SENTENZA N. 89
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), e degli artt. 50 e 54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), promosso dal Tribunale ordinario di Torino nel procedimento vertente tra M. C. e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 22 gennaio 2019, iscritta al n. 97 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Nicolò Zanon nelle camere di consiglio del 10 marzo 2020 e dell’8 aprile 2020, quest’ultima svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 24 marzo 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio dell’8 aprile 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 gennaio 2019 (r.o. n. 97 del 2019) il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), e degli artt. 50 e 54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), nella parte in cui non prevedono che, in caso di omesso adeguamento periodico degli onorari mediante il decreto dirigenziale di cui all’art. 54 del citato d.P.R., tale adeguamento possa essere effettuato dal giudice in sede di liquidazione del compenso.
Il rimettente opera quale giudice dell’opposizione proposta da un professionista, già consulente tecnico del pubblico ministero nell’ambito di un procedimento penale, avverso il decreto di liquidazione dei compensi richiesti per l’opera da lui prestata.
Al consulente, in particolare, era stato chiesto di ricostruire la dinamica di un sinistro stradale, evidenziando eventuali profili di colpa e di efficienza causale nella condotta della conducente di un veicolo che aveva investito un pedone, rimasto vittima, nell’occasione, di lesioni personali. Espletato l’incarico, il consulente aveva chiesto il pagamento di un onorario a tempo, secondo il disposto dell’art. 4 della legge n. 319 del 1980, indicando quale base per il computo del compenso una durata delle operazioni corrispondente a trecentododici vacazioni. Il pubblico ministero, dopo aver rilevato l’assenza di profili di complessità nei fatti e nel relativo accertamento, aveva con decreto liquidato un onorario misurato in rapporto a centoventi vacazioni.
Nel giudizio di opposizione, promosso a norma dell’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, il consulente aveva tra l’altro insistito sulla presunta complessità del compito affidatogli, pur senza quantificare il tempo impiegato per l’espletamento, e si era riferito, nel contempo, a esigenze di «decoro della professione».
2.– In via preliminare, dopo aver riferito della ritualità dell’opposizione e della correttezza del ricorso alla disciplina del compenso su base oraria (con conseguente limite del riconoscimento di quattro vacazioni per giornata), il rimettente osserva come l’indicazione di durata del lavoro sottesa all’originaria richiesta dell’opponente appaia «sproporzionata e inverosimile». Si tratterebbe, infatti, di una durata non compatibile con le caratteristiche dell’incarico ricevuto, con la consolidata esperienza del consulente, con il modesto numero degli adempimenti da lui stesso elencati nel descrivere l’espletamento della consulenza, con l’assai ridotta complessità della relazione finale. Tutti profili che – osserva incidentalmente il giudice a quo – precluderebbero nella specie l’aumento del compenso orario a norma dell’art. 52, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, riservato alle prestazioni di «eccezionale importanza, complessità e difficoltà»; aumento, comunque, neppure richiesto dall’interessato.
Sarebbe, in definitiva, congrua la liquidazione fondata su centoventi vacazioni, pur sempre corrispondenti a duecentoquaranta ore di lavoro. Non sarebbe però congrua la somma liquidata sulla base della tariffa stabilita per gli onorari a tempo (euro 14,68 per la prima vacazione ed euro 8,15 per ciascuna delle vacazioni successive), pari complessivamente ad euro 984,53.
Il rimettente ricorda come il valore orario della retribuzione sia stato stabilito da ultimo con il decreto del Ministro della giustizia 30 maggio 2002 (Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell'autorità giudiziaria in materia civile e penale), ed assume che – sebbene si tratti di un valore non direttamente correlabile alle vigenti tariffe professionali – il compenso esigibile da periti e consulenti sia divenuto ormai del tutto inadeguato. Non a caso, con l’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002, il legislatore ha stabilito che la misura degli onorari sia aggiornata con cadenza triennale, in base alla variazione degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, mediante un decreto dirigenziale del Ministero della giustizia di concerto col Ministero dell’economia e delle finanze. Se l’autorità amministrativa avesse dato corso alla prescrizione della legge – prosegue il giudice a quo – l’importo orario della retribuzione sarebbe più alto di circa il 26 per cento. Poiché però i decreti dirigenziali in questione non sono stati mai adottati, la base di calcolo resta quella definita dal d.m. 30 maggio 2002.
Lo stato di cose descritto costringerebbe il rimettente «ad operare in un contesto del tutto irragionevole e quindi in aperta violazione dell’art. 3 Cost.». La stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto al decreto ministeriale di adeguamento un ruolo essenziale nella fisionomia della disciplina dei compensi agli ausiliari del giudice, e ripetutamente stigmatizzato l’inerzia amministrativa al proposito (sono citate le sentenze n. 224 del 2018, n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015).
L’irragionevolezza della disciplina sottoposta a censura, della quale sarebbe conferma proprio l’omissione dei decreti dirigenziali previsti dalla legge, consisterebbe nel ricorso ad un complesso meccanismo amministrativo per un obiettivo di adeguamento perseguito, in realtà, mediante un criterio obiettivo ed automatico.
Considerato che il rimedio talvolta prospettato per l’inerzia dell’amministrazione (un atto di messa in mora e una successiva impugnazione dell’eventuale rigetto) costituirebbe un rimedio gravoso e sproporzionato rispetto alle esigenze e al beneficio ricavabile dal singolo ausiliario, il rimettente ritiene che la disciplina censurata recupererebbe razionalità se, nel caso di mancanza dell’adeguamento triennale disposto dal Ministero, fosse consentito al giudice di applicare direttamente l’aumento implicato dagli indici del costo della vita.
Tale soluzione, ritiene il giudice a quo, non sarebbe praticabile in forza dell’interpretazione costituzionalmente orientata, dato il carattere chiaro e tassativo della previsione censurata.
L’accoglimento della censura prospettata varrebbe inoltre ad escludere l’irrazionalità denunciata anche dal punto di vista del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), consentendo di avvalersi nei procedimenti giudiziari di professionisti di buon livello, non disponibili ad «accettare compensi di importo sempre più misero e mortificante».
La questione sollevata sarebbe dunque non manifestamente infondata e, al tempo stesso, rilevante. Mentre in base alla disciplina vigente l’opposizione del consulente interessato risulterebbe priva di fondamento, l’eventuale decisione di accoglimento implicherebbe per il rimettente «almeno» la possibilità di liquidare un compenso più alto per le centoventi vacazioni riconosciute all’opponente.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 16 luglio 2019.
Secondo la difesa dello Stato, la questione sollevata sarebbe manifestamente infondata, considerato che l’omissione dell’adeguamento prescritto dalla legge non implicherebbe l’illegittimità della normativa censurata, quanto piuttosto la necessità di attivare rimedi in altra sede (è citata la sentenza n. 41 del 1996). L’inerzia degli uffici ministeriali, cioè, non potrebbe invalidare la previsione normativa che gli stessi dovrebbero osservare.
La materia in discussione, d’altro canto, sarebbe rimessa alla piena discrezionalità del legislatore, cui spetta la scelta tra le varie possibili opzioni utili a garantire, per gli ausiliari del giudice, l’adeguamento tra lavoro svolto ed entità del compenso (è citata l’ordinanza n. 234 del 2001). La soluzione proposta dal rimettente (affidare al giudice il compito di applicare un aumento correlato agli indici del costo della vita) si risolverebbe, quindi, in una addizione non imposta dalla Costituzione.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell'autorità giudiziaria), e degli artt. 50 e 54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), nella parte in cui non prevedono che, in caso di omesso adeguamento periodico degli onorari mediante il decreto dirigenziale di cui all’art. 54 del citato d.P.R., tale adeguamento possa essere effettuato dal giudice in sede di liquidazione del compenso.
Il rimettente censura cumulativamente le disposizioni che concorrono a disciplinare la liquidazione degli onorari richiesti dagli ausiliari del giudice, con riguardo ai casi in cui tali onorari debbano essere commisurati al tempo impiegato per rendere la prestazione.
Oggetto della questione risultano, così, l’art. 4 della legge n. 319 del 1980, che, per questo genere di onorari, stabilisce il sistema delle vacazioni (unità di tempo della durata di due ore) e i criteri per la relativa remunerazione; l’art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002, in virtù del quale la fissazione dei livelli retributivi è demandata a un decreto interministeriale, da predisporsi secondo criteri generali indicati nella stessa disposizione; infine, l’art. 54 del medesimo d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui l’adeguamento della misura degli onorari commisurati a tempo deve avvenire ogni tre anni, in relazione alla variazione, accertata dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, verificatasi nel triennio precedente, attraverso un decreto dirigenziale del Ministero della giustizia, adottato di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.
L’art. 50 del d.P.R. n. 115 del 2002, come si è appena visto, non provvede direttamente a determinare il quantum degli onorari, rimettendo piuttosto il compito a un decreto ministeriale. Il relativo provvedimento è stato adottato nella stessa data del citato d.P.R. (30 maggio 2002), e da allora non è stato più aggiornato, come pure richiede l’art. 54 del medesimo testo unico. Sono dunque i valori originari del decreto del Ministro della giustizia 30 maggio 2002 (Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell’autorità giudiziaria in materia civile e penale), indicati al comma 1 dell’art. 1, a regolare ancor oggi i decreti di liquidazione degli onorari a tempo (euro 14,68 per la prima vacazione, euro 8,15 per ciascuna delle vacazioni successive).
Ritiene il rimettente, in tale situazione, che i magistrati siano costretti a compensare le prestazioni a tempo degli ausiliari secondo criteri di computo ormai gravemente inadeguati per difetto. L’oggetto delle sue censure, tuttavia, non è, direttamente, il quantum delle tariffe stabilito per le vacazioni, nella dimensione risultante a seguito dell’integrazione apportata dal ricordato decreto ministeriale alle disposizioni di legge. Il rimettente assume, piuttosto, che tutte le disposizioni indicate violerebbero l’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza, poiché contrasterebbe con la natura obiettiva ed automatica dei parametri di adeguamento triennale indicati dal legislatore la previsione che tale adeguamento possa avere luogo solo in esito ad un procedimento amministrativo complesso, e non anche, in mancanza di questo, mediante un provvedimento giudiziale fondato sugli indici pubblici di aumento del costo della vita.
In altri termini, il giudice a quo non contesta direttamente la ragionevolezza di un meccanismo obbligatorio e automatico di adeguamento dei livelli di remunerazione delle prestazioni degli ausiliari, né lamenta che l’attuazione di un meccanismo siffatto sia affidata all’autorità di governo, competente a gestire le spese in materia di giustizia. Censura, invece, in quanto manifestamente irragionevole, l’assenza di un meccanismo alternativo e sussidiario, affidato a ciascun giudice caso per caso, che consenta l’adeguamento degli onorari agli indici del costo della vita, laddove il procedimento disegnato dal legislatore resti inattuato.
In definitiva, esaminando la “storia” del meccanismo normativo censurato (e in particolare dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002), il rimettente assume che la mancata attuazione degli adeguamenti periodici, protratta ormai dal 2002, sia prova dell’irragionevolezza lamentata.
2.– La questione non è fondata.
2.1.– L’attenzione per il problema dell’aggiornamento degli onorari attribuiti agli ausiliari del magistrato si è manifestata, nella giurisprudenza di questa Corte, già nel periodo di vigenza della legge 1° dicembre 1956, n. 1426 (Compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria). Questa normativa regolava la remunerazione a tempo con il sistema delle vacazioni (art. 3) e la distingueva a seconda del titolo di studio richiesto per la prestazione (art. 4), ma non contemplava un meccanismo di adeguamento periodico dei parametri retributivi. Rigettando la censura che lamentava tale mancanza (per inconferenza del parametro invocato, l’art. 36 Cost.), questa Corte nondimeno suggerì «iniziative o modifiche sul terreno legislativo» (sentenza n. 88 del 1970). Il monito fu ripetuto nelle successive ordinanze n. 69 del 1979 e n. 102 del 1980, sottolineandosi che il decorso del tempo aveva reso «inadeguate le tariffe fissate dalle norme impugnate, il che richiederebbe un tempestivo intervento del legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità politica».
Il monito fu raccolto dal legislatore con la già ricordata legge n. 319 del 1980, che – rideterminando i compensi all’art. 4, ancor oggi vigente e ricompreso dal rimettente nella sua complessiva censura – inserì al successivo art. 10, oggi abrogato, sotto la rubrica «Adeguamento periodico degli onorari», un meccanismo di adeguamento, il cui utilizzo risultava peraltro rimesso alla discrezionale decisione dell’amministrazione, per cui «[o]gni tre anni, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro di grazia e giustizia, di concerto con il Ministro del tesoro, potrà essere adeguata la misura degli onorari di cui agli articoli 2 e 4 in relazione alla variazione, accertata dall’ISTAT, dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati verificatisi nel triennio precedente».
Nel periodo immediatamente successivo – connotato, del resto, da forte inflazione – un adeguamento tariffario fu effettivamente disposto in due occasioni, dapprima con il d.P.R. 30 marzo 1984, n. 103 (Adeguamento degli onorari commisurati al tempo, spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori, per le operazioni eseguite su richiesta dell’autorità giudiziaria in materia penale e civile), poi con il d.P.R. 27 luglio 1988, n. 352 (Adeguamento dei compensi spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite su disposizione dell’autorità giudiziaria in materia civile e penale).
In progresso di tempo – a fronte di una rinnovata censura d’inadeguatezza degli onorari a causa dell’ulteriore periodo trascorso senza nuovi aggiornamenti – la sentenza n. 41 del 1996, pur rigettando la questione, sottolineò il rilievo della disciplina chiamata ad assicurare la congruenza dei livelli di remunerazione rispetto al costo della vita. E, nel sottolineare come non si facesse ricorso a quel meccanismo da quasi otto anni, questa Corte osservò che l’inadeguatezza degli onorari commisurati alla durata e il loro divario rispetto agli onorari a percentuale si erano andati «notevolmente aggravando col passare del tempo non per difetto legislativo, ma bensì per il deplorevole inadempimento delle autorità indicate».
La sentenza concluse con «l’auspicio che – in attesa di norme migliori – le autorità indicate dalla legge impugnata provvedano a rispettare le scadenze triennali di adeguamento dei compensi dovuti in base alle variazioni accertate dall’ISTAT».
Il monito, questa volta rivolto non già al legislatore, ma all’amministrazione, fu raccolto. E un ulteriore (il terzo) adeguamento fu adottato con il decreto del Ministro di grazia e giustizia del 5 dicembre 1997 (Adeguamento della misura degli onorari a vacazione spettanti ai periti, consulenti tecnici, interpreti e traduttori), non essendo più richiesta la forma del d.P.R., in virtù dell’art. 2 della legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica).
In quel torno di tempo non mancarono, altresì, di essere sollevate questioni di legittimità costituzionale che ponevano in discussione la scelta legislativa di attribuire carattere facoltativo, e non obbligatorio, al decreto di adeguamento triennale dei compensi. Tali questioni furono decise con ordinanze di manifesta inammissibilità (per ragioni processuali: ordinanza n. 356 del 1999), ovvero di manifesta infondatezza (ordinanza n. 234 del 2001); ma in ciascuna di esse fu ribadito che l’inadeguatezza degli onorari non dipendeva «da un difetto legislativo, bensì dall’inerzia delle autorità deputate a provvedere a siffatto adeguamento». Si osservò, in definitiva, che il problema non risiedeva nel carattere non automatico della indicizzazione, ma nei ritardi dell’amministrazione, cui «può ovviarsi, nella materia in esame, non con l’intervento del giudice delle leggi, ma con altri rimedi» (ordinanza n. 234 del 2001).
2.2.– Al maggio 2002, come è noto, risale il più volte ricordato testo unico sulle spese di giustizia. Coevo alla sua approvazione, il d.m. 30 maggio 2002 aveva risolto (transitoriamente) il problema dell’aggiornamento degli onorari, mediante una nuova fissazione dei relativi parametri di remunerazione. Al tempo stesso, il testo unico pareva aver dato soluzione anche alla questione degli adeguamenti futuri, poiché l’art. 54, qui pure censurato, non condiziona più l’adeguamento a una valutazione dell’amministrazione, bensì impone alla stessa di effettuarlo periodicamente (come meglio si dirà infra), prevedendo che i parametri remunerativi siano aggiornati (debbano, perciò, esserlo) con cadenza triennale.
Ciononostante, l’adeguamento, di fatto, non è più intervenuto dopo l’entrata in vigore del d.m. 30 maggio 2002.
Nel frattempo, i giudici comuni avevano sollevato varie questioni di legittimità costituzionale sulla disposizione (il nuovo art. 106-bis del t.u. spese di giustizia, inserito dall’art. 1, comma 606, lettera b, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2014») che ha introdotto, nei procedimenti penali in cui vi sia stata ammissione al patrocinio a spese dell’Erario, una notevole riduzione degli onorari degli ausiliari. In tali ordinanze di rimessione, si sottolineava, tra l’altro, come la disposizione censurata si inserisse in un quadro di forte svalutazione dei livelli remunerativi, dovuto proprio alla mancata adozione periodica dei provvedimenti ministeriali di adeguamento dei valori base.
Ciò ha consentito alla giurisprudenza di questa Corte di sottolineare nuovamente la mancata attuazione, ad opera dell’amministrazione, del disposto di cui all’art. 54 del t.u. spese di giustizia, e di considerare tale omissione come significativa premessa “di contesto” per ritenere costituzionalmente illegittima, per manifesta irragionevolezza, la scelta di riduzione compiuta dal legislatore.
Con le sentenze n. 192 del 2015 e n. 178 del 2017, in particolare, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 106-bis del d.P.R. n. 115 del 2002 nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi, rispettivamente spettanti all’ausiliario del magistrato e ai consulenti tecnici di parte, sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 del medesimo d.P.R.
Anche in queste pronunce non si trascura di ribadire la connessione tra il livello ormai insufficiente dei compensi e l’inadempienza amministrativa, confermandosi che non già l’intervento sulla legge, quanto piuttosto “rimedi diversi”, dovrebbero consentire di ovviare a tale situazione. E si sottolinea l’irragionevolezza di un intervento di riduzione adottato senza attenzione a che la stessa «operi su tariffe realmente congruenti con le stesse linee di fondo del d.P.R. n. 115 del 2002: dunque su tariffe, da un lato, proporzionate (sia pure per difetto, tenendo conto del connotato pubblicistico) a quelle libero-professionali (che per parte loro, nell’ambito di una riforma complessiva dei criteri di liquidazione, sono state aggiornate) e, dall’altro, preservate nella loro elementare consistenza in rapporto alle variazioni del costo della vita» (così, in particolare, la sentenza n. 192 del 2015).
Da ultimo, nel contesto di una pronuncia di inammissibilità per incompleta ricognizione del quadro normativo, è stato nuovamente sottolineato che la questione dell’asserita inadeguatezza degli onorari stabiliti per gli ausiliari del magistrato non può trascurare proprio il mancato adeguamento periodico imposto dall’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002, «più volte stigmatizzato da questa Corte» (sentenza n. 224 del 2018).
3.– Due chiari assunti si ricavano dalla giurisprudenza costituzionale fin qui richiamata.
Il primo è che questa Corte – salvo il periodo in cui la legislazione non prevedeva alcun meccanismo di aggiornamento – ha sempre ritenuto che il mancato adeguamento periodico dei compensi per gli ausiliari del magistrato è dipeso da omissioni amministrative, non risolvibili attraverso un intervento del giudice delle leggi, ma con “altri rimedi”, tra i quali, ora, ben può indicarsi lo strumento del ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione, regolato dall’art. 117 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, di «Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo».
La disponibilità del rimedio giudiziale non perde rilievo alla luce dell’osservazione del rimettente, che ne ridimensiona l’importanza rimarcando una sorta di inesigibilità dell’iniziativa giudiziaria individuale verso l’amministrazione, a causa dell’asserita modestia degli interessi singolarmente lesi dall’omissione dei periodici decreti di adeguamento, comparata con l’attuale (in effetti non trascurabile) onerosità del ricorso al giudice. Per quanto non sfugga a questa Corte che si presenta nella specie il rischio di una selezione nella platea dei soggetti disposti a ricorrere al rimedio, la stessa possibilità di attivare questo strumento di tutela documenta l’origine della situazione denunciata dal rimettente. Resta cioè evidente che l’odierna esiguità dei compensi per gli ausiliari – in disparte ogni considerazione sulla inadeguatezza degli stessi valori di partenza, cioè degli onorari previsti per ciascuna vacazione, peraltro non direttamente censurati dal rimettente – non dipende dal meccanismo normativo di adeguamento previsto dalla legge, ma dalla sua mancata applicazione ad opera dell’amministrazione, che quei valori di partenza ha lasciato immutati dal 2002. Pertanto, anche a riconoscere che la mancata adozione periodica dei decreti interministeriali previsti dall’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002 comporti, quale conseguenza, una regolazione manifestamente irragionevole dei compensi degli ausiliari del magistrato, risulterebbe incongrua una pronuncia di illegittimità costituzionale sulla disposizione di legge, perché è proprio quest’ultima a prevedere il rimedio alla situazione lamentata.
Inoltre, e soprattutto, a prescindere dal tradizionale rilievo per cui l’omissione dell’amministrazione potrebbe considerarsi mero inconveniente di fatto, come tale irrilevante nei giudizi di legittimità costituzionale sulle leggi (ex multis: sentenze n. 249 e n. 114 del 2017, n. 219 del 2016; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 123 del 2007), risulterebbe carico di paradossali conseguenze dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione di legge solo in quanto disapplicata, e proprio ad opera dell’autorità gravata da un onere particolarmente qualificato di adempimento del comando legislativo.
Il secondo chiaro assunto ricavabile dalla giurisprudenza sopra richiamata consiste in ciò, che questa Corte non ha mai espresso valutazioni negative sul meccanismo legislativo di adeguamento, idonee a sorreggere le censure di irragionevolezza avanzate dal rimettente, nemmeno nelle decisioni che hanno accolto censure in cui, sia pur indirettamente, tale meccanismo risultava coinvolto.
Ciò vale, in particolare, per le due sentenze, già sopra ricordate (n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015), che hanno dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 106-bis del t.u. spese di giustizia nella parte in cui non esclude che la diminuzione di un terzo degli importi, rispettivamente spettanti all’ausiliario del magistrato e ai consulenti tecnici di parte, sia operata in caso di applicazione di previsioni tariffarie non adeguate a norma dell’art. 54 del medesimo d.P.R. n. 115 del 2002. In queste sentenze, il meccanismo normativo di adeguamento dei compensi è accuratamente conservato, e fornisce sostegno allo stesso dispositivo di accoglimento. Le due pronunce, infatti, subordinano la portata della propria “addizione” al persistere dell’atteggiamento omissivo dell’amministrazione, al punto che la diminuzione richiesta dall’art. 106-bis del t.u. spese di giustizia potrà essere nuovamente operata qualora l’adeguamento richiesto dall’art. 54 del medesimo testo unico trovasse, infine, applicazione. Al congegno previsto dalla disposizione in esame viene così assegnata valenza capace di assicurare la ragionevolezza del sistema, pur a fronte di una riduzione delle tariffe: l’art. 54 del t.u. spese di giustizia, insomma, va considerato non già come fonte di squilibrio, ma, al contrario, come elemento di stabilizzazione del sistema.
Rilievi analoghi valgono a fronte della sentenza n. 224 del 2018: se, da una parte, in essa si contesta al rimettente di non aver valorizzato la disapplicazione del meccanismo di adeguamento per dimostrare l’asserita irragionevolezza, per difetto, delle tariffe, dall’altra proprio questa motivazione conferma la potenzialità riequilibratice del meccanismo in esame. Implicitamente, anche in tale pronuncia si riconosce, che, se applicato, esso varrebbe appunto ad evitare le incongruenze denunciate.
4.– Il rimettente, come si è visto, mira ad affiancare, al meccanismo di adeguamento delineato dalla legge, l’intervento alternativo e sussidiario del singolo giudice investito della richiesta di liquidazione. Denuncia perciò, per irragionevolezza, l’illegittimità costituzionale dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002, e delle ulteriori norme poste ad oggetto della questione, in quanto un tale intervento non prevedono.
Fermo restando che in una materia connotata da ampia discrezionalità legislativa (ex multis, sentenze n. 3 del 2019, n. 265 del 2009 e n. 98 del 1998; ordinanza n. 122 del 2016), una simile addizione non avrebbe certamente carattere vincolato, è comunque l’erroneità di alcuni presupposti da cui muove il rimettente a orientare piuttosto questa Corte, sul piano del merito, verso un giudizio di non fondatezza.
Osserva il giudice a quo, anche basandosi sulla pregressa mancata attuazione del meccanismo, che sarebbe irragionevole non consentire, appunto per questi casi, l’intervento sussidiario del giudice, considerando che alla fine si tratterebbe di quantificare, sulla base di un calcolo matematico, un semplice adeguamento tariffario, obbligatorio nell’an, nel quando e, secondo il rimettente, nello stesso quantum. Un’operazione meccanica, insomma, che renderebbe addirittura superfluo l’intervento dell’amministrazione.
Il rilievo non coglie nel segno, per una molteplicità di ragioni.
In primo luogo, spettando all’amministrazione la competenza per la determinazione degli onorari in questione, non è certo irragionevole che questa possa valutare, preliminarmente, se procedere attraverso l’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002 ad un adeguamento che consenta il mero recupero dell’inflazione, o invece a più consistenti modifiche tariffarie, eventualmente incidenti anche sulla base di calcolo sulla quale operare la rivalutazione periodica, secondo criteri di apprezzamento di natura politica, in base a ciò che consente l’art. 50 del medesimo testo unico.
In secondo luogo, la circostanza che l’adeguamento previsto dal citato art. 54 scaturisca da un procedimento che coinvolge diverse amministrazioni e risulti incorporato in un atto di natura regolamentare ben si giustifica considerando che il decreto dirigenziale di cui ragiona la disposizione provvede a disciplinare, in via generale e astratta, la remunerazione di attività professionali doverose, fornendo i necessari parametri di riferimento. Così come previsto, l’intervento regolamentare presuppone, inoltre, una diretta interlocuzione con l’ISTAT, mentre il decreto finale certifica che è stata compiuta la dovuta ricognizione, con riferimento ai pertinenti indici dei prezzi al consumo. L’intervento regolamentare individua inoltre, anche qui con effetto erga omnes, il periodo di riferimento per la quantificazione delle variazioni del costo della vita, operazione che, tra l’altro, mal si presterebbe ad essere svolta dai giudici caso per caso (facendo dipendere tale quantificazione dalla durata del giudizio o anche dello stesso procedimento di liquidazione dei compensi).
È decisivo, infine, osservare che la stessa lettera dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002 rende discutibile l’assunto del giudice a quo, secondo il quale l’adeguamento tariffario sarebbe vincolato, oltre che nell’an e nel quando, anche nel quantum. In verità, la disposizione in esame ragiona di un adeguamento triennale «in relazione» alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo: ciò che non esclude, quantomeno, che residuino per l’amministrazione margini discrezionali riguardo alla puntuale corrispondenza tra indici ISTAT e percentuale di adeguamento degli onorari.
Sono tutti argomenti che mostrano, in definitiva, come l’intervento del giudice, caso per caso, non sia affatto fungibile rispetto a quello dell’amministrazione, e comunque come non sia congruo prevedere l’intervento del primo, in funzione sussidiaria, quando manchi il secondo.
5.– La pronuncia di non fondatezza non esime questa Corte dal rilevare, per l’ennesima volta, la deplorevole e reiterata inadempienza dell’amministrazione nell’applicazione dell’art. 54 del d.P.R. n. 115 del 2002. D’altra parte, la ben nota disponibilità (sopra accennata) di altri mezzi giurisdizionali, diversi dal giudizio sulle leggi, pone gli interessati nella condizione di ottenere rimedio alla violazione dei propri diritti e interessi, come del resto esige e consente la Costituzione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319 (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria), e degli artt. 50 e 54 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Torino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 aprile 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA