Corte Costituzionale, Sentenza n.173 del 23/07/2021

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Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari (nella specie: affidamento in prova al servizio sociale) - Cause ostative - Divieto di concessione, per la durata di tre anni, al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca di una misura alternativa - Denunciata violazione del principio di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena - Insussistenza - Non fondatezza delle questioni

Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. - dell'art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui prevedono che non possa essere concesso, per la durata di tre anni, l'affidamento in prova al servizio sociale previsto dall'art. 47 ord. penit., al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell'art. 47, comma 11, dell'art. 47-ter, comma 6, o dell'art. 51, comma 1, della medesima legge. La preclusione censurata costituisce espressione della discrezionalità legislativa, non in contrasto con la funzione rieducativa della pena e non irragionevole, in quanto discende da una valutazione caso per caso del giudice di sorveglianza, effettuata sulla base non già di presunzioni legate al titolo di reato o allo status di recidivo, ma del percorso compiuto dal condannato durante l'esecuzione della pena, e in particolare di specifiche condotte di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura alternativa, tenuto conto anche della possibilità oggi offerta al giudice dal nuovo testo dell'art. 51-ter, comma 1, ordin. penit. di disporre in alternativa alla revoca, riservata ai casi più gravi, la prosecuzione della misura o la sua sostituzione. Resta, peraltro, affidata al legislatore la valutazione se e in che misura il rigore della disciplina possa essere attenuato, anche in relazione al rischio che il divieto triennale conduca, nella pratica, a rendere improbabile non solo un secondo accesso alle misure alternative, ma anche il godimento dei più limitati benefici del permesso premio e del lavoro all'esterno. (Precedente specifico citato: ordinanza n. 87 del 2004. Altri precedenti citati: sentenze n. 56 del 2021, n. 102 del 2020, n. 50 del 2020, n. 253 del 2019, n. 187 del 2019, n. 149 del 2018, n. 189 del 2010 e n. 436 del 1999).

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SENTENZA N. 173

ANNO 2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto nel procedimento di sorveglianza a carico di G. M., con ordinanza del 5 novembre 2020, iscritta al n. 197 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 luglio 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 5 novembre 2020, iscritta al n. 197 del r.o. del 2020, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «prevedono che non possa essere concesso, per la durata di tre anni, l’affidamento in prova al servizio sociale previsto dall’art. 47 ord. penit., al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell’art. 47, co. 11, dell’art. 47 ter co. 6 o dell’art. 51 co. 1, della medesima legge».

1.1.– Il giudice rimettente è chiamato a pronunciarsi sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale in via provvisoria presentata nell’ottobre 2020, ai sensi dell’art. 47, comma 4, ordin. penit., da un detenuto cui nell’agosto 2019 era stata revocata la medesima misura alternativa.

Più in particolare, l’istante aveva ottenuto nel 2017 di poter scontare in regime di affidamento in prova al servizio sociale una prima pena di tre anni di reclusione, determinata in forza di provvedimento di cumulo, per vari delitti contro il patrimonio e resistenza a pubblico ufficiale commessi tra il 2010 e il 2011. La misura – rileva il rimettente – aveva avuto regolare svolgimento per oltre due anni e mezzo, anche grazie all’attività lavorativa svolta dal condannato e il supporto del nucleo familiare, costituito dalla compagna e dalla figlia, nata a dicembre 2018. Tuttavia, a diciannove giorni dal fine pena, il condannato si era allontanato dal territorio nazionale. La misura alternativa era stata conseguentemente revocata, e nell’ottobre 2019 era stata ripristinata la detenzione per l’esecuzione del frammento della pena non espiato e della pena determinata da un nuovo provvedimento di cumulo per altri delitti contro il patrimonio commessi tra il 2012 e il 2013, con fine pena fissata al marzo 2022, tenuto conto della liberazione anticipata maturata.

Nell’ottobre 2020 il condannato aveva dunque presentato l’istanza all’esame del rimettente, allegando la necessità di attendere ai propri compiti familiari e la disponibilità del proprio precedente datore di lavoro a riassumerlo, e sostenendo che l’allontanamento dal territorio nazionale che aveva determinato la revoca della misura di cui aveva in precedenza beneficiato era dovuto alla convinzione, causata da un calcolo erroneo, di avere ormai terminato l’esecuzione della pena.

Il rimettente rileva che l’istanza dovrebbe essere ritenuta inammissibile ai sensi del combinato disposto dei commi 1, 2 e 3 dell’art. 58-quater ordin. penit., non essendo ancora trascorsi tre anni dal precedente provvedimento di revoca. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità di cui si dà atto nell’ordinanza di rimessione e che il giudice a quo afferma di condividere, infatti, tale termine non sarebbe circoscritto alla vicenda esecutiva nel cui ambito è intervenuta la revoca, ma spiegherebbe i propri effetti anche sull’esecuzione degli ulteriori provvedimenti definitivi emessi nei confronti dell’interessato.

Tuttavia, il rimettente – pur dando atto che, con ordinanza n. 87 del 2004, questa Corte aveva ritenuto manifestamente infondate censure sollevate sulle stesse disposizioni e in riferimento ai medesimi parametri – dubita della compatibilità della preclusione in esame con gli artt. 3 e 27 Cost.

1.2.– Ad avviso del giudice a quo, il vizio di fondo della disciplina in esame concernerebbe la «fissità degli effetti» della revoca, che comporta una preclusione triennale alla concessione di ogni beneficio o misura alternativa, «a prescindere da ogni considerazione sulla situazione concreta della persona, sui suoi progressi trattamentali seguiti a quel momento negativo, sulle sue prospettive di reinserimento e sulla durata della pena ancora espianda, dalla quale potrebbe scomparire completamente (ove il residuo fosse inferiore ai tre anni) la prospettiva di un trattamento rieducativo improntato alla costruzione di un percorso esterno al carcere».

Il rimettente rammenta varie pronunce di questa Corte che hanno progressivamente circoscritto l’ambito di applicazione dell’art. 58-quater ordin. penit., a partire dalla sentenza n. 436 del 1999, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del suo comma 2 nella parte in cui si riferisce ai condannati minorenni, in ragione della necessità di garantire agli stessi una «valutazione individualizzata e caso per caso», idonea comunque «a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all’esecuzione penale minorile».

La sentenza n. 189 del 2010 – prosegue il giudice a quo – ha poi dichiarato inammissibili le censure sollevate sul divieto triennale di concessione di benefici e misure alternative al condannato riconosciuto colpevole di una condotta punibile ai sensi dell’art. 385 del codice penale, sulla base però di una lettura costituzionalmente orientata della disciplina all’esame, tale da consentire al giudice di «valutare, caso per caso, con motivazione approfondita e rigorosa, la personalità e le condotte concrete del condannato», sì da evitare la vanificazione della funzione rieducativa della pena e la compromissione degli interessi dei familiari con lui eventualmente conviventi.

Il rimettente osserva, tuttavia, che tale interpretazione costituzionalmente orientata non è stata adottata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alla parallela ipotesi, anch’essa disciplinata dal plesso normativo censurato, della revoca della misura alternativa disposta per ragioni diverse dalla commissione di una condotta punibile ai sensi dell’art. 385 cod. pen., la quale pure dà luogo a una preclusione triennale rispetto a ogni altro beneficio e misura alternativa, con la sola eccezione della liberazione anticipata.

Il rimettente menziona quindi la sentenza n. 187 del 2019, con cui questa Corte ha ritenuto fondate questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento all’art. 31 Cost., sul medesimo combinato disposto in questa sede censurato, nella parte in cui prevede che non possano essere concesse, per la durata di tre anni, la detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies ordin. penit. e la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit., al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa.

Alla luce di tale evoluzione della giurisprudenza costituzionale, da leggersi anche attraverso i principi enunciati in tema di funzione rieducativa della pena dalle altre sentenze costituzionali n. 149 del 2018 e n. 253 del 2019, dovrebbe ad avviso del giudice a quo apprezzarsi la irragionevolezza, e assieme la idoneità a determinare una «irrimediabile compromissione della finalità rieducativa della pena», della disciplina censurata.

La fissità dell’effetto preclusivo triennale conseguente alla revoca della misura alternativa non consentirebbe di «graduare ragionevolmente le conseguenze» del comportamento posto a base della revoca, in relazione alla sua concreta gravità ai fini della prognosi relativa alla futura condotta del condannato; e impedirebbe di tenere conto dell’osservazione intramuraria medio tempore effettuata. La lunga durata di tale preclusione, in cui il condannato è presunto socialmente pericoloso, potrebbe d’altra parte inibire una concessione di benefici penitenziari per l’intera durata della pena residua, con conseguente «fortissima compressione della funzione rieducativa della pena, confinata alla sola possibile concessione di liberazione anticipata»; il che frustrerebbe il percorso rieducativo del condannato, privandolo di ogni concreta utilità. Inoltre, la preclusione triennale riguarderebbe «benefici tanto diversi quanto il permesso premio, il lavoro all’esterno e le misure alternative, compromettendo […] la possibilità di una necessaria progressione trattamentale in grado di accompagnare più adeguatamente un percorso verso l’esterno»; ciò che si appaleserebbe in contrasto con entrambi i parametri costituzionali invocati, vieppiù quando – come nel caso di specie – siano presenti figli in tenera età, che abbiano un interesse, costituzionalmente fondato sull’art. 31 Cost., a mantenere un rapporto continuativo con ciascuno dei genitori.

Non sarebbe senza significato, d’altra parte, che il legislatore abbia previsto, con la legge 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), una delega – ancorché poi non compiutamente attuata – all’eliminazione di automatismi e di preclusioni che impedissero o ritardassero l’individuazione del trattamento rieducativo, «con il dichiarato obiettivo di un complessivo riordino della legge penitenziaria volto a riguadagnarle una più piena coerenza con la finalità rieducativa della pena».

2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

L’interveniente contesta anzitutto la pertinenza della giurisprudenza costituzionale invocata dal giudice a quo, osservando in particolare come la sentenza n. 187 del 2019 fosse specificamente calibrata su una particolare categoria di condannati, rappresentata dai genitori di bambini in tenera età; e rileva quindi come il rimettente abbia omesso «di considerare che la preclusione triennale consegue ad una revoca delle misure alternative che non è automatica, bensì basata su di una valutazione in concreto e caso per caso delle situazioni in cui il comportamento del condannato, contrario alla leggi o alle prescrizioni, risulti incompatibile con la prosecuzione dell’affidamento in prova (art. 47, comma 11, della legge n 354 del 1975) o della detenzione domiciliare (art. 47-ter, comma 6, della legge n. 354 del 1975), ovvero delle situazioni in cui il soggetto non si palesi idoneo al trattamento in semilibertà (art. 51, comma 1, della legge n. 354 del 1975)».

3.– Il condannato istante non si è costituito in giudizio.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui «prevedono che non possa essere concesso, per la durata di tre anni, l’affidamento in prova al servizio sociale previsto dall’art. 47 ord. penit., al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa, ai sensi dell’art. 47, co. 11, dell’art. 47 ter co. 6 o dell’art. 51 co. 1, della medesima legge».

2.– L’art. 58-quater ordin. penit. dispone, al comma 1, che «[l]’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall’art. 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale».

Il comma 2 del medesimo articolo estende tale disciplina al «condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi dell’art. 47, comma 11 [quanto all’affidamento in prova], dell’art. 47-ter, comma 6 [quanto alla detenzione domiciliare], o dell’art. 51, primo comma [quanto alla semilibertà]».

Il successivo comma 3 stabilisce che «[i]l divieto di concessione dei benefici opera per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2».

Dal combinato disposto dei commi 1, 2 e 3 si evince dunque – come correttamente evidenziato dal giudice a quo – che il condannato cui siano stati revocati l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare o la semilibertà ai sensi delle disposizioni richiamate nel comma 2 non può ottenere alcuno dei benefici o delle misure alternative indicati nel comma 1 (assegnazione al lavoro all’esterno, permessi premio, affidamento in prova al servizio sociale nei casi di cui all’art. 47 ordin. penit., detenzione domiciliare e semilibertà) prima che siano trascorsi tre anni dalla revoca della misura alternativa precedentemente ottenuta.

Tale preclusione – che impedisce al giudice di valutare la meritevolezza del condannato rispetto al beneficio, o alla nuova misura alternativa cui aspiri – è ritenuta dal rimettente in contrasto tanto con il principio di ragionevolezza, quanto con la funzione rieducativa della pena.

3.– In sostanza, il giudice a quo invita questa Corte a riconsiderare le ragioni in base alle quali, con l’ordinanza n. 87 del 2004, erano state ritenute manifestamente infondate censure aventi ad oggetto la stessa preclusione, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali. Una tale riconsiderazione si renderebbe necessaria, ad avviso del rimettente, anche in relazione all’evoluzione medio tempore intervenuta nella giurisprudenza costituzionale, che avrebbe ormai posto in luce l’insostenibilità della preclusione triennale stabilita dalla disciplina censurata.

Questa Corte, tuttavia, non è persuasa dagli argomenti del rimettente e ritiene non fondate le questioni.

3.1.– La menzionata ordinanza n. 87 del 2004 aveva rilevato che «la preclusione triennale in esame consegue ad una revoca delle misure alternative che non è “automatica”, bensì basata su di una valutazione in concreto e caso per caso delle situazioni in cui il comportamento del condannato, contrario alla legge o alle prescrizioni, risulti incompatibile con la prosecuzione» della misura alternativa originariamente concessa; e per tale essenziale ragione aveva escluso che la preclusione medesima contrastasse con gli artt. 3 e 27 Cost.

3.2.– L’odierno rimettente osserva in proposito che, ferma restando la natura non automatica del provvedimento di revoca, la preclusione triennale rispetto ad una nuova concessione di misure alternative, o anche solo dei benefici del permesso premio e del lavoro all’esterno del carcere, risulterebbe eccessivamente rigida, non consentendo al giudice di sorveglianza di graduare ragionevolmente le conseguenze della revoca in relazione alla concreta gravità dei fatti che l’hanno determinata, nonché ai progressi nel percorso rieducativo nel frattempo intervenuti. La lunga durata della preclusione potrebbe, d’altra parte, inibire la concessione di benefici o misure alternative per l’intera durata della pena residua ovvero, come nel caso oggetto del giudizio a quo, della diversa pena determinata da un nuovo ordine di esecuzione. In ogni caso, la preclusione riguarderebbe indiscriminatamente qualsiasi beneficio, compresi per l’appunto i permessi premio e il lavoro all’esterno del carcere; ciò che finirebbe per togliere al condannato qualsiasi incentivo (diverso dalla prospettiva della liberazione anticipata) a progredire nel percorso rieducativo per l’intero arco del triennio, pregiudicando al tempo stesso gli interessi dei terzi, e in particolare dei minori, che abbiano rapporti con il condannato.

3.3.– Anche all’esito di una complessiva rimeditazione delle conclusioni cui era pervenuta con l’ordinanza n. 87 del 2004 alla luce della propria successiva giurisprudenza, tuttavia, questa Corte ritiene che la preclusione censurata, pur indubbiamente severa e opinabile dal punto di vista delle scelte di politica penitenziaria, costituisca espressione della discrezionalità legislativa, «non in contrasto con il principio costituzionale di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, primo e terzo comma, Cost.), e non irragionevole al punto da integrare una lesione ex art. 3 Cost.» (in questi stessi termini, si veda la sentenza n. 50 del 2020, relativa ad altra preclusione prevista dall’ordinamento penitenziario).

3.3.1.– Anzitutto, la preclusione triennale ora all’esame non stabilisce un automatismo ostativo fondato sul titolo di reato, come invece altre preclusioni giudicate costituzionalmente illegittime per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., tra le quali segnatamente quelle oggetto delle sentenze n. 149 del 2018 e n. 253 del 2019.

3.3.2.– Né essa dipende da un giudizio di maggiore pericolosità espresso dal giudice della cognizione attraverso il riconoscimento dell’aggravante della recidiva, come invece accadeva rispetto al divieto di concessione della detenzione domiciliare al condannato ultrasettantenne recidivo stabilito dall’art. 47-ter, comma 01, ordin. penit.: divieto ritenuto da questa Corte costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 56 del 2021, tra l’altro perché la valutazione compiuta dal giudice della cognizione sulla sussistenza della recidiva non ha alcuna relazione con la distinta valutazione, di competenza del giudice di sorveglianza, avente ad oggetto la concreta meritevolezza del condannato a essere ammesso ai benefici o alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario.

3.3.3.– Il divieto triennale, previsto dalle disposizioni censurate, di concessione di benefici e misure alternative conseguente alla revoca di altra misura alternativa precedentemente concessa – evidentemente pensato dal legislatore in chiave di deterrenza contro eventuali violazioni delle prescrizioni inerenti alla misura – si fonda, piuttosto, sul puntuale riscontro da parte dello stesso tribunale di sorveglianza di specifiche violazioni commesse dal condannato durante il godimento della misura medesima.

Occorre rammentare, a questo proposito, che – per effetto della nuova formulazione dell’art. 51-ter, comma 1, ordin. penit. introdotta dall’art. 5, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 123, recante «Riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), d), i), l), m), o), r), t) e u), della legge 23 giugno 2017, n. 103» – il tribunale di sorveglianza ha oggi la possibilità di reagire alla commissione di comportamenti suscettibili di determinare la revoca della misura alternativa attraverso una pluralità di risposte: la prosecuzione della misura nonostante la condotta inosservante da parte del condannato; la sua sostituzione con altra misura; e infine la sua revoca, riservata evidentemente ai casi più gravi, che dimostrino la necessità di una regressione del percorso rieducativo e di un almeno temporaneo ripristino del regime di detenzione, in particolare in funzione di contenimento di un concreto rischio di recidiva evidenziatosi in capo al condannato. Nell’esercitare tale discrezionalità, il tribunale non potrà non tenere conto anche delle conseguenze particolarmente gravose associate alla revoca, e in particolare della preclusione – nell’arco di un intero triennio – relativa alla concessione di ogni altra misura alternativa o beneficio penitenziario, diversi dalla liberazione anticipata.

La preclusione qui all’esame discende dunque da una valutazione caso per caso da parte del giudice di sorveglianza, effettuata sulla base non già di presunzioni legate al titolo di reato o allo status di recidivo del condannato, ma del percorso da lui concretamente compiuto durante l’esecuzione della pena, e in particolare di specifiche condotte in violazione delle prescrizioni inerenti alla misura alternativa, che ne hanno determinato un giudizio di non meritevolezza rispetto alla possibilità, già concessagli una prima volta, di eseguire la propria pena in regime extramurario.

3.4.– Né le ulteriori pronunce di questa Corte richiamate dal giudice rimettente dimostrano il carattere irragionevole e contrario alla funzione rieducativa della pena della preclusione triennale all’esame.

3.4.1.– La sentenza n. 436 del 1999 ha bensì dichiarato l’illegittimità costituzionale della preclusione di cui al comma 2 dell’art. 58-quater ordin. penit., ma nella sola parte in cui si riferisce ai condannati minorenni, rispetto ai quali la necessità di una valutazione individualizzata e caso per caso in relazione a ciascuna tappa del percorso rieducativo si pone con speciale pregnanza, risultando incompatibile anche con la fissità del termine triennale nel quale è vietata la concessione di qualsiasi altro beneficio o misura alternativa. Tali considerazioni appaiono ritagliate sullo specifico contesto dell’esecuzione minorile, disegnata per rispondere alle esigenze di personalità ancora in formazione, e non si prestano a essere traslate tout court al diverso contesto dell’esecuzione della pena nei confronti di un condannato adulto, il quale abbia deliberatamente violato le prescrizioni inerenti a una misura alternativa già concessagli, nella consapevolezza delle gravose conseguenze che l’ordinamento riconnette a tale violazione.

3.4.2.– Quanto alla sentenza n. 189 del 2010, essa si è limitata a giudicare inammissibili le questioni allora prospettate, in considerazione dell’omesso tentativo di superare i dubbi di illegittimità costituzionale sollevati dal rimettente attraverso un’interpretazione – invero di problematica compatibilità con il dato testuale delle disposizioni censurate, ma già diffusa presso la giurisprudenza di legittimità – in materia di preclusioni derivanti dalla commissione di fatti punibili ai sensi dell’art. 385 cod. pen., la quale mirava ad attenuare in via ermeneutica la rigidità della preclusione triennale stabilita dal combinato disposto ora censurato. L’odierno rimettente esclude invece, con argomentazione del tutto plausibile, che una tale interpretazione sia praticabile in relazione alla, parallela ma distinta, preclusione oggetto delle proprie censure.

3.4.3.– Infine, la recente sentenza n. 187 del 2019 ha sì ritenuto costituzionalmente illegittima la preclusione in parola, ma in riferimento al solo art. 31 Cost. e con riguardo alla sola detenzione domiciliare (ordinaria o speciale) funzionale alla cura di figli minori di dieci anni, che non possano essere affidati alle cure dell’altro genitore. L’interesse primario che questa Corte ha inteso in quell’occasione tutelare è stato, dunque, non tanto quello alla rieducazione del condannato, quanto quello del bambino a essere accudito da almeno uno dei genitori: interesse, quest’ultimo, non automaticamente prevalente su ogni altro, ma che certo impone bilanciamenti caso per caso, refrattari a qualsiasi preclusione e automatismo (sul punto si veda anche, mutatis mutandis, la sentenza n. 102 del 2020, ai punti 5.3. e seguenti del Considerato in diritto), anche solo con riguardo alla durata del divieto di concessione di nuove misure o benefici.

Un simile bilanciamento non è, per contro, in discussione nelle questioni qui all’esame, nelle quali non si pone il problema della tutela dell’interesse del bambino a essere accudito da almeno un genitore, e in cui la presenza di affetti familiari per il detenuto – come pure accade nel caso oggetto del giudizio a quo, caratterizzato dalla presenza di una figlia in tenerissima età – costituisce un’eventualità frequente e certo foriera di ulteriori sofferenze a carico sia del condannato che dei suoi cari, ma della quale la disciplina delle misure alternative e dei benefici penitenziari già si fa ordinariamente carico, nel disegnare il percorso rieducativo che il condannato deve compiere per reinserirsi gradualmente nel tessuto sociale: un percorso che passa anche per la responsabilizzazione del condannato in ordine alla necessità di rispettare le prescrizioni inerenti alle misure alternative già concessegli.

3.5.– Da tutto ciò consegue la non fondatezza delle questioni prospettate, nel medesimo solco delle valutazioni già sinteticamente espresse con l’ordinanza n. 87 del 2004.

Resta, peraltro, affidata alla discrezionalità del legislatore la valutazione se e in che misura il rigore della disciplina censurata possa essere attenuato, anche in relazione al rischio che la preclusione triennale da essa stabilita conduca, nella pratica, a rendere improbabile non solo un secondo accesso alle misure alternative, ma anche il godimento dei più limitati benefici del permesso premio e del lavoro all’esterno del carcere durante la successiva esecuzione della pena. In effetti, tenuto conto degli stringenti limiti di pena inflitta o residua che condizionano oggi l’accesso alle singole misure (quattro anni, nelle ipotesi ordinarie di detenzione domiciliare e di affidamento in prova al servizio sociale), oltre che dei tempi tecnici necessari per l’esame delle istanze del condannato da parte del giudice di sorveglianza, la preclusione triennale successiva alla revoca, pur potenzialmente temperata dagli effetti della liberazione anticipata, finisce per coprire, in un elevato numero di casi, la totalità o quasi della pena residua.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, commi 1, 2 e 3, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2021.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

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