SENTENZA N. 119
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 5, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), promosso dal Consiglio di Stato, sezione sesta, nel procedimento vertente tra la Ruffolo srl e altri e Terna-Rete elettrica nazionale spa e altri, con ordinanza del 19 luglio 2019, iscritta al n. 197 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione della Ruffolo srl e altri e della Terna-Rete elettrica nazionale spa;
udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2021 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera, sostituito per la redazione della decisione dalla Giudice Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Pietro Greco per Ruffolo srl e altri e Mario Esposito per Terna-Rete elettrica nazionale spa, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 16 marzo 2021;
deliberato nella camera di consiglio dell’11 maggio 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 19 luglio 2019 (r.o. n. 197 del 2019) il Consiglio di Stato, sezione sesta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 5, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
La disposizione censurata, dopo avere attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e alla competenza territoriale del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, alcune controversie in materia di impianti energetici, come specificamente individuate dalla norma stessa, aggiunge che, in caso di processi pendenti, le parti hanno l’onere di riassumerli avanti al TAR Lazio entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa legge n. 99 del 2009.
La vicenda di cui il rimettente si occupa concerne una controversia regolata dall’art. 41, comma 5, della menzionata legge n. 99 del 2009, poiché sono censurati gli atti con cui è stata imposta una servitù di elettrodotto sui fondi di proprietà dei ricorrenti, al fine di completare una infrastruttura energetica di rilievo nazionale.
La causa – riferisce il giudice a quo – fu decisa in primo grado dal TAR Calabria, avanti al quale era stata radicata nel 2005, nonostante fosse già in vigore la norma censurata, che ha efficacia dal 15 agosto 2009.
La pronuncia del TAR Calabria fu perciò annullata con rinvio per difetto di competenza, con conseguente riassunzione della causa innanzi al TAR Lazio, divenuto competente nelle more del giudizio di primo grado.
Tuttavia, la riassunzione è stata operata solo nel 2012 (in applicazione della «disciplina ordinaria della riassunzione»), anziché entro il termine del 14 novembre 2009, risultante per effetto della norma censurata e della sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale. Il TAR Lazio ha perciò dichiarato estinto il giudizio, in applicazione dell’art. 50 del codice di procedura civile «pacificamente ritenuto applicabile al processo amministrativo».
La pronuncia del giudice di primo grado è stata appellata innanzi all’odierno rimettente, che, su eccezione di parte, censura l’art. 41, comma 5, della legge n. 99 del 2009, nella parte in cui fa decorrere il termine perentorio di riassunzione della causa dall’entrata in vigore della medesima legge n. 99 del 2009, anziché «dalla data di ricezione dell’avviso dell’onere di riassunzione».
2.– Il giudice rimettente premette che la norma censurata è stata abrogata e sostituita dall’art. 135, comma 1, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), secondo il quale, quanto alla individuazione del giudice, resta competente il TAR Lazio.
La questione sarebbe però rilevante, posto che è stata la norma ora abrogata ad avere applicazione nel giudizio a quo, determinandone l’estinzione.
3.– La disposizione censurata, inoltre, non sarebbe suscettibile di interpretazione costituzionalmente orientata. Essa, infatti, sarebbe univoca nell’imporre l’onere di riassunzione a tutte le controversie appartenenti alla tipologia indicata, anche quando non vi fossero state concesse misure cautelari, come nel caso di specie.
4.– Il rimettente esclude che la norma censurata sia viziata, nella parte in cui ha imposto l’onere di riassunzione avanti al TAR Lazio anche delle controversie pendenti, ma sospetta che sia manifestamente irragionevole e contrario al diritto di difesa, nonché al principio del giusto processo, che il termine di riassunzione decorra da un «fatto processuale» (ovverosia, l’entrata in vigore della legge n. 99 del 2009), anziché da uno specifico avviso, dato alle parti, in ordine all’onere di riassumere la causa.
5.– A sostegno del dubbio di legittimità costituzionale, viene in particolare ricordata la sentenza n. 111 del 1998, con cui questa Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale di una norma che, a pena di estinzione, onerava le parti dei processi pendenti innanzi alla Commissione tributaria centrale di depositare una istanza di trattazione, nel termine di sei mesi dall’entrata in vigore della norma stessa.
La Corte – osserva il rimettente – ritenne lesi gli artt. 3 e 24 Cost., poiché il termine decorreva dall’entrata in vigore della legge, anziché «dalla data della ricezione dell’avviso dell’onere di proposizione dell’istanza stessa».
A parere del rimettente, la norma censurata si esporrebbe ad identiche censure.
Essa, infatti, incidendo sul «ragionevole e preciso affidamento delle parti a che il processo si svolga secondo le norme vigenti nel momento in cui esse lo hanno instaurato», introdurrebbe un adempimento «eccezionale e derogatorio rispetto al sistema», senza il correttivo di rimediare ad una «situazione di non facile conoscibilità», con l’introduzione di un avviso da comunicare alle parti.
In considerazione del grave effetto conseguente alla mancata riassunzione, ovvero la «estinzione a sorpresa del giudizio», il rimettente ritiene pregiudicato il diritto di difesa «a prescindere dalla maggiore o minore complessità tecnica del processo».
L’esercizio del diritto sarebbe stato reso, infatti, «estremamente difficile», non tanto in forza di un termine di sessanta giorni reputato dal rimettente «non irragionevole», ma a causa del suo dies a quo, nonostante, con l’art. 42, comma 5, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), il legislatore, in un caso affine, avesse invece gravato la segreteria del giudice amministrativo dell’avviso.
6.– Il 22 novembre 2019 si sono costituite in giudizio Ruffolo srl e altri, parti ricorrenti nel giudizio a quo, concludendo per l’accoglimento delle questioni.
Le parti ripercorrono il testo dell’ordinanza di rimessione, condividendolo.
La normativa processuale censurata sarebbe stata inserita «in una legge dai contenuti sostanzialmente ed apparentemente economici», recante «disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese in materia di energia», così da restare celata.
La disposizione menzionata, inoltre, sarebbe del tutto eccentrica se posta a raffronto con la disciplina della perenzione dei ricorsi ultra-quinquennali nel processo amministrativo, che opera quale causa di estinzione del processo per inattività delle parti, solo se queste ultime hanno ricevuto un apposito avviso di segreteria e non hanno assunto ulteriori iniziative processuali.
Le parti private deducono, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, perché sarebbe stato leso l’affidamento dei consociati, con un «ingiusto favor del legislatore» per l’amministrazione resistente nel giudizio.
Ciò avrebbe determinato anche una «interferenza legislativa nel processo pendente».
7.– Il 2 dicembre 2019 si è costituita in giudizio Terna-Rete elettrica nazionale spa, parte resistente nel giudizio principale, la quale, nell’imminenza dell’udienza pubblica, ha depositato memoria, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, nel merito, non fondate.
L’inammissibilità deriverebbe dal fatto che né la parte ricorrente nel giudizio principale, né il rimettente hanno, rispettivamente, chiesto e valutato la concessione della rimessione in termini per riassumere la causa ai sensi dell’art. 37 dell’Allegato 1 al d.lgs. n. 104 del 2010.
Inoltre, il rimettente non avrebbe specificato se, a seguito di accoglimento delle questioni, l’obbligo di avvisare le parti dell’onere di riassunzione dovrebbe competere al giudice, ovvero alla sua segreteria. Ciò comporterebbe l’inammissibilità per «invasione del potere legislativo» e «difetto di legittimazione del Giudice a quo a prefigurare e modulare il tipo e il contenuto di decisione da adottarsi dalla Corte costituzionale».
Le questioni sarebbero inammissibili anche per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, posto che il giudice rimettente si sarebbe limitato a richiamare la precedente giurisprudenza costituzionale, senza offrire altri argomenti a sostegno del dubbio di costituzionalità.
Le questioni sarebbero altresì infondate, poiché il loro accoglimento si porrebbe in contrasto con il principio che assume la generale conoscenza della legge, e dunque – secondo Terna-Rete elettrica nazionale spa – con gli artt. 73, terzo comma, Cost., 10 disp. prel. cod. civ. e 5 cod. pen.
Tale principio, come più volte osservato dalla Corte di cassazione, varrebbe in particolare per gli operatori del diritto e, quanto agli avvocati difensori, si tradurrebbe nell’obbligo di aggiornarsi autonomamente e con diligenza sull’evoluzione normativa e giurisprudenziale.
La disposizione – aggiunge la parte – ebbe anche «una importante visibilità in moltissime riviste e quotidiani giuridici». Essa, dettata nell’esercizio dell’ampia discrezionalità legislativa in tema di istituti processuali, non imporrebbe oneri eccessivamente gravosi per il diritto di difesa e risponderebbe all’esigenza di concentrare le controversie energetiche più significative presso il TAR Lazio in tempi celeri.
8.– I ricorrenti del giudizio principale hanno a propria volta depositato una memoria conclusiva, con la quale reiterano gli argomenti già spesi, con ampi richiami alla giurisprudenza costituzionale.
Insistono altresì sulla violazione degli artt. 6, 13 e 18 CEDU, posto che il legislatore sarebbe arbitrariamente intervenuto su processi in corso, comprimendo senza proporzionalità il fondamentale diritto di difesa, anche allo scopo di ottenere un «azzeramento del contenzioso giurisdizionale» a favore delle «forti oligarchie, pubbliche o private che siano».
La norma censurata, infine, non potrebbe superare il test di ragionevolezza, poiché avrebbe compromesso il diritto di difesa per tutelare interessi di minor rango costituzionale.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 19 luglio 2019 (r.o. n. 197 del 2019) il Consiglio di Stato, sezione sesta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 5, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.
La disposizione censurata, al comma 1, non oggetto di censura, ha devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e alla competenza territoriale del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio «tutte le controversie, anche in relazione alla fase cautelare e alle eventuali questioni risarcitorie, comunque attinenti alle procedure e ai provvedimenti dell’amministrazione pubblica o dei soggetti alla stessa equiparati concernenti la produzione di energia elettrica da fonte nucleare, i rigassificatori, i gasdotti di importazione, le centrali termoelettriche di potenza termica superiore a 400 MW nonché quelle relative ad infrastrutture di trasporto ricomprese o da ricomprendere nella rete di trasmissione nazionale o rete nazionale di gasdotti».
Il comma 5, oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, ha poi previsto che tale previsione in punto di giurisdizione e competenza si applica «anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della presente legge» e che «l’efficacia delle misure cautelari emanate da un’autorità giudiziaria diversa da quella di cui al comma 1 permane fino alla loro modifica o revoca da parte del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in Roma, dinanzi al quale la parte interessata ha l’onere di riassumere il ricorso e l’istanza cautelare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge».
Nel giudizio a quo è appellata la sentenza, con la quale il TAR Lazio ha preso atto che una controversia rientrante tra quelle indicate dall’art. 41, comma 1, della legge n. 99 del 2009, inizialmente proposta avanti al TAR Calabria, secondo il riparto della competenza vigente ratione temporis, non è stata riassunta nel termine decadenziale di sessanta giorni previsto dal successivo comma 5, censurato, e si è pertanto estinta.
Il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale di detta disposizione, nella parte in cui impone che il termine per la riassunzione decorra dalla data di entrata in vigore della legge n. 99 del 2009, anziché dalla data di ricezione dell’avviso dell’onere di riassunzione.
Il giudice a quo, in altri termini, non pone in discussione né la legittimità costituzionale della scelta legislativa di derogare al principio della perpetuatio iurisdictionis, sancito dall’art. 5 del codice di procedura civile, modificando la competenza anche con riguardo ai processi in corso; né la gravosità dell’adempimento consistente nella riassunzione nel termine di sessanta giorni.
Il dubbio di costituzionalità cade, invece, sulla opzione legislativa di non accompagnare la previsione normativa con la garanzia che le parti, mediante un avviso, siano rese edotte dell’onere di riassumere la causa di fronte al giudice divenuto competente per effetto dell’art. 41, comma 1, della legge censurata.
Il rimettente reputa tale omissione manifestamente irragionevole, nonché lesiva del diritto di difesa e del principio del giusto processo (artt. 3, 24 e 111 Cost.).
2.– Nel costituirsi nel giudizio incidentale, Ruffolo srl e altri, parti ricorrenti del processo principale, hanno introdotto nuovi e autonomi profili di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, con riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, 13 e 18 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Tali censure, tuttavia, non sono ammissibili, poiché spetta alla sola ordinanza di rimessione determinare il thema decidendum sottoposto a questa Corte (da ultimo, sentenza n. 49 del 2021).
3.– Si è costituita in giudizio Terna-Rete elettrica nazionale spa, parte resistente nel processo principale, la quale ha eccepito l’inammissibilità delle questioni dedotte, anzitutto per difetto di rilevanza, poiché il rimettente non avrebbe valutato l’applicabilità al caso di specie dell’art. 37 dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), che consente la rimessione in termini per errore scusabile.
L’eccezione è infondata, posto che, in linea logica e a prescindere dall’effettiva pertinenza dell’art. 37 dell’Allegato 1 al d.lsg. n. 104 del 2010 (d’ora in avanti: cod. proc. amm.) al caso oggetto di giudizio, il dubbio sulla legittimità costituzionale di una norma impositiva di un onere processuale precede la questione della applicabilità di un rimedio eventualmente offerto dall’ordinamento (anche) per il caso di inosservanza di tale norma.
3.1.– Terna-Rete elettrica nazionale spa ha altresì eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché il rimettente non avrebbe chiarito se, in caso di accoglimento del dubbio di legittimità costituzionale, l’avviso alle parti debba essere dato dal giudice, ovvero dalla segreteria del Tribunale.
L’eccezione è infondata. Omettendo ogni altra considerazione, è assorbente rilevare che dal tenore dell’ordinanza di rimessione si può univocamente concludere che, nella prospettiva del giudice rimettente, l’avviso competa agli uffici amministrativi del Tribunale, secondo lo schema introdotto da questa Corte con la sentenza n. 111 del 1998, che il giudice a quo reputa attenere ad un caso analogo all’odierno, e che si è risolto appunto in tale modo.
Va aggiunto che, nelle ipotesi in cui il giudice amministrativo ravvisi la propria incompetenza, pronuncia ordinanza, ai sensi dell’art. 15 cod. proc. amm. È perciò evidente che il rimettente, omettendo ogni riferimento a tale ordinaria disciplina del rilievo del difetto di competenza, e riferendosi viceversa ad un “avviso”, abbia ritenuto che, in caso di accoglimento delle questioni, quest’ultimo debba spettare alla segreteria del Tribunale.
3.2.– La parte resistente ha infine eccepito l’inammissibilità delle questioni, per difetto di motivazione sul requisito della non manifesta infondatezza, che il rimettente avrebbe illustrato con un mero rinvio alla sentenza n. 111 del 1998 di questa Corte.
L’eccezione è infondata, poiché i richiami a tale pronuncia si inseriscono in una trama motivazionale del tutto congrua, con cui essi sono resi calzanti alle odierne questioni, ampiamente illustrate con riferimento ai parametri costituzionali indicati.
4.– La disposizione censurata è stata abrogata dall’art. 4, comma 1, numero 43 dell’Allegato 4 al d.lgs. n. 104 del 2010, e nella sostanza riprodotta dall’art. 135, comma 1, lettera f), cod. proc. amm.
Come ha rilevato il rimettente, essa continua a trovare applicazione nel giudizio principale, nel quale l’effetto estintivo causato dalla omessa riassunzione si è determinato fin dal 2009, ed è quindi interamente disciplinato dalla norma censurata. Né vi sono ragioni per reputare implausibile la valutazione del giudice a quo, al quale essa spetta, in ordine all’effetto processuale conseguente all’inosservanza dell’onere, ovvero l’estinzione.
5.– È fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
La norma censurata riconnette all’inerzia delle parti la più grave delle conseguenze, poiché esse incorrono nell’effetto estintivo appena rammentato.
Ciò accade in conseguenza di una deroga (la cui legittimità costituzionale in sé il rimettente non pone in dubbio) ad un principio di carattere generale (codificato dall’art 5 cod. proc. civ. e applicabile al processo amministrativo ai sensi dell’art. 39 cod. proc. amm.), ovvero che giurisdizione e competenza sono determinate con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda giudiziale.
Eventuali deroghe a tale principio, se costituzionalmente legittime, devono nondimeno essere accompagnate, allorché comportino l’onere per la parte di riassumere il giudizio davanti al giudice competente entro un termine perentorio, da accorgimenti che garantiscano alle parti stesse l’effettiva conoscenza del mutamento normativo, medio tempore intervenuto. E ciò in ragione, per un verso, del naturale affidamento che le parti ripongono nella stabilità della competenza del giudice, una volta che il processo abbia avuto inizio, e, per altro verso, della particolare gravità della sanzione della decadenza che presidia il mancato adempimento dell’onere nel termine prescritto.
Non a caso, con riguardo a ipotesi normative di estinzione del giudizio amministrativo a causa della inattività delle parti, il legislatore ha posto a carico delle segreterie l’adempimento di doveri informativi, volti ad agevolare l’esercizio del diritto di difesa.
Depone nel senso anzidetto l’art. 42 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), rammentato dal rimettente, con il quale si stabilì che la segreteria del giudice dovesse avvisare le parti, in occasione del trasferimento dei ricorsi pendenti presso qualsiasi autorità giurisdizionale, affinché decorresse il termine perentorio per chiedere la fissazione dell’udienza di trattazione della causa.
In via strutturale, inoltre, l’estinzione del giudizio amministrativo per perenzione del ricorso ultra-quinquennale (ovvero, che pende da 5 anni, senza che sia stata avanzata nuova istanza di fissazione di udienza) non può essere rilevata, se non a seguito di avviso alle parti costituite dalla segreteria del Tribunale, per permettere loro di attivarsi (art. 82 cod. proc. amm., preceduto dall’analogo art. 9 della legge 21 luglio 2000, n. 205, recante «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa»).
Nelle ipotesi in cui la legge connetta all’inerzia delle parti l’estinzione nel processo amministrativo, pur a fronte di oneri immediatamente ricavabili dalla normativa vigente, si può pertanto rilevare la tendenza del legislatore a favorire l’adempimento processuale, grazie alla collaborazione degli uffici.
A simile tendenza la norma censurata si è sottratta. Si deve infatti considerare che la perenzione per inattività processuale è effetto tipico del giudizio amministrativo, mentre l’onere di riassunzione di una causa pendente avanti al giudice divenuto competente discende da un’iniziativa del legislatore del tutto peculiare, e derogatoria rispetto all’ordinario andamento del processo.
Appare perciò manifestamente irragionevole la scelta di negare alla parte il concorso degli uffici del giudice nel predisporre le attività processuali necessarie alla prosecuzione della causa, in un’ipotesi peculiare e derogatoria, benché esso sia invece offerto, pur non sistematicamente, ma comunque per casi connaturati all’andamento del processo, in applicazione di una regola generale.
Va aggiunto che il legislatore ben avrebbe potuto assegnare al giudice preventivamente adito il compito di dichiarare il proprio difetto di giurisdizione e di competenza, secondo quanto ordinariamente accadeva per effetto dell’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile), che, nel medesimo tratto temporale in cui è maturata la norma censurata, ha optato per tale soluzione ai fini di garantire la translatio iudicii nei casi di carenza di giurisdizione. Non diversamente il legislatore si era in precedenza orientato con l’art. 3, comma 2-quater, del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile), convertito, con modificazioni, nella legge 27 gennaio 2006, n. 21, con il quale si è previsto che, in un’ipotesi di incompetenza del primo giudice per ius superveniens, spettasse a tale giudice dichiararsi incompetente con sentenza.
La scelta di imporre un diretto onere di riassunzione a carico delle parti, pur in assenza di analoga pronuncia giurisdizionale, non è in sé costituzionalmente illegittima, atteso che essa persegue un obiettivo di celerità nella trattazione di delicate controversie attinenti ad interessi significativi. Allorché tuttavia, come nel caso in esame, l’onere stesso non sia accompagnato dalla previsione di un avviso alle parti costituite, avviso dal quale soltanto decorra il termine breve fissato per la riassunzione, e sia invece previsto che esso decorra senz’altro dall’entrata in vigore della legge, la scelta medesima si espone ad un tratto di devianza dalla comune trama legislativa, che sfocia in una eccentricità lesiva del principio di ragionevolezza.
6.– L’art. 41, comma 5, della legge censurata va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che il termine per la riassunzione del ricorso decorra dalla data di entrata in vigore della medesima legge. Spetta al giudice rimettente decidere quali effetti tale pronuncia produca nel giudizio principale.
7.– Sono assorbite le questioni poste in relazione agli artt. 24 e 111 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41, comma 5, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), nella parte in cui prevede che il termine per la riassunzione del ricorso decorra dalla data di entrata in vigore della legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 maggio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Daria de PRETIS, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA