SENTENZA N. 96
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), promosso dal Tribunale ordinario di Siracusa nel procedimento penale a carico di S. V., con ordinanza del 9 gennaio 2019, iscritta al n. 101 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020 il Giudice relatore Franco Modugno;
deliberato nella camera di consiglio dell’11 febbraio 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di Siracusa ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848:
a) dell’art. 8, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), nella parte in cui prevede l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 1, commi 1 e 5, del medesimo decreto legislativo ai fatti di cui all’art. 116, comma 15, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), anche se commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 8 del 2016, che li ha trasformati in illeciti amministrativi;
b) dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui dispone che ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale;
c) dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, nella parte in cui stabilisce che, nei casi previsti dall’art. 8, comma 1, del medesimo decreto, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.
1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, per essersi posta alla guida di un motociclo senza aver conseguito la patente, nonché della contravvenzione di cui all’art. 75, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), per aver violato – commettendo il reato in precedenza indicato – gli obblighi inerenti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale applicata nei suoi confronti, e in particolare la prescrizione di vivere onestamente rispettando le leggi; fatti commessi il 22 gennaio 2013.
Il rimettente riferisce che il processo aveva subito, per varie ragioni, una serie di rinvii. Il 6 febbraio 2016 era entrato, peraltro, in vigore il d.lgs. n. 8 del 2016, che reca disposizioni in materia di depenalizzazione in attuazione dell’art. 2, comma 2, della legge delega 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili). L’art. 1, comma 1, del decreto prevede, in particolare, la trasformazione in illeciti amministrativi di tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda, tra le quali rientra anche il reato di guida senza patente contestato all’imputato. In forza del comma 5, lettera b), del medesimo art. 1, per tale violazione si applica ora una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000.
L’art. 8 del d.lgs. n. 8 del 2016 prevede, altresì, al comma 1, che «[l]e disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili»; soggiungendo, al comma 3, che per tali violazioni «non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale».
Il successivo art. 9, comma 1, stabilisce, infine, che «[n]ei casi previsti dall’articolo 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data».
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni transitorie ora richiamate si porrebbero in contrasto con l’art. 76 Cost., per eccesso di delega.
Dalla relazione al d.lgs. n. 8 del 2016 emerge che il legislatore delegato – nella consapevolezza dell’assenza di una delega espressa che lo abilitasse ad adottare una normativa transitoria – ha ritenuto di poter introdurre la disciplina di cui agli artt. 8 e 9 traendo «decisiva ispirazione» dalle «già collaudate disposizioni» contenute negli artt. 100, 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205).
Il d.lgs. n. 507 del 1999 è stato, tuttavia, adottato in forza della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), la quale, all’art. 16, comma 1, lettera b), delegava espressamente il Governo a emanare «norme di carattere transitorio» (oltre che di attuazione e coordinamento). Di contro, la legge n. 67 del 2014, all’art. 2, comma 4, si limita a prevedere che i decreti legislativi contengano «le disposizioni necessarie al coordinamento con le altre norme legislative vigenti nella stessa materia», senza alcun riferimento alla disciplina transitoria.
Il silenzio della legge delega sul punto dovrebbe essere interpretato come indice della volontà del legislatore delegante di tener fermo il principio enunciato dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), per cui nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione: principio alla luce del quale – come chiarito dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione – nei casi di trasformazione di un illecito penale in illecito amministrativo, non è possibile, in assenza di un’apposita disciplina transitoria, applicare la nuova sanzione amministrativa ai fatti anteriormente commessi, con la conseguenza che il giudice penale non è tenuto a trasmettere gli atti all’autorità amministrativa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-28 giugno 2012, n. 25457).
1.3.– Le disposizioni denunciate violerebbero anche l’art. 25, secondo comma, Cost. «e/o» l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 7 CEDU, ponendosi in contrasto con il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole.
Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, la natura penale di una sanzione, agli effetti degli artt. 6 e 7 della Convenzione, deve essere stabilita sulla base di criteri di tipo sostanziale, e non meramente formale (cosiddetti “criteri Engel”). Di là dalla qualificazione operata dal diritto interno, si deve, cioè, tener conto della natura dell’illecito, desunta dalle sue finalità e dall’ambito dei destinatari della previsione punitiva, nonché della gravità della sanzione cui l’autore del fatto si trova esposto.
Alla stregua di tali criteri, la nuova sanzione amministrativa introdotta dall’art. 1 del d.lgs. n. 8 del 2016 per la guida senza patente si connoterebbe come sostanzialmente penale. Essa è rivolta, infatti, alla generalità dei consociati; ha una finalità general-preventiva, e non certo riparatoria; è posta a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali la pubblica sicurezza e l’incolumità pubblica (mirando a garantire che si pongano alla guida dei veicoli i soli soggetti valutati come idonei sul piano psico-fisico e tecnico); risulta, infine, di significativa gravità.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 CEDU avrebbe, peraltro, mutato anche «la nozione di pena […] stabilita nel nostro ordinamento nazionale». Come rilevato dalla Corte costituzionale, da tale giurisprudenza si ricava, infatti, «il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione (“Nessuno può essere punito …”) – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (è citata la sentenza n. 196 del 2010).
La nuova sanzione introdotta dall’art. 1, commi 1 e 5, del d.lgs. n. 8 del 2016 – solo formalmente amministrativa, ma nella sostanza penale – resterebbe, dunque, soggetta ai principi di legalità e irretroattività valevoli per le sanzioni penali, ai sensi degli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU, i quali comportano che nel momento in cui è commesso il fatto debba esistere una disposizione che renda l’atto punibile e che la pena inflitta non debba superare i limiti fissati da tale disposizione.
Le norme censurate violerebbero i principi evocati, giacché, rendendo applicabile la nuova sanzione amministrativa per la guida senza patente anche ai fatti anteriormente commessi, ne avrebbero peggiorato il trattamento rispetto a quello concretamente applicabile sulla base della legge vigente al momento della loro realizzazione, alla luce del quale l’agente si è determinato a operare.
Tale risultato non sarebbe evitato dalla ricordata previsione dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, secondo cui ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa di importo superiore «al massimo della pena originariamente inflitta per il reato», tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 cod. pen. Nell’ambito di tale formula, il participio «inflitta» andrebbe inteso come sinonimo di «comminata» in astratto dal legislatore: rispetto alla pena applicata in concreto dal giudice non avrebbe, infatti, senso parlare di «massimo» o di «minimo». Di conseguenza, l’importo della sanzione amministrativa irrogabile per la guida senza patente non potrebbe superare euro 9.032, tale essendo il massimo edittale dell’ammenda stabilito dalla norma incriminatrice originaria.
Contrariamente a quanto si afferma nella relazione ministeriale, non si potrebbe, tuttavia, ritenere che tale previsione valga a salvaguardare «il principio di retroattività in mitius, pienamente realizzato dall’applicazione retroattiva delle più favorevoli sanzioni amministrative in luogo di quelle originarie penali».
In materia, non ci si potrebbe, infatti, arrestare alla considerazione per cui la sanzione amministrativa pecuniaria è, in linea di principio, più favorevole di una pena pecuniaria di pari importo, non potendo essere mai convertita – a differenza di questa – in pena limitativa della libertà personale, nel caso di mancato pagamento. Occorrerebbe, invece, valutare il rapporto tra sanzione penale e sanzione amministrativa in una «dimensione “qualitativa”», che tenga conto anche della situazione processuale e del contesto concreto in cui tali sanzioni si collocano.
In sede penale l’imputato può, infatti, evitare l’applicazione della sanzione tramite una serie di istituti, atti a determinare l’estinzione del reato o della pena, ovvero l’esclusione della punibilità: quali, ad esempio, la sospensione del processo con messa alla prova, la sospensione condizionale della pena, l’affidamento in prova al servizio sociale o l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Istituti tutti, quelli ora richiamati, riferibili – secondo il rimettente – alla tipologia di reato per il quale si procede, la cui pena edittale rientrava ampiamente nei relativi limiti di fruibilità, e che non trovano, invece, alcun equivalente in rapporto al nuovo illecito amministrativo.
In questa prospettiva, l’incidenza sul patrimonio di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 9.032 risulterebbe certamente maggiore di quella di un’ammenda, la cui applicazione sarebbe rimasta presumibilmente paralizzata dalla sospensione condizionale o da altri istituti.
La chiara formulazione letterale delle disposizioni censurate precluderebbe, d’altronde, una loro interpretazione in senso costituzionalmente e convenzionalmente conforme.
1.4.– Le questioni sarebbero, altresì, rilevanti nel giudizio a quo.
Il giudice rimettente si troverebbe, infatti, a dover applicare l’art. 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, che gli impone di trasmettere gli atti all’autorità amministrativa, sul presupposto della retroattività delle nuove sanzioni, stabilita dal precedente art. 8: obbligo che verrebbe invece meno nel caso di accoglimento delle questioni. Quest’ultimo influirebbe, pertanto, sulla stessa formulazione del dispositivo della sentenza che definisce il giudizio, il quale si esaurirebbe nella sola assoluzione dell’imputato perché il fatto non costituisce più reato.
Non verrebbe in considerazione, in senso contrario, il disposto dell’ultima parte dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, secondo cui l’obbligo di trasmissione resta escluso allorché, alla data di entrata in vigore del decreto (6 febbraio 2016), il reato risulti prescritto o estinto per altra causa. Il reato di guida senza patente contestato all’imputato si è, infatti, prescritto – tenuto conto dei periodi di sospensione del decorso della prescrizione connessi a taluni dei rinvii disposti – solo il 14 ottobre 2018, e dunque successivamente alla predetta data.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
Secondo l’interveniente, il giudice a quo avrebbe prospettato esclusivamente dubbi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni che rendono retroattivamente applicabili sanzioni amministrative pecuniarie per fatti già previsti come reato. L’applicazione di tali disposizioni è peraltro demandata, non già al giudice penale – il quale dovrebbe limitarsi a dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato –, ma soltanto all’autorità amministrativa, nonché, eventualmente, all’autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi in sede di opposizione contro i provvedimenti sanzionatori della prima. Pertanto, unicamente il giudice dell’opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio amministrativo potrebbe, semmai, denunciare i vizi di legittimità costituzionale oggi prospettati.
Il rimettente non avrebbe indicato, per altro verso, le ragioni che lo inducono a ritenere non conforme a Costituzione la disposizione dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Siracusa dubita della legittimità costituzionale di tre disposizioni a carattere transitorio contenute nel decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), e segnatamente:
a) dell’art. 8, comma 1, nella parte in cui prevede che la sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 1, commi 1 e 5, si applichi ai fatti di guida senza patente di cui all’art. 116, comma 15, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) anche se commessi anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 8 del 2016, che li ha trasformati in illeciti amministrativi;
b) dell’art. 8, comma 3, nella parte in cui dispone che ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale;
c) dell’art. 9, comma 1, nella parte in cui stabilisce che, nei casi previsti dall’art. 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato, alla medesima data, risulti prescritto o estinto per altra causa.
Secondo il giudice a quo, le disposizioni censurate violerebbero l’art. 76 della Costituzione, per eccesso di delega. La legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), sulla cui base il d.lgs. n. 8 del 2016 è stato emanato, non conteneva, infatti, alcuna delega espressa per l’adozione di norme transitorie, come sarebbe stato invece necessario ai fini dell’introduzione di una disciplina derogatoria rispetto al principio generale di irretroattività delle sanzioni amministrative, stabilito dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Sarebbero violati, altresì, gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, che sanciscono il principio di irretroattività della norma penale sfavorevole: principio da ritenere riferibile anche alla nuova sanzione amministrativa per la guida senza patente, in ragione del suo carattere sostanzialmente penale alla stregua dei criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’applicazione della pena dell’ammenda, prevista dalla norma incriminatrice vigente al momento della commissione del fatto, poteva essere, infatti, evitata tramite una serie di istituti, atti a determinare l’estinzione del reato o della pena, ovvero la non punibilità dell’agente (quali – secondo il rimettente – la sospensione del processo con messa alla prova, la sospensione condizionale della pena, l’affidamento in prova al servizio sociale o l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto): istituti tutti viceversa inoperanti rispetto alla nuova sanzione amministrativa pecuniaria, la quale si rivelerebbe, di conseguenza, concretamente più afflittiva.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha formulato due eccezioni preliminari.
2.1.– In primo luogo, ha sostenuto che le questioni, sollevate nell’ambito del processo penale instaurato per una violazione poi depenalizzata, sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza, non dovendo il giudice a quo fare applicazione delle norme censurate.
Le questioni sarebbero volte, infatti, a censurare la retroattività delle sanzioni amministrative introdotte dal d.lgs. n. 8 del 2016 per gli illeciti depenalizzati. Ma competente ad applicare tali sanzioni è l’autorità amministrativa: il giudice penale non dovrebbe far altro che assolvere l’imputato perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. Sarebbe, semmai, il giudice dell’opposizione avverso il provvedimento sanzionatorio amministrativo a dover denunciare i vizi di legittimità costituzionale oggi prospettati.
L’eccezione è infondata.
Questa Corte si è già pronunciata sul punto con la sentenza n. 109 del 2017, in sede di scrutinio di questioni di legittimità costituzionale, parzialmente analoghe alle odierne, degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016, anch’esse sollevate da un giudice penale.
Al riguardo, si è osservato che «[l]e norme sospettate d’illegittimità costituzionale sono applicabili nel giudizio principale, in quanto l’obbligo – gravante sul giudice a quo – di disporre la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente, previsto dall’art. 9 del citato decreto legislativo (e, in particolare, dai commi 1 e 3, rilevanti nel caso di specie), rinviene la sua giustificazione proprio nella retroattività delle sanzioni amministrative prevista, in generale, dall’art. 8».
Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dello Stato, l’accoglimento delle questioni risulterebbe, dunque, rilevante nel giudizio a quo, determinando il venir meno dell’obbligo di trasmissione degli atti che altrimenti grava sul giudice rimettente.
2.2.– Infondato appare anche l’eccepito difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, connesso al fatto che il rimettente non avrebbe indicato le ragioni per le quali ritiene non conforme a Costituzione il citato art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016.
L’obbligo di trasmissione degli atti all’autorità amministrativa, stabilito da tale disposizione, “fa corpo” con l’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative ai fatti pregressi, prevista dall’art. 8, rappresentandone la naturale conseguenza. Le censure mosse a quest’ultima previsione si riverberano, pertanto, automaticamente su di esso, senza che risulti necessaria una ulteriore e specifica motivazione della sua denunciata non conformità alla Carta costituzionale.
3.– Ciò posto, con i quesiti di costituzionalità formulati, il Tribunale di Siracusa sottopone novamente a questa Corte la complessa tematica della cosiddetta successione impropria tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative, originata dagli interventi di depenalizzazione.
3.1.– I molteplici provvedimenti, generali o settoriali, di trasformazione di reati in illeciti amministrativi, che da oltre un quarantennio si susseguono nel nostro ordinamento, hanno generato, in effetti, un interrogativo ricorrente: quale sia, cioè, la sorte dei fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge depenalizzatrice.
Esclusa pacificamente l’ultrattività delle vecchie sanzioni penali, perché abolite (art. 2, secondo comma, cod. pen.), l’alternativa ermeneutica che si è posta è se – in assenza di un’apposita disciplina transitoria – i fatti pregressi debbano ritenersi soggetti alle nuove sanzioni amministrative o restino, invece, esenti da qualsiasi sanzione.
In contrasto con l’indirizzo già adottato sullo specifico tema dalle sezioni civili della Corte di cassazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenze 12 ottobre 2007, n. 21483; 18 gennaio 2007, n. 1078; 16 maggio 2006, n. 11406), le sezioni penali della medesima Corte – escludendo che possa ravvisarsi una “continuità” tra il vecchio illecito penale e il nuovo illecito amministrativo – si sono orientate, in modo largamente prevalente, a favore della seconda soluzione (quella della completa impunità dei fatti pregressi). Ciò, sia alla luce del principio di legalità enunciato dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, che impedisce di applicare le sanzioni amministrative a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che le ha introdotte; sia in ragione della ritenuta impossibilità di estendere al fenomeno considerato il principio di retroattività della legge più favorevole al reo, di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen., trattandosi di principio circoscritto alla successione di leggi entrambe penali.
Tale orientamento, già recepito dalle sezioni unite penali con una pronuncia del 1994 (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 16 marzo-27 giugno 1994, n. 7394), può considerarsi allo stato consolidato, dopo che esso è stato più di recente ribadito dal medesimo consesso (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-28 giugno 2012, n. 25457).
L’esito della totale impunità dei fatti pregressi – postulato dalla giurisprudenza di legittimità penale sulla base delle coordinate generali del sistema vigente – può porre, però, sul piano sostanziale, problemi di coerenza con la ratio dell’intervento di depenalizzazione.
Diversamente, infatti, che nel caso della mera abolitio criminis, nel caso della depenalizzazione il legislatore continua indubbiamente ad annettere un disvalore alla condotta, tale da giustificare tuttora la sua punizione, sia pure con una sanzione di grado inferiore (amministrativa, anziché penale). Ciò non vale a spiegare perché chi ha commesso il fatto quando era represso in modo (tendenzialmente) più severo debba rimanere totalmente impunito, laddove invece chi lo commette quando è punito in modo (tendenzialmente) più mite soggiace, comunque sia, a una sanzione.
Proprio per scongiurare un simile risultato è divenuta, quindi, prassi ricorrente quella di corredare gli interventi di depenalizzazione con un’apposita disciplina transitoria, volta a rendere applicabili le nuove sanzioni amministrative, da essi introdotte per gli illeciti depenalizzati, anche ai fatti anteriori. Questa soluzione è stata, in fatto, ripetutamente adottata in occasione del varo di provvedimenti di depenalizzazione a carattere generale, a cominciare dal primo (art. 15 della legge 24 dicembre 1975, n. 706, recante «Sistema sanzionatorio delle norme che prevedono contravvenzioni punibili con l’ammenda») e poi seguito da altri (artt. 40 e 41 della legge n. 689 del 1981; art. 4 della legge 28 dicembre 1993, n. 561, recante «Trasformazione di reati minori in illeciti amministrativi»; artt. 100, 101 e 102 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507, recante «Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205»).
3.2.– Alla medesima strategia si uniforma anche il d.lgs. n. 8 del 2016, oggetto dell’odierno scrutinio.
Tale decreto legislativo – adottato sulla base della delega conferita dall’art. 2 della legge n. 67 del 2014 – attua una depenalizzazione ad ampio spettro, che investe tutti i reati previsti da leggi speciali per i quali è comminata la sola pena pecuniaria (cosiddetta “depenalizzazione cieca”: art. 1), nonché una serie di reati, anche del codice penale, individuati singulatim (cosiddetta “depenalizzazione nominativa”: artt. 2 e 3).
Per quanto interessa ai presenti fini, la “depenalizzazione cieca” ha determinato la trasformazione in illecito amministrativo, tra gli altri, del reato di guida senza patente, di cui all’art. 116, comma 15, cod. strada, per il quale si procede nel giudizio a quo. La guida di veicoli in difetto del prescritto titolo abilitativo, precedentemente punita con la sola ammenda da 2.257 a 9.032 euro, è ora soggetta – in forza dell’art. 1, comma 5, lettera b), del d.lgs. n. 8 del 2016 – alla sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro (salvi i successivi aggiornamenti disposti ai sensi dell’art. 195 cod. strada).
L’intervento di depenalizzazione è accompagnato, anche in questo caso, da una disciplina transitoria, recata segnatamente dagli artt. 8 e 9 del d.lgs. n. 8 del 2016: disciplina contro la quale si rivolgono le censure del rimettente.
L’art. 8, comma 1, stabilisce, in particolare, che «[l]e disposizioni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili».
Il successivo comma 3 dello stesso art. 8 pone, peraltro, un limite all’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative ai fatti anteriori, inteso a mantenere tale previsione nella logica del principio di retroattività della lex mitior, evitando che da essa possano viceversa sortire effetti peggiorativi del trattamento sanzionatorio. In quest’ottica, si prevede che «[a]i fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’art. 135 del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie».
Come correttamente rilevato dal giudice a quo, nell’ambito della formula «massimo della pena originariamente inflitta per il reato» il participio «inflitta» non può che essere inteso come sinonimo di «comminata» in astratto dal legislatore: rispetto a una pena ormai determinata in concreto dal giudice non avrebbe, infatti, senso parlare di «massimo» e di «minimo». Di conseguenza, i fatti di guida senza patente anteriori al decreto di depenalizzazione restano soggetti a una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 9.032, tale essendo il massimo edittale della vecchia ammenda.
L’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016 – ponendosi anch’esso nel solco di molteplici precedenti provvedimenti di depenalizzazione – stabilisce, infine, che «[n]ei casi previsti dall’articolo 8, comma 1, l’autorità giudiziaria, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, dispone la trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data». Le relative modalità procedurali sono regolate dai successivi commi 2 e 3: in particolare, nel caso in cui l’azione penale sia già stata esercitata – come nel giudizio a quo – il giudice pronuncia, ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1 (comma 3).
4.– Il giudice a quo muove alla disciplina transitoria ora ricordata – nelle parti indicate in principio – due ordini di censure.
La prima attiene alla violazione dell’art. 76 Cost., per eccesso di delega.
4.1.– Il rimettente rileva che la legge n. 67 del 2014 non conteneva alcuna delega espressa per l’adozione di una normativa transitoria: delega da ritenere viceversa necessaria – anche alla luce degli arresti delle sezioni unite penali della Corte di cassazione precedentemente ricordati – affinché il legislatore delegato potesse introdurre una disciplina derogatoria del principio generale di irretroattività delle sanzioni amministrative, stabilito dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981.
L’argomento è corroborato con la considerazione che, nella relazione allo schema di decreto delegato, si afferma che le norme censurate traggono «decisiva ispirazione» da quelle contenute in un precedente decreto di depenalizzazione: segnatamente, gli artt. 100, 101 e 102 del d.lgs. n. 507 del 1999. Ma, in quel caso, la normativa transitoria era espressamente autorizzata dalla legge di delegazione (art. 16, comma 1, lettera b, della legge 25 giugno 1999, n. 205, recante «Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario»).
4.2.– La questione non è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «la previsione di cui all’art. 76 Cost. non osta all’emanazione, da parte del legislatore delegato, di norme che rappresentino un coerente sviluppo e un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del primo sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal secondo. Il sindacato costituzionale sulla delega legislativa deve, così, svolgersi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, riguardanti, da un lato, le disposizioni che determinano l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione e, dall’altro, le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i princìpi e i criteri direttivi della delega. Il che, se porta a ritenere del tutto fisiologica quell’attività normativa di completamento e sviluppo delle scelte del delegante, circoscrive, d’altra parte, il vizio in discorso ai casi di dilatazione dell’oggetto indicato dalla legge di delega, fino all’estremo di ricomprendere in esso materie che ne erano escluse» (sentenza n. 212 del 2018; in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 194 del 2015, n. 229, n. 182 e n. 50 del 2014, n. 98 del 2008).
In questa prospettiva, neppure il silenzio del legislatore delegante su uno specifico tema impedisce al legislatore delegato di disciplinarlo (sentenze n. 47 del 2014 e n. 134 del 2013), trattandosi in tal caso di verificare che le scelte di quest’ultimo non siano in contrasto con gli indirizzi generali della legge delega (sentenze n. 229 del 2014, n. 184 del 2013, n. 272 del 2012, n. 230 del 2010 e n. 341 del 2007; ordinanza n. 231 del 2009).
4.3.– Nella specie, dalla relazione allo schema del d.lgs. n. 8 del 2016 emerge come il legislatore delegato si sia espressamente posto il problema di stabilire se l’assenza, nella legge delega, di riferimenti alla normativa transitoria dovesse essere interpretata come indice della volontà del legislatore delegante di lasciare che la sorte dei fatti pregressi fosse regolata dagli artt. 2 cod. pen. e 1 della legge n. 689 del 1981, con il risultato di renderli non più sanzionabili, conformemente a quanto affermato dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione.
Tale ipotesi interpretativa è stata, peraltro, scartata alla luce di tre argomenti: la contrarietà di un simile assetto alle esigenze sostanziali di tutela e di parità di trattamento; l’omogeneità tra l’illecito penale e l’illecito amministrativo, predicata dalla più recente giurisprudenza costituzionale, atta a rendere operante, nel caso di loro successione, il principio di retroattività della lex mitior; la circostanza che il silenzio del legislatore delegante non assumesse un significato univoco, stante la disciplina transitoria presente in altri provvedimenti di depenalizzazione.
Il convincimento espresso dal legislatore delegato è meritevole di avallo. Le disposizioni transitorie licenziate dal Governo, sulla scia dei precedenti legislativi, non contrastano con gli indirizzi generali della legge delega: esse costituiscono, all’opposto, un coerente sviluppo e completamento delle scelte del delegante. Per quanto dianzi osservato, evitare che si produca una completa impunità dei fatti pregressi risponde alla logica degli interventi di depenalizzazione, trattandosi di esito contrario alla ratio legis, che è quella di modificare in senso (tendenzialmente) mitigativo – e non già di eliminare – la sanzione per un fatto che resta, comunque sia, illecito.
La conclusione trova conforto, d’altra parte, anche nei pareri espressi dalle commissioni parlamentari sullo schema di decreto. Come più volte rilevato da questa Corte, il parere delle Commissioni parlamentari non è vincolante, né esprime interpretazioni autentiche della legge delega, ma costituisce pur sempre elemento che contribuisce alla corretta esegesi di quest’ultima (sentenze n. 127 del 2017 e n. 250 del 2016; analogamente, sentenze n. 79 del 2019 e n. 47 del 2014).
Nella specie, mentre la Commissione giustizia del Senato della Repubblica nulla ha eccepito sulle norme transitorie in discussione – benché il problema del loro raccordo con la legge di delegazione fosse stato specificamente posto in evidenza dal Governo –, la Commissione giustizia della Camera dei deputati ha addirittura suggerito modifiche intese a migliorare la formulazione delle norme stesse sul piano tecnico: dando mostra, così, di ritenerle pienamente comprese nella delega.
Di qui, dunque, l’infondatezza della questione.
5.– Il rimettente denuncia, in secondo luogo, la violazione del principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. e dall’art. 7 CEDU, quale norma interposta rispetto all’art. 117, primo comma, Cost.
5.1.– Secondo il giudice a quo, entrambi i parametri evocati – quello convenzionale e quello costituzionale – sarebbero pertinenti alla fattispecie.
Da un lato, infatti, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal d.lgs. n. 8 del 2016 per la guida senza patente si connoterebbe come sostanzialmente penale alla luce dei “criteri Engel”, elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al fine di perimetrare il campo applicativo degli artt. 6 e 7 della Convenzione. La sanzione è, infatti, rivolta alla generalità dei consociati; ha una finalità general-preventiva, e non già riparatoria; è posta a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali la pubblica sicurezza e l’incolumità pubblica; risulta, infine, di significativa gravità.
Dall’altro lato, poi, la giurisprudenza costituzionale avrebbe chiarito che il principio dell’irretroattività enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. deve ritenersi valevole in rapporto non alla sola materia penale in senso stretto, ma alla generalità delle misure a carattere punitivo-afflittivo.
Le norme censurate non sarebbero, tuttavia, rispettose del principio in questione. Nonostante l’accorgimento adottato nell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, la disposta retroattività delle sanzioni amministrative di nuovo conio avrebbe comportato una modifica in senso peggiorativo del trattamento della guida senza patente, rispetto a quello prefigurato dalla legge vigente al tempo della commissione del fatto. In ambito penale, la vecchia pena dell’ammenda poteva essere, infatti, neutralizzata tramite una serie di istituti, atti a determinare l’estinzione del reato o della pena, o a escludere la punibilità: istituti che non trovano corrispondenza in rapporto alla sanzione amministrativa, la cui concreta incidenza sul patrimonio dell’autore della violazione risulterebbe, dunque, sicuramente maggiore.
5.2.– In via preliminare, va rilevato che, con riguardo alla censura in esame, non ricorre la ragione che ha indotto questa Corte a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 109 del 2017, una questione analoga, relativa alle stesse norme, ma che vedeva evocato come parametro il solo art. 25 Cost.
In quell’occasione, movendo dalla premessa che l’art. 25 Cost. si applichi unicamente alla materia penale, il giudice rimettente aveva evocato i “criteri Engel” per estendere la norma costituzionale interna alle sanzioni amministrative, anziché utilizzarli solo per dedurre una violazione dell’art. 7 CEDU e quindi, indirettamente, dell’art. 117, primo comma, Cost. Di qui, dunque, la declaratoria di inammissibilità della questione, per contraddittorietà del percorso argomentativo che la supportava.
Analoga contraddizione non è ravvisabile nell’odierno frangente.
Il Tribunale di Siracusa, da un lato, evoca come parametro anche l’art. 117, primo comma, Cost.; dall’altro, richiama la giurisprudenza di questa Corte – allo stato, come si dirà, costante – secondo la quale il principio di irretroattività in peius stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost. si applica anche alle sanzioni amministrative a carattere punitivo.
5.3.– Le odierne questioni sono, tuttavia, inammissibili per una diversa ragione.
Al riguardo, giova ricordare come, per un lungo periodo, la previsione dell’applicazione retroattiva della nuova disciplina sanzionatoria amministrativa, solitamente presente nei provvedimenti di depenalizzazione, non avesse suscitato particolari problemi dal punto di vista costituzionale. Predominava, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte, l’orientamento in forza del quale le garanzie previste dall’art. 25 Cost. – compresa quella del divieto di retroattività sfavorevole – dovevano ritenersi limitate alla sola materia penale, non risultando perciò riferibili alle sanzioni amministrative, ancorché frutto di interventi di depenalizzazione, il cui statuto garantistico doveva essere ricavato da altre disposizioni, quali gli artt. 23 e 97 Cost. (con specifico riguardo al principio di irretroattività, sentenza n. 68 del 1984; sotto altri profili, sentenze n. 356 del 1995, n. 118 del 1994 e n. 447 del 1988; ordinanze n. 150 del 2002, n. 159 del 1994 e n. 250 del 1992).
Il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative, in quanto stabilito solo a livello di legislazione ordinaria dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, avrebbe potuto essere, pertanto, all’occorrenza derogato dal legislatore. Prospettiva nella quale non sembrava assumere particolare risalto, sul piano costituzionale, l’eventualità che la disciplina transitoria di cui si va discorrendo potesse determinare, in concreto, un peggioramento del trattamento sanzionatorio dell’autore del fatto pregresso (nel senso della manifesta infondatezza, per inconferenza del parametro, di una questione di legittimità costituzionale strutturalmente simile alle odierne, concernente proprio il trattamento sanzionatorio della guida senza patente, ordinanza n. 150 del 2002).
5.4.– A partire dalla sentenza n. 196 del 2010, questa Corte ha, tuttavia, riconosciuto che il duplice divieto insito nella previsione dall’art. 25, secondo comma, Cost. – di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante e di applicazione retroattiva di una legge che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato (sentenza n. 223 del 2018) – si presta ad essere esteso, data l’ampiezza della sua formulazione («[n]essuno può essere punito […]»), alle misure a carattere punitivo-afflittivo, anche se qualificate come amministrative. Ciò, in assonanza con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, riguardo alla nozione di «materia penale» agli effetti dell’art. 7 CEDU: indicazioni a loro volta suscettibili di assumere autonomo rilievo costituzionale interno attraverso la “mediazione” dell’art. 117, primo comma, Cost.
Anche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo «si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto» (sentenza n. 223 del 2018; sulla riferibilità del principio di irretroattività, stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost., alle sanzioni amministrative a carattere punitivo, altresì, sentenze n. 68 del 2017 e n. 104 del 2014; e, a livello argomentativo, sentenze n. 112 del 2019 e n. 121 del 2018; ordinanza n. 117 del 2019).
5.5.– In questo nuovo panorama, è emerso quindi il problema della legittimità della normativa transitoria collegata agli interventi di depenalizzazione, in ragione della possibilità che la prevista applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative determini una modifica in peius del trattamento sanzionatorio del fatto.
Occupandosi del tema in rapporto ad altra ipotesi di depenalizzazione, attinente specificamente al settore degli abusi di mercato, questa Corte ha rilevato che, nel caso particolare della successione della norma sanzionatoria amministrativa a una norma penale, la previsione dell’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni è di solito compatibile con la Costituzione. Normalmente essa implica, infatti, l’applicazione di un trattamento, non già più severo, ma più mite di quello previsto al momento del fatto. La sanzione penale si caratterizza, infatti, «sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa». La pena possiede, inoltre, «un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa» (sentenza n. 223 del 2018).
La presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo, sottesa alla disciplina transitoria in questione, deve intendersi, tuttavia, come meramente relativa, rimanendo aperta la possibilità di dimostrare che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione – considerato nel suo complesso (sentenza n. 68 del 2017) – risulta in concreto più gravoso di quello previgente: ipotesi nella quale la disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione ai fatti pregressi verrebbe a porsi in contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 223 del 2018).
In quest’ottica, spetta peraltro al giudice a quo il compito di «accertare e adeguatamente motivare» (sentenza n. 68 del 2017), «caso per caso» (sentenza n. 223 del 2018), la sussistenza della condizione dianzi indicata: rimanendo, in difetto, la questione sollevata inammissibile (sentenza n. 68 del 2017).
5.6.– L’onere ora indicato non risulta convenientemente assolto dall’odierno rimettente.
Nel sostenere che la disciplina censurata avrebbe peggiorato il trattamento sanzionatorio della guida senza patente, malgrado il limite quantitativo posto dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016, il Tribunale siciliano attribuisce decisivo rilievo alla circostanza che la vecchia pena dell’ammenda, diversamente dalla nuova sanzione amministrativa pecuniaria, poteva essere “neutralizzata” tramite una serie di istituti, atti a produrre l’estinzione del reato o della pena o la non punibilità dell’agente: quali, in specie, la sospensione del procedimento con messa alla prova, la sospensione condizionale, l’affidamento in prova al servizio sociale e l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
Il giudice a quo non si premura, però, di verificare se gli istituti richiamati fossero concretamente applicabili nel caso di specie.
Non sembra potesse esserlo la sospensione del procedimento con messa alla prova (il cui esito positivo estingue il reato, a norma dell’art. 168-ter cod. pen.). Dall’ordinanza di rimessione non consta, infatti, che l’imputato abbia presentato alcuna istanza di messa alla prova nel termine prescritto (ossia prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, trattandosi di procedimento a citazione diretta: art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen.).
Eccentrico appare, per altro verso, il riferimento all’istituto dell’affidamento in prova al servizio sociale (il cui esito positivo estingue la pena ai sensi dell’art. 47, comma 12, della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»), trattandosi di misura alternativa alla detenzione: dunque, di per sé inapplicabile in rapporto a un reato punito con la sola ammenda, quale quello di cui si discute.
Il giudice a quo non precisa, ancora, se nel caso di specie – concernente la guida senza patente di un motociclo da parte di una persona sottoposta, in quel momento, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale – vi fossero concreti elementi per ritenere il fatto non punibile in ragione della sua particolare tenuità, nei termini indicati dall’art. 131-bis cod. pen.
Neppure, infine, il rimettente specifica se l’imputato fosse concretamente in grado di fruire della sospensione condizionale della pena, avuto riguardo all’assenza di precedenti ostativi e alla possibilità di formulare una prognosi favorevole riguardo alla sua astensione dalla futura commissione di ulteriori reati.
A prescindere, quindi, da ogni altro possibile rilievo, sia riguardo all’effettiva validità della tesi del giudice a quo (secondo cui una sanzione amministrativa pecuniaria sarebbe, in ogni caso, deteriore rispetto a una pena pecuniaria di pari importo condizionalmente sospendibile o altrimenti neutralizzabile), sia in ordine alla coerenza con il suo percorso argomentativo del risultato che conseguirebbe alla richiesta ablazione, pura e semplice, delle norme censurate (la sottrazione a ogni sanzione degli autori dei fatti anteriori), il riscontrato difetto di motivazione sui punti considerati preclude lo scrutinio di merito delle questioni, rendendole inammissibili.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, commi 1 e 3, e 9, comma 1, del d.lgs. n. 8 del 2016, sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – dal Tribunale ordinario di Siracusa con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 febbraio 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2020.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA