nel termine fissato.
3.1.– La Regione Lazio lamenta in primo luogo che tutte le disposizioni impugnate avrebbero violato il principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120 della Costituzione, in quanto esse intersecherebbero materie di competenza concorrente (tutela della salute e coordinamento della finanza pubblica) e altre di competenza residuale (ordinamento e organizzazione amministrativa regionale) senza che possa individuarsi una materia prevalente.
In presenza di un intreccio inestricabile, quindi, il legislatore statale avrebbe dovuto prevedere uno strumento partecipativo delle Regioni, tanto a monte, in sede di adozione delle disposizioni impugnate, quanto a valle, nella fase di attuazione delle stesse; quale espressione di tale principio, la ricorrente richiama i cosiddetti patti per la salute e la vigente disciplina sulla dirigenza sanitaria, che, in ottemperanza alla sentenza di questa Corte n. 251 del 2016, è stata preceduta da intesa (decreto legislativo 26 luglio 2017, n. 126, recante «Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, di attuazione della delega di cui all’articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di dirigenza sanitaria»). Del decreto attuativo della delega si richiama, peraltro, l’art. 2, comma 3, che prevede anche un accordo in Conferenza Stato-Regioni per definire i criteri e le procedure per la valutazione dell’attività dei direttori generali.
Con una seconda censura la ricorrente prospetta la violazione dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost.: contraddicendo l’autoqualificazione in tal senso operata dal legislatore, le disposizioni impugnate (in particolare quelle di cui ai commi 857 e 865 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018) non sarebbero ascrivibili in maniera prevalente al coordinamento della finanza pubblica né, comunque, potrebbero essere considerate principi fondamentali di tale materia o di quella della tutela della salute, dato il loro carattere dettagliato e puntuale che precluderebbe qualsiasi possibilità di autonomo adeguamento da parte delle Regioni.
Infine, ad avviso della Regione Lazio, le norme impugnate contrasterebbero con gli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo comma, Cost., in quanto difetterebbero di ragionevolezza e proporzionalità, con ridondanza sulle competenze regionali ai sensi dell’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, Cost.
Al riguardo, si sostiene che per l’effetto delle suddette norme risulterebbe irragionevolmente sacrificata la possibilità di orientare l’azione amministrativa regionale, «in violazione dei principi di buon andamento, differenziazione e adeguatezza», a obiettivi prioritari più attinenti alla tutela della salute, tra cui il perseguimento di un più alto grado di erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
Il denunciato difetto di proporzionalità deriverebbe invece dalla mancata considerazione di circostanze significative quali «il debito commerciale complessivo, i progressi nei termini di pagamento rispetto agli esercizi precedenti, le cause del ritardo, le eventuali responsabilità o al contrario i progressi ottenuti dal singolo dirigente rispetto alla progressiva riduzione del debito commerciale e dei termini di pagamento».
La censura in esame colpirebbe in maniera ancor più evidente la norma contenuta nell’impugnato comma 866. La possibile mancata erogazione della «quota di finanziamento del SSN cui concorre lo Stato» discenderebbe in maniera automatica dal ritardo dei pagamenti, senza che sia dato rilievo ai progressi ottenuti rispetto all’obiettivo e alle specifiche responsabilità in materia, nonché alla complessiva riduzione del debito commerciale residuo.
Inoltre, tale norma sconterebbe un difetto di chiarezza, destinato a incidere «sulla sua intrinseca ragionevolezza», perché non chiarirebbe se l’adempimento da essa richiesto sia riferibile alla sola trasmissione della relazione regionale o alla concreta gestione delle indennità di risultato. Intesa in tale secondo significato, «che sembra plausibile in ragione dell’inciso, contenuto nel comma 866» relativo alle autonomie speciali, la norma non sarebbe comunque idonea a raggiungere lo scopo che si prefigge: la mancata erogazione della quota di finanziamento statale potrebbe, infatti, incidere ulteriormente sul ritardo dei pagamenti.
3.2.– Le censure articolate dalla Provincia autonoma di Trento nei confronti dei commi 857, 865 e 866 della legge n. 145 del 2018, muovono dal presupposto – fin d’ora valutabile corretto – che per le disposizioni impugnate non operi la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 1, comma 1130, della legge n. 145 del 2018, poiché esse menzionano espressamente le Province autonome e hanno un contenuto precettivo prevalente sulla generale clausola di garanzia.
La ricorrente premette anche che la Provincia autonoma di Trento e i suoi enti, tra cui quelli del servizio sanitario, «non sono interessati dal fenomeno del ritardo nei pagamenti dei debiti commerciali, dal momento che la Provincia ha messo in atto, da molti anni, buone prassi, che hanno condotto l’ente e le sue agenzie ad avere, fin dal 2016, un indicatore di tempestività dei pagamenti negativo, cioè dimostrativo di un anticipo dei pagamenti sulla scadenza delle fatture».
Segnala quindi, nella memoria integrativa, la pubblicazione, nelle more del ricorso, della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, in causa C-122/18, Commissione europea contro Repubblica italiana, che ha affermato la responsabilità finale dello Stato italiano indipendentemente dall’ente la cui azione o inerzia abbia dato luogo all’inadempimento. Precisa tuttavia che con le norme impugnate «lo Stato si sta intestando e sta esercitando in via preventiva un potere sostitutivo nei confronti dell’ente sanitario provinciale», alterando il riparto interno delle competenze, al punto di precludere alla Provincia, qualora in futuro dovesse versare nella situazione (al momento esclusa) di ritardo nei pagamenti, di scegliere altri mezzi per la risoluzione del problema.
Nello specifico, nei confronti della disposizione di cui al comma 865 del richiamato art. 1, la ricorrente ravvisa una prima violazione con riferimento all’art. 79, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del Testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), poiché questo consentirebbe allo Stato di dettare norme di coordinamento finanziario condizionanti le potestà legislative delle Province autonome «solo nella misura in cui tali norme articolino limiti statutari alle competenze provinciali», circostanza che nella specie non ricorrerebbe.
Inoltre, tale norma, da un lato autoqualificandosi come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e, dall’altro, incidendo «ratione materiae sulla organizzazione del sistema sanitario», risulterebbe illegittima perché quello della Provincia autonoma è un sistema sanitario interamente finanziato con risorse proprie, per cui lo Stato non avrebbe titolo per dettare norme di coordinamento finanziario.
In ogni caso, la disposizione impugnata sarebbe illegittima per violazione dell’art. 79 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, o comunque degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., nelle parti applicabili alle Province autonome ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), perché quello contenuto nel comma 865 sarebbe «un minuto precetto di dettaglio» che non lascia all’ente autonomo «alcuna libertà in ordine ai modi con i quali conseguire il risultato».
Al riguardo la ricorrente, nella memoria integrativa, precisa che nel diritto costituzionale «il fine» (nel caso di specie il coordinamento della finanza pubblica) «non giustifica qualunque mezzo», potendo tale fine essere attuato, in questo caso, solo con norme di principio.
In quanto norma che incide sulla organizzazione amministrativa e sanitaria della Provincia autonoma, il comma 865 si porrebbe inoltre in contrasto con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige ovvero, se più favorevole, con l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento alla materia della «tutela della salute», in combinato con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
L’ambito materiale regolato dalla norma impugnata inciderebbe, infatti, sulle materie di competenza legislativa primaria dell’organizzazione amministrativa e del personale e sulla materia di competenza concorrente relativa a igiene e sanità, comprensiva dell’assistenza sanitaria e ospedaliera, ovvero su quella della tutela della salute, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., se più favorevole; la disposizione statale, inoltre, conformerebbe in modo diretto anche l’esercizio delle funzioni amministrative che l’art. 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige riserva alla Provincia.
D’altro canto, la ricorrente evidenzia di avere già compiutamente regolato tale settore con la legge della Provincia autonoma di Trento 23 luglio 2010, n. 16 (Tutela della salute in provincia di Trento); e, con specifico riferimento alla figura del direttore generale, precisa che la citata disciplina affida alla Giunta provinciale sia il compito di approvare lo schema di contratto (art. 28, comma 6), sia quello di stabilire «criteri e modalità per la valutazione dell’attività del direttore generale, con riferimento agli obiettivi assegnatigli e alla qualità complessiva dell’offerta assistenziale assicurata dall’azienda» (art. 28, comma 7).
In tale contesto, la norma impugnata non potrebbe essere qualificata né come norma fondamentale di grande riforma né come principio fondamentale della materia «igiene e sanità» o «tutela della salute», in ragione del suo carattere estremamente dettagliato e dell’assenza «di collegamento teleologico con le specifiche materie interessate dalla misura».
Il richiamato comma 865 sarebbe, in ogni caso, illegittimo in quanto norma immediatamente applicabile e, quindi, lesiva dell’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra gli atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), che prevede, invece, un mero obbligo di adeguamento della legislazione provinciale.
Per quanto riguarda la disposizione di cui all’art. 1, comma 866, della legge n. 145 del 2018, la ricorrente appunta l’impugnazione sul suo terzo periodo, laddove si prevede che le Regioni a statuto speciale e le Province autonome relazionano «sullo stato di applicazione del comma 865» al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali di cui all’art. 12 dell’intesa raggiunta in Conferenza Stato-Regioni il 23 marzo 2005.
Ove il comma 866 sia inteso come statuente un vero e proprio obbligo a carico della Provincia autonoma, la ricorrente ne ravvisa un primo motivo di illegittimità in via consequenziale dagli stessi argomenti di censura del comma 865, essendo gli obblighi sanciti da entrambe le disposizioni strutturalmente inscindibili. Una volta dichiarata la illegittimità di quest’ultimo, l’obbligo previsto dal comma successivo diverrebbe dunque privo di oggetto o comunque del tutto irragionevole, con violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.
La norma sarebbe comunque elusiva dell’intesa del 23 marzo 2005 in quanto neutralizzerebbe la clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 13 di tale accordo, rendendo direttamente applicabile un monitoraggio che l’intesa non prevedeva come obbligatorio. E ciò dimostrerebbe la violazione anche del principio di leale collaborazione radicato nell’art. 120, secondo comma, Cost. e del principio di ragionevolezza ricavabile dall’art. 3, primo comma, Cost., in quanto la legge ordinaria dello Stato non potrebbe strumentalizzare l’istituto del tavolo tecnico di monitoraggio neutralizzando le specifiche condizioni in base alle quali esso è stato attivato.
La denunciata irragionevolezza ridonderebbe, secondo la ricorrente, sull’esercizio delle funzioni provinciali, poiché costringerebbe l’ente a un’attività di monitoraggio e di redazione di particolari relazioni «non correlata a una esigenza propria della funzione provinciale».
Infine, il comma 857 è impugnato ove interpretato nel senso che il raddoppio della quota dell’indennità di risultato dei dirigenti sanitari apicali condizionata al rispetto dei tempi di pagamento sia disposto per il solo fatto dell’assenza della richiesta di anticipazione della liquidità: se così fosse, ne conseguirebbe «un obbligo di ricorrere a tali anticipazioni al solo fine di evitare la responsabilità per il tardivo pagamento dei debiti», con violazione per difetto di ragionevolezza e proporzionalità dell’art. 3, primo comma, Cost., con riflesso sull’autonomia finanziaria dell’ente e sull’esercizio delle funzioni attribuite alle Province autonome dagli artt. 8, 9 e 16 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dall’art. 117, terzo comma, Cost., per effetto dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Si prospetta inoltre la violazione dell’autonomia finanziaria e di bilancio riconosciuta alla Provincia autonoma dal Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e dall’art. 119 Cost., anche in relazione con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.
3.3.– Anche il ricorso della Provincia autonoma di Bolzano correttamente esclude che per le disposizioni impugnate possa trovare applicazione la generale clausola di salvaguardia contenuta nella legge n. 145 del 2018; parimenti, ritiene non corretta l’autoqualificazione affermata dall’art. 1, comma 858, della stessa legge.
Quanto alla disposizione di cui al comma 865, la ricorrente ne ravvisa la illegittimità sia con riferimento ai parametri prospettati dall’altra Provincia, sia ad altri. In particolare, la violazione delle competenze legislative provinciali e delle corrispondenti funzioni amministrative in materia di organizzazione amministrativa e di tutela della salute viene prospettata anche con riferimento all’art. 4, numero 7), dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); infatti, sulla base di tali previsioni, l’art. 1 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 20 gennaio 1992, n. 1 (Norme sulle modalità di gestione delle funzioni dirette alla tutela della salute), attribuisce alla potestà legislativa delle Province autonome di Trento e di Bolzano la competenza in materia di dimensioni, numero, modalità di funzionamento e organizzazione delle aziende sanitarie.
A tale riguardo, la ricorrente rileva di avere esercitato le proprie competenze con la legge della Provincia autonoma di Bolzano 21 aprile 2017, n. 3 (Struttura organizzativa del Servizio sanitario provinciale).
Quanto ai profili di censura delle norme impugnate ove ricondotte alla materia del coordinamento finanziario, la ricorrente li articola evocando i parametri già richiamati nell’esposizione del ricorso precedente nonché gli artt. 103, 104 e 107, il Titolo II e il Titolo VI dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, l’intero decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) e l’accordo concluso tra il Governo, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 15 ottobre 2014. Nel complesso, contesta la incoerenza delle disposizioni impugnate con il quadro delle relazioni finanziarie tra Stato e Provincia autonoma di Bolzano e in ogni caso lamenta la loro adozione in via unilaterale e immediatamente vincolante, in contrasto con il principio di leale collaborazione e delle procedure di modifica statutaria.
Comuni al ricorso dell’altra Provincia sono poi la censura motivata sul finanziamento con risorse proprie provinciali del servizio sanitario, che precluderebbe allo Stato di esercitare la competenza di coordinamento finanziario, e quella sulla violazione del meccanismo di adeguamento previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, cui si aggiunge, in via subordinata, la prospettata violazione dell’art. 107 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige in relazione al procedimento dallo stesso disciplinato per l’emanazione delle relative norme di attuazione.
Infine, comuni al ricorso dell’altra Provincia sono le censure rivolte alla norma di cui al comma 866.
3.4.– Alle censure mosse dalle ricorrenti, l’Avvocatura generale dello Stato oppone una preliminare considerazione, basata sulla persistenza di ritardi, registrati da numerose amministrazioni pubbliche, nel pagamento dei debiti commerciali. Considerato che del rispetto di tale normativa, di fonte europea, è responsabile lo Stato, l’adozione delle disposizioni impugnate – e delle altre a queste connesse – sarebbe stata necessaria, anche per rispondere al ricorso presentato nei confronti dell’Italia dalla Commissione europea per infrazione alla direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Pertanto, le disposizioni impugnate introdurrebbero legittimamente principi di coordinamento della finanza pubblica, applicabili anche alle autonome speciali; non sarebbe direttamente coinvolta la materia della tutela della salute, né altre materie di competenza regionale o provinciale, in quanto il legislatore non avrebbe inciso i profili pubblicistico-organizzativi della dirigenza pubblica, ma operato sui contratti di lavoro dei dirigenti, al fine di rendere questi ultimi effettivamente coinvolti nella corretta gestione del sistema dei pagamenti.
Lo Stato avrebbe, dunque, esercitato una competenza «assolutamente generale e prevalente» rispetto a quella ritenuta lesa dalle ricorrenti, «non appalesandosi necessaria l’adozione di iniziative di condivisione con gli enti territoriali».
Si precisa inoltre, da un lato, che il comma 865, in coerenza con il principio di proporzionalità, gradua le misure di garanzia in relazione alla gravità dell’inadempimento. Dall’altro, che nulla sarebbe innovato per gli enti virtuosi in quanto il presupposto per l’applicazione della norma è il mancato rispetto dei tempi di pagamento.
Infondate sarebbero anche le censure fondate sulle specificità del sistema di finanziamento sanitario provinciale e sulla conseguente carenza di titolo da parte dello Stato a disciplinare la materia: la ratio delle norme impugnate sarebbe del tutto svincolata dal mancato concorso dello Stato al finanziamento del servizio sanitario provinciale.
Quanto alle censure sul carattere eccessivamente dettagliato della norma, l’Avvocatura generale dello Stato replica sia sostenendo che alle Regioni e alle Province autonome sarebbe lasciato comunque un margine di intervento, sia ricordando che nella valutazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica questa Corte in più occasioni avrebbe escluso «criteri formalistici e meramente “quantitativi”» valorizzando, invece, le finalità perseguite da tali norme.
Le norme impugnate sarebbero, inoltre, pienamente ragionevoli e proporzionate laddove, in maniera non illogica né gravosa, prescrivono modalità di monitoraggio e, eventualmente, interventi correttivi.
Al riguardo la previsione dell’impugnato comma 866 darebbe piena attuazione al coordinamento della finanza pubblica, il quale implicherebbe, oltre all’esercizio del potere legislativo, anche quello di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo.
L’Avvocatura generale dello Stato ritiene infine infondate le censure sul comma 857, in quanto la disposizione non si applicherebbe all’ente che sia abitualmente rispettoso dei termini di pagamento dei debiti commerciali e degli obblighi di riduzione del debito residuo e che non evidenzi, quindi, un «comportamento incauto».
4.– Preliminarmente, va rilevato che l’impugnato comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 è stato abrogato dall’art. 50, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 ottobre 2019, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, in legge 19 dicembre 2019, n. 157. Come riconosciuto dalle ricorrenti, lo ius superveniens è di per sé idoneo a soddisfare le loro pretese e, d’altro canto, il contenuto precettivo della norma impugnata è tale che questa non può avere ricevuto applicazione medio tempore: infatti, essa era destinata a operare «[n]ell’anno 2020», sì che la sua abrogazione è intervenuta prima che il meccanismo del “raddoppio” dalla stessa congegnato divenisse applicabile.
Va pertanto dichiarata cessata la materia del contendere delle questioni che hanno a oggetto il comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, sussistendo entrambe le condizioni richieste dalla consolidata giurisprudenza della Corte (da ultimo, sentenza n. 287 del 2019).
5.– L’esame del merito delle residue disposizioni impugnate rende opportuno precisare il contesto in cui esse si inseriscono, che è quello del ritardo nel pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni, considerato sotto i suoi profili macroeconomici.
La disciplina dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie dei soggetti pubblici ha infatti una notevole incidenza sul sistema economico, in considerazione del ruolo di acquirenti di beni, servizi e prestazioni rivestito dalle amministrazioni pubbliche e dell’ingente quantità di risorse a tal fine impiegate.
L’importanza del fenomeno è stata recepita dalla direttiva 2011/7/UE, sia rimarcando la necessità di «un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi» (considerando n. 12), sia evidenziando che i «ritardi di pagamento influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria delle imprese. Essi compromettono anche la loro competitività e redditività quando il creditore deve ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di ritardi nei pagamenti. Il rischio di tali effetti negativi aumenta considerevolmente nei periodi di recessione economica, quando l’accesso al finanziamento diventa più difficile» (considerando n. 3).
D’altronde i tardivi pagamenti rischiano di pregiudicare anche «il corretto funzionamento del mercato interno», nonché «la competitività delle imprese e in particolare delle PMI», valori che la direttiva, all’art. 1, eleva a suoi principali obiettivi.
Il legislatore italiano, conformandosi a tale direttiva e in risposta all’ingente ammontare maturato dei debiti commerciali delle pubbliche amministrazioni, nell’ultimo decennio ha dato avvio a specifiche misure per incidere su tale patologica situazione.
Del resto, la stessa giurisprudenza di questa Corte, già a ridosso del recepimento della direttiva 2011/7/UE, ha sottolineato la gravità del problema, evidenziando che «il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione è obiettivo prioritario […] non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente» (sentenza n. 250 del 2013). Va infatti considerato anche il rilevante tema dell’esposizione debitoria per interessi passivi per ritardati pagamenti che, in considerazione anche del loro specifico e oneroso criterio di calcolo, riduce le effettive risorse da destinare alle finalità istituzionali.
Nello specifico le misure adottate dal legislatore italiano si sono mosse principalmente in tre direzioni: a) imposizione di limiti più stringenti ai tempi di pagamento: decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 (Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, per l’integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a norma dell’articolo 10, comma 1, della legge 11 novembre 2011, n. 180); b) incentivazione della cessione a intermediari finanziari dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni e della utilizzazione degli stessi in compensazione di debiti tributari: art. 7, comma 1, del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35 (Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali, nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali), convertito, con modificazioni, in legge 6 giugno 2013, n. 64; art. 12, comma 7-bis, del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 9; c) concessione straordinaria di liquidità agli enti debitori per ridurre lo stock del debito accumulato: artt. 1, 2 e 3 del d.l. n. 35 del 2013, come convertito, nonché articoli da 32 a 35 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, in legge 23 giugno 2014, n. 89.
5.1.– Le riforme introdotte e le risorse stanziate per correggere tale patologia, se hanno consentito indubbi miglioramenti rispetto alla situazione preesistente, non sono state però sufficienti a riportare a dimensioni fisiologiche il problema.
Nell’ultimo referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei Servizi sanitari regionali, riferita all’esercizio 2017, approvato dalla Corte dei conti, sezione delle autonomie, con delibera 12 giugno 2019, n. 13, la situazione dei tempi di pagamento e dell’entità complessiva del debito commerciale risultava ancora alquanto variegata. A fronte del diffuso miglioramento che pure è stato riscontrato, il referto invita a non «affievolire le iniziative intraprese dai diversi livelli di governo per ridurre e tendere alle tempistiche prescritte dalla normativa sia europea, sia nazionale», tuttora non assicurate in numerose Regioni; a tal fine, sottolinea l’utilità della introduzione della fatturazione elettronica e di altri strumenti e procedure di gestione della liquidità che, sperimentati in alcune realtà regionali, hanno contribuito alla riduzione dell’esposizione debitoria e dei tempi medi dei pagamenti.
Infine, nella causa C-122/18 – a seguito del ricorso per inadempimento, ai sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, proposto il 14 febbraio 2018 dalla Commissione europea – con sentenza pubblicata il 28 gennaio 2020, la Corte di giustizia, grande sezione, rimarcando la necessità di «un passaggio deciso verso una cultura dei pagamenti rapidi», ha dichiarato – in base alla situazione che si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato (16 aprile 2017) – il venir meno della Repubblica italiana agli obblighi che discendono dall’art. 4 («Transazioni fra imprese e pubbliche amministrazioni»), paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE.
Nella motivazione la sentenza ha peraltro precisato che l’inadempimento di uno Stato membro può, in linea di principio, essere dichiarato ai sensi dell’art. 258 TFUE anche se derivante dall’azione o dall’inerzia di un’istituzione costituzionalmente autonoma: ne consegue che lo Stato italiano è considerato responsabile anche dei ritardi degli enti territoriali.
5.2.– È questo dunque il contesto in cui devono essere considerate le disposizioni impugnate che si inseriscono a loro volta in un insieme sistematico di ulteriori interventi predisposto dalla stessa legge n. 145 del 2018 per contrastare il fenomeno dei ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni.
Si tratta di interventi riconducibili a una duplice direttrice: a) l’ampliamento della possibilità, per gli enti territoriali (anche per conto dei rispettivi enti del SSN), di ricorrere nel 2019 ad «anticipazioni di liquidità» (comma 849 e commi da 850 a 856); b) l’introduzione di misure finalizzate a conseguire il rispetto dei tempi di pagamento e a ridurre l’importo del debito commerciale residuo da parte delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato, differenziate a seconda della natura dell’amministrazione e della relativa disciplina contabile (commi da 859 a 866).
5.3.– Tanto premesso le questioni sollevate dalle ricorrenti con riguardo al comma 865 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018, che si colloca all’interno del secondo ordine di interventi, non sono fondate.
Al fine della valutazione delle censure esposte nei ricorsi è necessario, anzitutto, individuare a quali titoli di competenza sia riconducibile la disposizione in oggetto, non essendo decisiva in tal senso, come del resto riconosciuto da tutte le ricorrenti, l’autoqualificazione in termini di «princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione» che ne dispone il comma 858 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018.
Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, infatti, l’autoqualificazione non ha carattere precettivo e vincolante al punto da porsi quale presupposto indiscusso per la valutazione della legittimità costituzionale della norma cui essa si riferisce (ex multis, sentenze n. 246 e n. 94 del 2018): la natura della stessa va, infatti, comunque verificata con riguardo «all’oggetto, alla ratio e alla finalità» (sentenza n. 164 del 2019) che ne costituiscono l’effettiva sostanza.
A questo riguardo si deve rilevare che oggetto della norma impugnata sono i singoli contratti di lavoro dei direttori generali e dei direttori amministrativi degli enti sanitari delle Regioni e delle Province autonome, che ricadono, in quanto tali, nell’ambito dell’ordinamento civile.
Infatti, secondo l’art. 3-bis, comma 8, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), «[i]l rapporto di lavoro del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario è esclusivo ed è regolato da contratto di diritto privato, di durata non inferiore a tre e non superiore a cinque anni, rinnovabile, stipulato in osservanza delle norme del titolo terzo del libro quinto del codice civile».
In questo ambito la norma impugnata interviene, con una disciplina indubbiamente di dettaglio, a limitare l’autonomia delle parti per quanto attiene alla specifica componente del trattamento economico costituita dalla indennità di risultato: ove l’ente non abbia rispettato i tempi di pagamento previsti dalla legislazione vigente, per un verso viene prescritto l’inserimento nel contratto di uno specifico obiettivo volto al rispetto di tali tempi, mentre, per altro verso, si stabilisce che a questo obiettivo va condizionata una quota della indennità non inferiore al 30 per cento di quella contrattualmente prevista, prescrivendosi altresì il criterio per il suo riconoscimento, graduato in funzione della maggiore o minore consistenza del ritardo nei pagamenti.
La norma impugnata incide, in questi termini, sul trattamento economico di dirigenti, anche già in servizio, negli enti sanitari regionali, dettando, al verificarsi del mancato rispetto dei tempi di pagamento previsti dalla legislazione vigente, una disciplina speciale e dettagliata dell’indennità di risultato.
Secondo il costante orientamento di questa Corte il trattamento economico dei dipendenti pubblici – compresa la disciplina «delle varie componenti della retribuzione» (sentenza n. 19 del 2013) – «va ricondotto alla materia dell’“ordinamento civile”, prevalendo quest’ultimo ambito di competenza su ogni tipo di potestà legislativa delle Regioni» (sentenza n. 153 del 2015; nello stesso senso, sentenza n. 196 del 2018) e anche delle autonomie speciali (da ultimo, sentenza n. 138 del 2019).
Con la disposizione in esame, dunque, il legislatore ha utilizzato una norma, il cui oggetto è un istituto retributivo di contratti di natura privata, per realizzare in via mediata una finalità che è, questa sì, riconducibile al coordinamento dinamico della finanza pubblica, in quanto diretta a «“riorientare” la spesa pubblica» (sentenza n. 272 del 2015) verso il rispetto dei tempi di pagamento stabiliti dalla direttiva 2011/7/UE e dalla pertinente legislazione nazionale.
Tale intervento statale ha bensì riflessi sulle diverse competenze regionali e provinciali relative alla organizzazione sanitaria evocate dalle ricorrenti, ma si tratta a ben vedere di una incidenza mediata, inevitabilmente connessa al carattere trasversale delle competenze statali cui tale intervento è comunque riconducibile in via prevalente; inoltre, con riguardo alla specifica censura delle Province autonome, va anche precisato che – come rilevato dalla difesa erariale – la ratio della norma è del tutto svincolata dal mancato concorso dello Stato al finanziamento del servizio sanitario di queste ultime.
Peraltro, l’autonomia regionale e provinciale, così come declinata dalle ricorrenti in relazione allo specifico oggetto, non è stata svuotata o intaccata nel suo nucleo essenziale dal perseguimento di tale finalità di coordinamento, ma soltanto limitata: la quota dell’indennità di risultato stabilita direttamente dalla legge statale è, infatti, circoscritta alla percentuale del 30 per cento, senza incidere su quella restante.
Tale conclusione porta a escludere che, come invece suggestivamente sostenuto dalla Provincia autonoma di Trento, il legislatore statale abbia abusato del mezzo (la norma di dettaglio) per perseguire un determinato fine (pur riconosciuto come meritorio): al contrario, quest’ultimo (riconducibile nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica) è stato perseguito dal legislatore statale attraverso l’utilizzo, prevalente e non eccessivamente invasivo, del proprio titolo di competenza in materia di ordinamento civile. Ciò che fa venir meno ogni questione sollevata sul carattere di dettaglio della disposizione censurata e sulla violazione dell’autonomia regionale e provinciale, destituendo di fondamento anche le censure sollevate dalle Province autonome con riguardo al meccanismo di adeguamento (che non trova applicazione nelle ipotesi in cui venga in rilievo una competenza legislativa esclusiva dello Stato) previsto dall’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992 (sentenza n. 28 del 2014) e richiamato anche dall’art. 79, comma 4, dello statuto reg. Trentino-Alto Adige.
Da tutto ciò discende, infine, che, siccome in relazione alla norma impugnata non sussiste quell’inestricabile intreccio di competenze statali e regionali che in altra occasione – quando però la disciplina statale coinvolgeva anche precipui aspetti pubblicistici della dirigenza sanitaria – ha condotto questa Corte ad affermare la necessità della leale collaborazione (sentenza n. 251 del 2016), risulti infondata anche la censura svolta in tal senso dalla Regione Lazio e dalla Provincia autonoma di Bolzano.
Né una contraria conclusione può discendere dalla considerazione dell’art. 2, comma 3, del decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 171, recante «Attuazione della delega di cui all’articolo 11, comma 1, lettera p), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di dirigenza sanitaria», evocato dalla Regione Lazio in quanto assume a presupposto della sua attuazione un accordo da sancire in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
Basta infatti rilevare che se da un lato tale norma, nell’ambito della disciplina dei criteri e delle procedure per valutare e verificare l’attività dei direttori generali, si riferisce alla programmazione regionale per la definizione degli obiettivi (lettera a), tuttavia, dall’altro, alla lettera d), fa riferimento anche a «ulteriori adempimenti previsti dalla legislazione vigente»: fattispecie in cui può già direttamente sussumersi (prima quindi dell’accordo, che ancora non è intervenuto) anche quanto introdotto dalla disposizione censurata.
5.3.1.– Il comma 865 dell’art. 1 è impugnato in particolare dalla sola Regione Lazio anche per violazione degli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo comma, Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità.
Le censure sono ammissibili perché la ricorrente ne ha sufficientemente motivato, come si è in precedenza descritto, la ridondanza sulle attribuzioni ad essa costituzionalmente garantite.
Anche tali censure sono infondate.
La norma in oggetto, con la quale, come detto, è stato disciplinato un istituto retributivo per finalizzarlo al conseguimento di un obiettivo di coordinamento della finanza pubblica, si differenzia da altre norme statali, parimenti dirette alle medesime finalità ma dal carattere marcatamente “lineare”, che sono state in passato dichiarate costituzionalmente illegittime da questa Corte.
In particolare, nella sentenza n. 272 del 2015 il mancato superamento del test di proporzionalità discendeva da una duplice considerazione: in primo luogo perché la norma impugnata determinava, per il mancato rispetto, anche minimo, dei tempi di pagamento previsti, una completa e automatica compressione dell’autonomia regionale attraverso la sanzione del blocco totale delle assunzioni; in secondo luogo perché essa finiva per penalizzare maggiormente quelle Regioni che avevano virtuosamente ridotto la propria spesa per il personale, impedendo ad esse di potenziare la propria dotazione di personale anche quando questa fosse stata funzionale proprio a rispondere al problema dei tardivi pagamenti.
Ben diversa è la struttura della norma censurata nel presente giudizio, perché essa: a) esclude l’applicazione delle misure in questa contenute qualora l’ente rispetti i tempi di pagamento (per cui, come rilevato dalla difesa statale, nulla è innovato «per gli enti virtuosi») e in ogni caso gradua tali misure in relazione alla gravità dell’inadempimento; b) non determina, come già rilevato al punto precedente, uno svuotamento dell’autonomia regionale, bensì una sua circoscritta limitazione: tenuto anche conto della sopravvenuta abrogazione del comma 857 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 e del possibile “raddoppio” da esso previsto, la percentuale della indennità espressamente correlata al singolo obiettivo del rispetto dei tempi di pagamento non è tale da sbilanciare il meccanismo su cui si basa l’indennità di risultato, lasciando infatti ampio margine (il restante 70 per cento dell’indennità) per la remunerazione del complesso degli altri obiettivi contrattualmente assegnati al dirigente. Non si può quindi ritenere che sia stata eccessivamente sacrificata, in violazione dei principi di «buon andamento, differenziazione e adeguatezza», come invece ritenuto dalla ricorrente, la possibilità di orientare l’azione amministrativa regionale ad altri obiettivi ritenuti prioritari, come quello di un più alto grado di erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
Va poi considerato che la ratio della disposizione impugnata è compatibile con la funzione della indennità di risultato. Infatti, l’accentuazione dei profili manageriali del rapporto di lavoro proprio del direttore generale (e in sostanza anche del direttore amministrativo che lo coadiuva) degli enti sanitari – rinvenibile nel riconoscimento che egli «è responsabile della gestione complessiva» dell’azienda e che a lui sono riservati «[t]utti i poteri di gestione» (così l’art. 3, commi 1-quater e 6, del d.lgs. n. 502 del 1992) – fa sì che la disciplina della specifica componente retributiva in esame si giustifichi in relazione all’ampiezza dei poteri decisionali e operativi che ineriscono alle obbligazioni contrattualmente assunte dal direttore generale, potendo egli indirizzare il funzionamento delle strutture verso il raggiungimento dell’obiettivo cui è condizionata la quota della indennità.
Nemmeno si può ritenere che il denunciato difetto di proporzionalità deriverebbe, come sostenuto dalla ricorrente, dalla mancata considerazione di circostanze significative quali «il debito commerciale complessivo, i progressi nei termini di pagamento rispetto agli esercizi precedenti, le cause del ritardo, le eventuali responsabilità o al contrario i progressi ottenuti dal singolo dirigente rispetto alla progressiva riduzione del debito commerciale e dei termini di pagamento».
È pur vero che nella sentenza n. 272 del 2015 è stato dato rilievo, nel test di proporzionalità, anche alla «mancata considerazione della causa del ritardo» e al fatto che questo poteva derivare anche «dal mancato trasferimento di risorse da parte di altri soggetti», ma tale argomentazione – certamente plausibile in un sistema rimasto ancora largamente strutturato in termini di finanza derivata – non appare decisiva nella presente valutazione di costituzionalità, in ragione del limitato impatto che la norma censurata, a differenza di quella considerata nel precedente citato, produce sulla autonomia regionale.
Da un lato quindi, per le ragioni sottolineate al punto 5., si deve riscontrare la legittimità dello scopo perseguito dal legislatore nazionale e, dall’altro, per le considerazioni appena svolte, si può concludere che i mezzi approntati per rispondervi, anche in considerazione della gravità del problema, superino il vaglio di questa Corte alla luce degli standard di necessità e proporzionalità.
5.4. – Infine, neppure le censure sollevate dalle ricorrenti con riguardo al comma 866 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 sono fondate.
Preliminarmente va rilevato che le censure riferite agli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo comma, Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità dalla Regione Lazio e quelle riferite all’art. 3, Cost., per difetto di ragionevolezza, dalle Province autonome sono ammissibili perché le ricorrenti, come si è in precedenza descritto, ne hanno sufficientemente motivato la ridondanza sulle loro attribuzioni costituzionalmente garantite.
Nel merito occorre innanzitutto premettere che la disposizione censurata non si connota come del tutto innovativa, poiché in concreto si limita ad ampliare un obbligo di trasmissione al Tavolo di verifica degli adempimenti regionali già disposto dall’art. 41, comma 4, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
In base a tale disposizione, infatti, le Regioni, con riferimento agli enti del SSN, devono trasmettere al menzionato Tavolo di verifica una relazione contenente: a) le informazioni sulle attestazioni dell’importo dei pagamenti effettuati oltre il termine di legge nonché quelle sull’indicatore annuale di tempestività dei pagamenti e b) le iniziative assunte in caso di superamento dei tempi di pagamento previsti dalla legislazione vigente. È già altresì previsto che «[l]a trasmissione della relazione e l’adozione da parte degli enti delle misure idonee e congrue eventualmente necessarie a favorire il raggiungimento dell’obiettivo del rispetto della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, sui tempi di pagamenti costituisce adempimento regionale» ai fini e per gli effetti della erogazione della quota premiale del finanziamento statale al SSN.
Rispetto quindi alla struttura normativa previgente la norma impugnata aggiunge unicamente l’obbligo della trasmissione di una «relazione in merito all’applicazione e agli esiti del comma 865», senza farne in alcun modo discendere le conseguenze paventate dalla ricorrente Regione Lazio, secondo cui la erogazione della quota premiale spetterebbe solo se ai direttori venisse riconosciuta per intero la quota di indennità di risultato di cui al comma 865. Infatti, ciò che costituisce adempimento regionale è, in base alla norma impugnata, unicamente la mera trasmissione della relazione, non il raggiungimento dell’obiettivo, che invece in tal senso può rilevare per l’effetto della previgente disposizione del citato art. 41, comma 4, e non di quella qui in oggetto.
La norma impugnata, infine, chiarisce che per le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano, l’obbligo è meramente quello di relazionare al suddetto Tavolo «sullo stato di applicazione del comma 865», senza prevedere che l’eventuale inadempimento rilevi ai fini e per gli effetti della erogazione della quota premiale del finanziamento statale al SSN, atteso che le suddette Province finanziano i rispettivi servizi sanitari senza partecipare al Fondo sanitario nazionale.
5.4.1. – Tanto chiarito le norme dettate dal comma 866, anche in disparte l’autoqualificazione disposta dal comma 858 dell’art. 1 della stessa legge n. 145 del 2018, possono essere ricondotte nell’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica.
A tale affermazione non osta la peculiare formulazione del comma 866 che, ad avviso delle ricorrenti, non sarebbe espressiva di un principio fondamentale ma di una norma chiaramente di dettaglio.
Questa Corte, infatti, ha precisato che il carattere finalistico che tipicamente caratterizza l’azione di coordinamento dinamico della finanza pubblica – per sua natura spesso eccedente le possibilità di intervento dei livelli territoriali sub-statali – giustifica l’esigenza che, in determinate ipotesi, attraverso l’esercizio del relativo titolo di competenza, il legislatore statale possa collocare a livello centrale anche poteri puntuali di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di rilevazione di dati e di controllo, qualora questo sia indispensabile perché la finalità di coordinamento venga concretamente realizzata (ex plurimis, sentenza n. 229 del 2011).
In questo caso, infatti, anche «norme puntuali», adottate dal legislatore per realizzare in concreto le finalità del coordinamento finanziario, «possono essere ricondotte nell’ambito dei principi di coordinamento della finanza pubblica» (sentenza n. 153 del 2015): è il chiaro finalismo insito in tale genere di disposizioni che porta ad escludere che in relazione a tali specifiche fattispecie possa invece formalisticamente invocarsi, per sostenerne l’illegittimità costituzionale, «la logica della norma di dettaglio» (sentenza n. 153 del 2015).
Nella specie l’obiettivo perseguito dalla norma impugnata è quello di conseguire a livello nazionale puntuali informazioni sul rispetto degli impegni assunti a livello europeo – dei quali, come visto, lo Stato è il responsabile finale – in tema di tempestività dei pagamenti da parte di tutte le amministrazioni pubbliche: poiché tale obiettivo, dato il suo carattere sovra regionale, non potrebbe essere altrimenti efficacemente perseguito, si deve ritenere altresì prevalente, in relazione alla specifica fattispecie, la competenza azionata dal legislatore statale in materia di coordinamento della finanza pubblica.
Ciò determina l’infondatezza delle censure delle ricorrenti basate sulla violazione del riparto di competenze, nonché di quella sul principio di leale collaborazione prospettata dalla Regione Lazio, rispetto alla quale va, peraltro, anche rilevato che l’adempimento richiesto non risulta nemmeno eccentrico rispetto ai caratteri degli adempimenti pattiziamente concordati nell’intesa del 23 marzo 2005 (previsti dall’art. 6) e tradizionalmente oggetto di monitoraggio da parte del Tavolo di verifica degli adempimenti regionali.
Infondate sono anche le restanti censure della Regione Lazio: i limitati obblighi imposti all’autonomia regionale, infatti, si giustificano in presenza di una situazione patologica, ossia quando gli enti del SSN non rispettano i tempi di pagamento previsti dalla legislazione nazionale, a loro volta richiesti da fonti europee. Non si può pertanto ritenere che la norma difetti di proporzionalità e ragionevolezza: «[p]revisioni di questo tipo sono dirette a fronteggiare una situazione che provoca gravi conseguenze per il sistema produttivo (soprattutto per le piccole e medie imprese) e a favorire la ripresa economica, con effetti positivi anche per la finanza pubblica» (sentenza n. 272 del 2015), senza che la rivendicazione dell’autonomia regionale possa credibilmente contrapporsi al limitato obbligo imposto dalla norma censurata, dal momento che questa, in sostanza, non si applica in presenza di una situazione fisiologica.
Nemmeno fondate sono le altre censure sviluppate dalle Province autonome in ordine all’obbligo di relazionare (in questo caso previsto, come si è detto, senza ulteriore conseguenza) al suddetto Tavolo: quelle relative all’art. 3 Cost., per gli stessi argomenti testé esposti; quelle relative alla violazione della clausola di salvaguardia prevista dall’art. 13 della ricordata intesa del 23 marzo 2005, perché questa non può costituire limite assoluto all’esercizio della descritta competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, che come si è visto, è stata esercitata in forma sostanzialmente compatibile con lo statuto di autonomia e le relative norme di attuazione; quelle relative al mancato rispetto dell’intermediazione del procedimento di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, perché la norma impugnata appresta una misura di reazione a una (ipotetica) situazione di mancato rispetto dei tempi di pagamento, sì che tale contenuto sanzionatorio, in forza della necessaria omogeneità su base nazionale, non è idoneo a violare il citato art. 2 (sentenza n. 77 del 2019).
6.– Anche il ricorso della Regione Siciliana ha a oggetto misure in tema di ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali delle pubbliche amministrazioni e, in particolare, le previsioni dettate dall’art. 1, commi 857, 859, 862 e 863, della legge n. 145 del 2018 per le amministrazioni diverse da quelle dello Stato che adottano la contabilità finanziaria.
Nel loro combinato disposto, tali previsioni, inizialmente destinate a divenire operative a partire dal 2020 e differite al 2021 per effetto dell’art. 1, comma 854, lettera a), della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), impongono alle predette amministrazioni di stanziare in bilancio un accantonamento denominato “fondo di garanzia debiti commerciali” se nell’esercizio precedente hanno presentato un indicatore di ritardo annuale dei pagamenti non rispettoso dei termini fissati dall’art. 4 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali); l’importo dell’accantonamento è graduato in percentuale crescente in relazione all’entità del ritardo ed è riferito allo stanziamento della spesa prevista per acquisto di beni e servizi. Analogo obbligo è previsto se il debito commerciale residuo dell’ente non si sia ridotto di almeno il 10 per cento nei due anni precedenti.
Sul fondo così stanziato non è possibile disporre impegni e pagamenti, mentre è previsto che a fine esercizio esso confluisce nella quota libera del risultato di amministrazione. Infine, l’accantonamento al predetto fondo deve essere adeguato nel corso dell’esercizio alle eventuali variazioni di bilancio relative agli stanziamenti della spesa per acquisto di beni e servizi.
Ai sensi del comma 857, poi, nell’anno 2020 l’accantonamento è raddoppiato nei confronti degli enti che non hanno richiesto l’anticipazione di liquidità – oggetto della disposizione di cui al comma 849 – entro il termine di cui al comma 853 (fissato al 28 febbraio 2019) e che, avendola ottenuta, non hanno effettuato il pagamento dei debiti nel termine fissato.
6.1.– Ad avviso della ricorrente, il sistema delineato dalla legge di bilancio muoverebbe dall’assunto che i ritardi nei pagamenti delle amministrazioni pubbliche «siano da imputare esclusivamente a mancanza di liquidità», senza considerare che nella Regione Siciliana non sempre questa ne sarebbe la causa: si richiama al riguardo una – peraltro non specificata – dichiarazione della ragioneria generale dell’ente.
Pertanto, le disposizioni impugnate recherebbero alla ricorrente «un pregiudizio in termini finanziari la cui consistenza appare sproporzionata rispetto alle eventuali violazioni rilevate».
L’accantonamento previsto determinerebbe infatti, in forza del divieto di disporre impegni e pagamenti a valere sul fondo da istituire, «l’indisponibilità di risorse finanziarie con effetti negativi sugli equilibri del bilancio regionale».
Inoltre, richiamando la sentenza n. 272 del 2015, la ricorrente sostiene che le modalità individuate dal legislatore statale per raggiungere l’obiettivo di evitare i ritardi nei pagamenti non supererebbero il test di proporzionalità. Omettendo di considerare la causa del ritardo esse, infatti, risulterebbero inidonee a conseguire la loro finalità perché, qualora il ritardo stesso sia «derivante da difficoltà oggettive o da fattori esterni», l’effetto auspicato non sarebbe raggiunto né dalla facoltà di accedere all’anticipazione di liquidità prevista dalla legge n. 145 del 2018, che finirebbe per assumere il carattere della doverosità, né dall’obbligo di prevedere in bilancio l’accantonamento.
Secondo la ricorrente, da tanto conseguirebbe che «il sistema sanzionatorio introdotto dalle disposizioni della Legge di Bilancio per il 2019» sarebbe in contrasto sia con il principio di proporzionalità di cui all’art. 3, primo comma, Cost., sia con il principio di buon andamento di cui all’art. 97, secondo comma, Cost., ridondando in una lesione dell’autonomia finanziaria e organizzativa della Regione.
Sotto altro profilo l’obbligo di stanziare gli importi prefissati nel fondo di garanzia lederebbe le norme di cui agli artt. 20 e 36 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, sia perché inciderebbe sull’autonomia organizzativa della Regione, sia perché la relativa compressione dell’autonomia finanziaria ne limiterebbe «lo svolgimento delle funzioni pubbliche».
Infine, la ricorrente evidenzia che una soluzione al problema dei ritardi nei pagamenti avrebbe potuto essere individuata «legittimamente e più utilmente» nell’ambito degli accordi in materia finanziaria tra Stato e Regione Siciliana, in ossequio al principio di leale collaborazione, che risulterebbe, invece, parimenti violato dalle disposizioni impugnate.
6.2.– Nel contestare la fondatezza del ricorso, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che le disposizioni introdotte dall’art. 1, commi da 858 a 873, della legge n. 145 del 2018 non avrebbero natura sanzionatoria, dovendo piuttosto «inquadrarsi come misure di garanzia» rivolte alle pubbliche amministrazioni che dimostrano di «non essere in grado di effettuare una programmazione della spesa efficiente». In questo senso, la disciplina del fondo determinerebbe la formazione di economie di spesa e di maggiori giacenze di cassa, così favorendo il pagamento dei residui. Infatti, l’accantonamento non costituisce un prelievo a carico del bilancio regionale, «in quanto a fine esercizio confluisce nella quota libera dell’avanzo di amministrazione».
Analogamente, la previsione di cui al comma 857 realizzerebbe un potenziamento delle misure di garanzia di cui ai successivi commi 862, 864 e 865 per i casi di mancata richiesta dell’anticipazione di liquidità da parte delle pubbliche amministrazioni inadempienti.
L’Avvocatura, inoltre, contesta l’assimilazione delle disposizioni oggetto del giudizio a quelle dichiarate illegittime dalla sentenza n. 272 del 2015, in quanto le prime risultano modulate proporzionalmente alla gravità della violazione rispetto ai tempi medi di pagamento, mentre le seconde vi prescindevano.
Quanto alla censura sull’inidoneità delle misure, che non darebbero rilievo alla causa del ritardo, la difesa erariale ricorda che il Governo nell’ultimo quinquennio ha posto in essere numerose iniziative per contenere il fenomeno dei ritardi dei pagamenti e che «le pubbliche Amministrazioni tuttora inadempienti hanno avuto a disposizione un lasso di tempo più che adeguato per porre rimedio» sia alle cause di ritardo derivanti da ragioni di ordine finanziario sia a quelle derivanti da disfunzioni organizzative o strutturali.
Sottolinea quindi che dai dati risultanti dal sistema della «Piattaforma per i crediti commerciali» (PCC) emerge che nel 2018 i fornitori della Regione Siciliana sono stati pagati mediamente con un ritardo variabile dai 29 ai 19 giorni.
Il rimedio ora adottato dal legislatore statale non potrebbe quindi ritenersi irragionevole con riguardo alla Regione ricorrente.
Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione dei parametri statutari, atteso che l’impugnato comma 862 non costituirebbe norma di dettaglio ma misura di carattere strumentale finalizzata a favorire la riduzione dei tempi di pagamento dei debiti commerciali e, in quanto tale, espressione di un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica vincolante anche per le Regioni a statuto speciale (si richiamano le sentenze n. 175 e n. 39 del 2014).
Infine, non fondata risulterebbe anche la censura sulla violazione del principio di leale collaborazione: essendo lo Stato garante del rispetto dei tempi di pagamento sanciti «da una normativa europea e nazionale di recepimento» non potrebbe stipulare accordi derogatori a tale normativa e differenziati con i diversi livelli di governo.
6.3.– Preliminarmente, e per le stesse motivazioni già svolte sulla impugnativa della stessa disposizione da parte delle altre ricorrenti (supra, punto 4.), va dichiarata cessata la materia del contendere delle questioni promosse nei confronti dell’art. 1, comma 857, della legge n. 145 del 2018.
6.4.– Sempre in via preliminare, va rilevato che anche le altre disposizioni impugnate sono state oggetto di modifiche successivamente all’instaurazione del giudizio: il comma 859 e il comma 863, ad opera dell’art. 38-bis del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi), convertito, con modificazioni, in legge 28 giugno 2019, n. 58, mentre il comma 862 ad opera del già citato art. 50, comma 1, del d.l. n. 124 del 2019. Il comma 859 è stato poi ulteriormente modificato dal richiamato art. 1, comma 854, lettera a), della legge n. 160 del 2019.
Peraltro, poiché le modifiche si appuntano su aspetti non centrali delle disposizioni impugnate, comunque inidonei a ritenere soddisfatte le pretese della ricorrente, l’oggetto del giudizio dovrà tenere in considerazione il testo delle stesse, come novellato, sul quale le questioni vanno trasferite (ex plurimis, sentenza n. 44 del 2018).
6.5.– Infine vanno ritenute ammissibili le censure riferite agli artt. 3 e 97 Cost., per difetto di ragionevolezza e proporzionalità, poiché la ricorrente ne ha sufficientemente motivato la ridondanza sulle proprie attribuzioni costituzionalmente garantite.
6.6.– Nel merito le questioni non sono fondate.
Le disposizioni impugnate sono infatti propriamente inquadrabili – in disparte la complessiva autoqualificazione precisata dal comma 858 dell’art. 1 della stessa legge n. 145 del 2018 in riferimento all’intero blocco dei commi da 859 a 872 – nell’ambito della competenza statale esclusiva relativa all’armonizzazione dei bilanci pubblici, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Esse, infatti, hanno a oggetto il bilancio di previsione delle amministrazioni pubbliche che adottano la contabilità finanziaria, prevedendo l’obbligatoria istituzione di uno specifico fondo quando l’ente non rispetti i tempi di pagamento o non riduca a sufficienza lo stock di debiti commerciali; la disciplina di tale fondo indica il criterio di quantificazione e specifica che il relativo appostamento rifluisce sul risultato di amministrazione, accertato con l’approvazione del rendiconto.
Sotto questo profilo, le norme in questione integrano il decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42) e, in particolare, l’art. 42 disciplinante appunto il risultato di amministrazione e le destinazioni della quota libera dell’avanzo.
Quanto poi alla ratio delle norme, essa è chiaramente ravvisabile nell’esigenza di sopperire alla incapacità dell’ente di coordinare l’assunzione di obbligazioni (legittimamente iscritte in bilancio) con la effettiva disponibilità della liquidità necessaria al loro pagamento alle scadenze di legge. Per tale aspetto, dunque, le norme impugnate perseguono la finalità propria dei principi di coordinamento della finanza pubblica, atteso il fondamentale rilievo che, come si è visto, assume il rispetto dei termini di pagamento previsti dal d.lgs. n. 231 del 2002 e dalla relativa normativa europea.
Peraltro, come già ricordato, le disposizioni impugnate si raccordano con quelle che la stessa legge n. 145 del 2018 ha introdotto (nei commi da 849 a 856 dell’art. 1) al fine di ampliare nel 2019, per le amministrazioni pubbliche in ritardo nei pagamenti, la possibilità di conseguire anticipazioni di liquidità da destinare a tale specifico utilizzo. Quando si trovi in questa situazione, l’ente potrà dunque ricorrere a tale prestito esterno, utile a regolarizzare i tempi di pagamento o quanto meno a ridurre i ritardi. Va anche precisato che per la stessa finalità il legislatore è nuovamente intervenuto con la legge di bilancio 2020 (art. 1, comma 556, della legge n. 160 del 2019), prevedendo anche per tale anno analoghe anticipazioni di liquidità con disposizioni del medesimo contenuto, la cui disciplina è stata inserita nel corpo dell’art. 4 del d.lgs. n. 231 del 2002.
6.6.1.– Ciò precisato, non è ravvisabile nelle norme impugnate, riconducibili quindi anch’esse alle finalità di contrasto ai tardivi pagamenti delle pubbliche amministrazioni esposte ai punti 5. e 5.1., né la lesione al principio di buon andamento dell’amministrazione, né un difetto di proporzionalità.
Sotto un primo profilo, il fondo da appostare in bilancio rappresenta, infatti, una soluzione contabile e gestionale funzionale a consentire all’amministrazione di disporre di liquidità necessaria a velocizzare i pagamenti delle proprie obbligazioni commerciali e a ridurre la relativa voce di debito residuo. Il meccanismo approntato impedisce di effettuare impegni di spesa e pagamenti a valere sulle somme accantonate nel fondo; ciò fa sì che a fine esercizio le relative economie di spesa rifluiscono nella quota libera del risultato di amministrazione e l’ente può utilizzare la giacenza di cassa in tal modo formatasi per pagare i debiti arretrati.
Pertanto, se è pur vero che – imponendo l’obbligatorio accantonamento nel fondo di nuova istituzione – le norme limitano la piena disponibilità delle risorse dell’ente in sede di predisposizione del bilancio e di programmazione della spesa, è tuttavia evidente che ciò rappresenta il coerente strumento con cui le disposizioni stesse hanno inteso porre un rimedio all’accertata violazione dei termini di pagamento. Difatti, quest’ultima patologica situazione consegue di regola al fatto che l’ente, nell’esercizio della sua autonomia gestionale e di bilancio, non ha coordinato la programmazione e l’impegno delle proprie obbligazioni, legittimamente assunte e vincolanti, con la disponibilità di cassa necessaria alle previste scadenze di pagamento.
Oltre a indurre l’ente a conseguire liquidità di cassa utile a velocizzare i pagamenti commerciali, lo strumento del fondo di garanzia realizza anche l’ulteriore e indiretto effetto positivo di ridurre l’esposizione dell’amministrazione a titolo di interessi passivi sui pagamenti tardivi. Tali importi sono del tutto improduttivi e, tenuto conto del criterio di quantificazione degli interessi moratori di cui al d.lgs. n. 231 del 2002, possono assumere dimensioni non trascurabili; pertanto, la loro diminuzione consente all’ente di recuperare risorse da destinare ad attività istituzionali.
Queste positive ricadute sul funzionamento dell’ente appaiono quindi idonee a confutare la censura di lesione del principio di buon andamento dell’amministrazione.
Quanto poi al criterio di determinazione delle somme da accantonare, esso appare razionalmente individuato sia sotto il profilo quantitativo che sotto quello qualitativo. Per un verso, infatti, lo stanziamento introdotto aumenta in relazione all’entità dei ritardi nei pagamenti che l’amministrazione ha registrato, e perciò in coerenza con le prevedibili esigenze di liquidità; per altro verso, il parametro su cui calcolare la percentuale è dato dalle spese per gli acquisiti di beni e servizi, ossia l’aggregato di bilancio più appropriato, trattandosi di debiti di natura commerciale.
Alla luce delle complessive considerazioni che precedono, le norme impugnate superano il test di proporzionalità. Esse, infatti, si presentano congrue rispetto allo scopo legittimamente perseguito dal legislatore e approntano strumenti adeguati in relazione alla finalità di indurre l’ente a conseguire giacenze di cassa proprio per estinguere le obbligazioni che esso ha assunto.
Da questo punto di vista non appaiono conferenti i riferimenti della ricorrente alla sentenza n. 272 del 2015 in ordine alla mancata considerazione della causa del ritardo: la Regione Siciliana, infatti, ha solo genericamente affermato che il ritardo dei pagamenti imputabile all’ente non sempre dipenderebbe dalla carenza di liquidità, rinviando a una non meglio specificata dichiarazione della propria ragioneria generale.
Ne consegue che, sotto tale profilo, la ricorrente non ha offerto concreti elementi (quali ad esempio il mancato trasferimento di risorse da parte dello Stato: si veda al riguardo la sentenza n. 62 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto) a sostegno della inidoneità delle misure impugnate a raggiungere i fini che persegue.
6.6.2.– Parimenti infondate risultano le censure sulla violazione dell’autonomia amministrativa e finanziaria riconosciuta dallo statuto e quella del principio di leale collaborazione: le norme impugnate sono riconducibili all’esercizio in via prevalente della competenza esclusiva statale sull’armonizzazione dei bilanci pubblici e a quella sul coordinamento della finanza pubblica, ciò che esclude sia la violazione delle evocate norme statutarie sia l’operatività del principio invocato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 857, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), promosse, dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe, e dalla Provincia autonoma di Trento, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 117, terzo comma, e 119, Cost., anche in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), nonché agli artt. 8, 9 e 16 e al Titolo VI del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del Testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), con il ricorso indicato in epigrafe;
2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 865, della legge n. 145 del 2018, promosse, dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 5, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia autonoma di Trento, in riferimento agli artt. 117, terzo comma e 119, secondo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, nonché agli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16 e 79 dello Statuto reg. Trentino-Alto Adige e all’art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra gli atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), con il ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia autonoma di Bolzano, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, 119, secondo comma, anche in combinato con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e 120, Cost.; agli artt. 8, numero 1) (in relazione all’art. 4, numero 7), 9, numero 10), 16, al Titolo II, al Titolo VI (e in particolare all’art. 79), agli artt. 103, 104 e 107 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige; all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992; al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) e all’accordo concluso tra il Governo, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 15 ottobre 2014, con il ricorso indicato in epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 865, della legge n. 145 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, 97 e 118, primo e secondo comma, Cost., dalla Regione Lazio, con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 866, della legge n. 145 del 2018, promosse, dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 117, terzo, quarto e sesto comma, 118, primo e secondo comma, e 120, secondo comma, Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia autonoma di Trento, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 117, terzo comma, in combinato con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e 120, secondo comma, Cost., agli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), 16 e 79 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige e all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, con il ricorso indicato in epigrafe; dalla Provincia autonoma di Bolzano, in riferimento agli artt. 3, 117, terzo e quarto comma, 119, secondo comma, anche in combinato con l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, e 120, Cost.; agli artt. 8, numero 1) (in relazione all’art. 4, numero 7), 9, numero 10), 16, al Titolo II, al Titolo VI (e in particolare all’art. 79), agli artt. 103, 104 e 107 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige; all’art. 2 del d.P.R. n. 474 del 1975; all’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992; al d.lgs. n. 268 del 1992 e all’accordo concluso tra il Governo, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 15 ottobre 2014, con il ricorso indicato in epigrafe;
5) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 857, della legge n. 145 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 97, secondo comma, 117, quarto comma, e 120, Cost. nonché agli artt. 20 e 36 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 859, 862 e 863, della legge n. 145 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 97, secondo comma, 117, quarto comma, e 120, Cost. nonché agli artt. 20 e 36 dello statuto reg. Siciliana, dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA