Corte Costituzionale, Ordinanza n.217 del 18/11/2021

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Unione Europea - Rapporti dello Stato con l'Unione europea - Rapporti tra i diversi sistemi di garanzia - Costruttiva e leale collaborazione. (Classif. 258004)

I diversi sistemi di garanzia europei operano in un quadro di costruttiva e leale cooperazione. (Precedenti: S. 269/2017 - mass. 41945; O. 182/2020 - mass. 43382; O. 117/2019 - mass. 42633).

Esecuzione penale - In genere - Mandato d'arresto europeo - Motivi di rifiuto della consegna - Facoltà, per l'autorità giudiziaria dell'esecuzione, di opporsi alla consegna del cittadino di uno Stato non membro UE che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, quando la Corte d'appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata dall'autorità giudiziaria di uno Stato membro UE sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno - Omessa previsione - Denunciata difformità della disciplina nazionale di attuazione con l'art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, disparità di trattamento, violazione del principio della funzione rieducativa della pena, nonché del diritto al rispetto della vita familiare - Necessità di sollevare questioni interpretative relative ad aspetti centrali del funzionamento del mandato d'arresto europeo, idonee a produrre conseguenze generali - Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE. (Classif. 098001)

È disposta la sottoposizione alla Corte di giustizia dell'Unione europea, ai sensi dell'art. 267 TFUE, delle le seguenti questioni pregiudiziali: a) se l'art. 4, punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, interpretato alla luce dell'art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), osti a una normativa, come quella italiana, che - nel quadro di una procedura di mandato di arresto europeo finalizzato all'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza - precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest'ultimo; b) in caso di risposta affermativa alla prima questione, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre all'autorità giudiziaria dell'esecuzione di rifiutare la consegna. L'art. 18-bis, comma 1, lett. c), della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall'art. 6, comma 5, lett. b), della legge n. 117 del 2019, ha recepito la decisione quadro 2002/584/GAI, senza prevedere il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell'Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall'autorità giudiziaria di uno Stato membro dell'Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno. La questione presenta elementi di novità rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia sinora formatasi in materia di mandato di arresto europeo, per cui occorre stabilire se, ed eventualmente a quali condizioni, il cittadino di un paese terzo che sia residente o dimorante nello Stato dell'esecuzione sia titolare di un diritto fondamentale a non essere allontanato dal territorio di quest'ultimo Stato ai fini dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza nello Stato di emissione. Tale interrogativo esige una risposta, in primo luogo, sul piano del diritto dell'Unione, dal momento che la stessa Corte di giustizia ha già chiarito, in via generale, che le disposizioni della decisione quadro sul mandato d'arresto che non contengano alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri devono di norma essere oggetto, nell'intera Unione, di un'interpretazione autonoma e uniforme (Precedente: O. 216/2021 - mass. 44272).

Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia - In genere - Richiesta di decisione con procedimento accelerato - Possibilità quando l'interpretazione richiesta è idonea a produrre conseguenze generali, tanto per le autorità chiamate a cooperare (nella specie: nell'ambito del mandato d'arresto europeo), quanto per i diritti delle persone (nella specie: ricercate per essere sottoposte ad arresto). (Classif. 224001)

È chiesto - in base all'art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia del 25 settembre 2012 - che la questione di interpretazione dell'art. 4, del punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002 sia decisa con procedimento accelerato. La causa in esame solleva infatti questioni interpretative relative ad aspetti centrali del funzionamento del mandato d'arresto europeo, e pertanto l'interpretazione richiesta è idonea a produrre conseguenze generali, tanto per le autorità chiamate a cooperare (nella specie: nell'ambito del mandato d'arresto europeo), quanto per i diritti delle persone ricercate.

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ORDINANZA N. 217

ANNO 2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018), promosso dalla Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di O. G., con ordinanza del 27 ottobre 2020, iscritta al n. 42 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 21 ottobre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 27 ottobre 2020, la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge 4 ottobre 2019, n. 117 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2018).

La disposizione è censurata «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».

Il giudice rimettente ritiene che tale omessa previsione contrasti con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, all’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 17, paragrafo 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (PIDCP), nonché con gli artt. 2, 3, e 27, terzo comma Cost.

1.1.– Il giudizio principale concerne l’esecuzione di un mandato di arresto europeo ai fini all’esecuzione della pena, emesso il 13 febbraio 2012 dalla Pretura di Brasov (Romania) nei confronti di O. G., cittadino moldavo ma stabilmente radicato in Italia dal punto di vista familiare e lavorativo. Secondo quanto riferito dal giudice rimettente, O. G. è stato condannato in via definitiva, in Romania, alla pena di cinque anni di reclusione per i delitti di evasione fiscale e appropriazione indebita delle somme dovute per il pagamento delle imposte sui redditi e dell’IVA, commessi in qualità di amministratore di una società a responsabilità limitata tra settembre 2003 e aprile 2004.

Con una prima sentenza depositata il 7 luglio 2020, la Corte d’appello di Bologna ha disposto la consegna di O. G. all’autorità giudiziaria di emissione.

Su ricorso dell’interessato, il 16 settembre 2020 la Corte di cassazione ha annullato con rinvio tale sentenza, invitando la Corte d’appello di Bologna a valutare l’opportunità di sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 sotto vari profili, richiamando altresì la propria ordinanza del 4 febbraio 2020, n. 10371, con la quale la stessa Corte di cassazione aveva già sottoposto a questa Corte numerose questioni di legittimità costituzionale della medesima disciplina.

Con l’ordinanza che ha dato origine al presente giudizio la Corte d’appello di Bologna, rilevato che la difesa dell’interessato «ha adeguatamente fornito la prova di [un suo] stabile radicamento familiare e lavorativo sul territorio nazionale», ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale sopra enunciate per i motivi di seguito riassunti.

1.2.– Il giudice a quo osserva anzitutto che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, il quale enumera i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto europeo, consente allo Stato di esecuzione del mandato di rifiutare la consegna, finalizzata all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà irrogate dallo Stato di emissione, della persona che sia cittadino, ovvero, pur senza esserlo, «dimori» o «risieda» nello Stato richiesto, impegnandosi a eseguire esso stesso la pena o misura di sicurezza irrogate, conformemente al suo diritto interno. Tale possibilità mirerebbe a garantire un’effettiva funzione risocializzante della pena, rendendo possibile il mantenimento dei legami familiari e sociali del condannato, per favorirne un corretto reinserimento al termine dell’esecuzione. La risocializzazione dovrebbe essere garantita a ogni condannato, senza distinzioni fondate sulla cittadinanza.

Il medesimo obiettivo di risocializzazione del condannato ispirerebbe del resto anche l’art. 5, punto 3, della decisione quadro, che consente di subordinare l’esecuzione del mandato rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale, emesso nei confronti del «cittadino o residente dello Stato membro di esecuzione», alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate nello Stato emittente.

Secondo il giudice rimettente, l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, che traspone nell’ordinamento italiano l’art. 4, punto 6, della decisione quadro, ne ha indebitamente ristretto l’ambito applicativo, in quanto la facoltà di rifiutare la consegna, in caso di mandato di arresto finalizzato all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza, è limitata ai soli cittadini italiani o di altri Stati membri dell’Unione europea, ad esclusione dei cittadini di paesi terzi. Questi ultimi non potrebbero scontare in Italia la pena inflitta nello Stato emittente, pur se dimostrino di avere instaurato saldi legami di natura economica, professionale o affettiva in territorio italiano.

In conseguenza di tale limitazione, la disposizione censurata si porrebbe al di fuori della lettera e della ratio ispiratrice dell’art. 4, punto 6, dell’indicata decisione quadro, così violando gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. Secondo il rimettente, infatti, rientra nella discrezionalità degli Stati membri decidere se attuare o meno i motivi di non esecuzione facoltativa del mandato d’arresto. Qualora però decidano di trasporli nei rispettivi ordinamenti interni, essi sarebbero tenuti ad attenersi al contenuto della decisione quadro, che non distingue tra persone cittadine dello Stato di esecuzione, o persone ivi residenti o dimoranti.

Inoltre, imponendo la consegna anche di persone stabilmente radicate in Italia ai fini dell’esecuzione di una pena detentiva all’estero, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost., nonché con il diritto alla vita familiare dell’interessato, tutelato dall’art. 2 Cost. e dall’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché dagli artt. 11 e ancora 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CDFUE.

Sarebbe, infine, irragionevole – e pertanto lesiva dell’art. 3 Cost. – la diversità di trattamento tra il cittadino di uno Stato terzo, stabilmente radicato in Italia e destinatario di un mandato di arresto rilasciato per l’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà – che, ai sensi dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, non può beneficiare del rifiuto della consegna e scontare in Italia la pena irrogata nello Stato emittente – e il cittadino di uno Stato terzo, parimenti radicato in Italia ma destinatario di una mandato d’arresto rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale – che invece potrebbe scontare in Italia la pena irrogata dallo Stato emittente all’esito del processo.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.

2.1.– L’interveniente rammenta anzitutto che, con l’ordinanza n. 60 del 2021, questa Corte ha disposto la restituzione degli atti del giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 10371 del 2020, per una nuova valutazione della non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, alla luce delle modifiche recate alla disciplina censurata dal decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, in attuazione delle delega di cui all’art. 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117).

2.2.– Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bologna sarebbero comunque inammissibili.

Il giudice a quo non avrebbe adeguatamente argomentato in ordine al dedotto stabile radicamento in Italia di O. G., essendosi limitato a riferire che l’interessato aveva fornito prove adeguate in tal senso.

Sarebbe anche insufficiente la motivazione del giudice rimettente circa il contrasto dell’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 con i parametri costituzionali evocati. Detti parametri sarebbero peraltro richiamati in modo impreciso, atteso che il dispositivo dell’ordinanza di rimessione fa riferimento agli artt. 3, 11, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., laddove la motivazione evoca gli artt. 2, 11, e 117, primo comma, Cost.

Le questioni sarebbero infine inammissibili perché il giudice a quo non avrebbe tentato di interpretare la disposizione censurata in modo conforme alla Costituzione.

2.3.– A parere dell’Avvocatura generale dello Stato le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate.

2.3.1.– Come risulta dai lavori preparatori della decisione quadro 2002/584/GAI, quest’ultima avrebbe delineato un meccanismo semplificato di arresto e consegna delle persone ricercate, fondato sulla possibilità di perseguire e condannare il cittadino dell’Unione europea nel luogo dove ha commesso un reato, indipendentemente dalla sua nazionalità, ma consentendo l’esecuzione della pena detentiva nello Stato membro in cui egli abbia maggiori possibilità di reinserimento sociale.

Il possesso dello status di cittadino dell’Unione fonderebbe la possibilità, prevista dal censurato art. 18-bis, lettera r) (recte: comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, di rifiutare la consegna ai fini dell’esecuzione della pena della persona stabilmente residente o dimorante in Italia, sicché tale motivo di rifiuto si applicherebbe ai soli cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione (è citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 5-6 novembre 2019, n. 45190).

L’esclusione dei cittadini di paesi terzi dalla possibilità di invocare il motivo di rifiuto in questione non lederebbe l’art. 3 Cost., atteso che la possibilità di dare rilievo al radicamento sul territorio nazionale del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea si connette strettamente al fascio di diritti e libertà discendenti dalla cittadinanza dell’Unione.

2.3.2.– Le disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI sarebbero inoltre da interpretare in ossequio al principio generale del riconoscimento reciproco delle decisioni, enunciato all’art. 1, paragrafo 2, che impone di considerare il rifiuto di esecuzione del mandato d’arresto europeo come un’eccezione alla generale regola di esecuzione del mandato stesso (è citata Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 13 dicembre 2018, in causa C-514/17, Sut, paragrafo 28). Gli Stati membri non potrebbero dunque estendere le ipotesi di rifiuto dell’esecuzione del mandato d’arresto oltre quelle delineate dalla decisione quadro, di cui l’ordinanza di rimessione non coglierebbe la ratio.

2.3.3.– Quanto alla dedotta violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., non sarebbe condivisibile l’interpretazione offerta dal giudice a quo dell’ambito applicativo dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro. Questa disposizione, pur volta a favorire il reinserimento sociale della persona ricercata, non può limitare la portata del principio del reciproco riconoscimento (sono richiamate Corte di giustizia, sentenze 13 dicembre 2018, in causa C-514/17, Sut, e 6 ottobre 2009, in causa C-123/08, Wolzenburg). Il censurato art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, consentendo di rifiutare la consegna del cittadino italiano o di altro Stato membro dell’Unione, ma non del cittadino di Stato terzo, avrebbe correttamente trasposto l’art. 4, punto 6, della decisione quadro.

Del resto, la formulazione di tale previsione sarebbe il frutto del controllo operato da questa Corte, con la sentenza n. 227 del 2010, circa il corretto ed esaustivo recepimento, sul punto, del diritto dell’Unione europea da parte del legislatore italiano.

La stessa Corte di giustizia avrebbe ribadito – sia pure in relazione all’Accordo relativo alla procedura di consegna tra gli Stati membri dell’Unione europea da un lato, e l’Islanda e la Norvegia dall’altro – che il divieto di discriminazione in base alla nazionalità di cui all’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non si applica alle differenze di trattamento tra cittadini degli Stati membri e di paesi terzi, e che l’art. 21 TFUE, il quale accorda il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, non concerne i cittadini di Paesi terzi (Corte di giustizia, sentenza 2 aprile 2020, in causa C-897/19, Ruska Federacija).

2.3.4.– Quanto alla dedotta lesione del principio rieducativo, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che il reinserimento della persona condannata non costituisce lo scopo specificamente perseguito dalla decisione quadro 2002/584/GAI. Tale finalità sarebbe invece perseguita dalla decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea. Neppure quest’ultima, peraltro, conterrebbe previsioni generalizzate, volte a far eseguire le pene detentive o le misure privative della libertà personale irrogate a cittadini di paesi terzi, nello Stato membro ove essi risiedono o dimorano abitualmente.

Del resto, mentre la capacità rieducativa della pena, che sia attuata in territorio italiano, potrebbe presumersi in relazione al cittadino italiano, essa dovrebbe essere dimostrata per il cittadino straniero, anche in considerazione del carattere non automatico della sua permanenza in Italia dopo l’esecuzione della pena.

2.3.5.– Non integrerebbe un’irragionevole disparità di trattamento la differenza tra la disciplina posta dal censurato art. 18-bis, comma 1, lettera c) della legge n. 69 del 2005 (che permette di rifiutare la consegna finalizzata all’esecuzione di pene o misure di sicurezza con riferimento ai cittadini italiani e di altri Stati membri dell’Unione, ma non ai cittadini di paesi terzi) e quella recata dall’art. 19, comma 1, lettera c), della medesima legge (che invece consente, in relazione sia ai cittadini italiani e di altri Stati membri, sia quelli di paesi terzi residenti o dimoranti in Italia, di subordinare la consegna finalizzata all’esercizio dell’azione penale, alla condizione che la pena o la misura di sicurezza eventualmente irrogate nello Stato di emissione siano scontate in Italia).

Sarebbe infatti diversa la finalità sottesa al mandato d’arresto processuale, e cioè quella di ridurre la celebrazione di procedimenti in absentia.

2.3.6.– Anche a prescindere da tale profilo, la nozione di residenza contemplata agli artt. 4, punto 6, e 5, punto 6 (recte: 5, punto 3), della decisione quadro 2002/584/GAI, e agli artt. 18-bis e 19, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 dovrebbe essere interpretata in conformità alla sentenza n. 227 del 2010 di questa Corte e, dunque, in modo da includere solo il cittadino italiano o il cittadino di altro Stato membro dell’Unione legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano, e non invece il cittadino di Paese terzo, sicché l’ambito applicativo di dette disposizioni verrebbe a coincidere.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005, come introdotto dall’art. 6, comma 5, lettera b), della legge n. 117 del 2019.

La disposizione è censurata «nella parte in cui non prevede il rifiuto facoltativo della consegna del cittadino di uno Stato non membro dell’Unione europea che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la Corte di appello disponga che la pena o la misura di sicurezza irrogata nei suoi confronti dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».

In sintesi, l’omessa previsione di tale motivo di rifiuto si porrebbe in contrasto:

– con gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione in relazione all’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, che sarebbe stato erroneamente trasposto dal legislatore italiano, il quale avrebbe indebitamente limitato la possibilità – prevista in via generale da tale disposizione della decisione quadro – di rifiutare la consegna della persona che dimori o risieda in Italia alle sole ipotesi in cui tale persona sia cittadina italiana o di altro Stato membro, con esclusione dell’ipotesi in cui essa sia cittadina di un paese terzo;

– con l’art. 27, terzo comma, Cost., dal momento che l’impossibilità di scontare la pena in Italia frustrerebbe la funzione rieducativa della pena rispetto a condannati cittadini di paesi terzi che siano stabilmente radicati nel territorio italiano;

– con gli artt. 2 e, ancora, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP, nonché, assieme all’art. 11 Cost., in relazione all’art. 7 CDFUE, poiché l’impossibilità di scontare la pena in Italia lederebbe il diritto alla vita familiare di condannati cittadini di paesi terzi che siano stabilmente radicati nel territorio italiano;

– con l’art. 3 Cost., stante l’irragionevole disparità di trattamento tra il cittadino di uno Stato terzo, stabilmente radicato in Italia e destinatario di un mandato di arresto rilasciato per l’esecuzione di una pena o una misura di sicurezza privative della libertà, il quale non può beneficiare del rifiuto della consegna e scontare in Italia la pena irrogata nello Stato emittente ai sensi del censurato art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, e il cittadino di uno Stato terzo, parimenti radicato in Italia ma destinatario di una mandato d’arresto rilasciato ai fini dell’esercizio dell’azione penale, che invece avrebbe il diritto di scontare in Italia la pena irrogata dallo Stato emittente all’esito del processo ai sensi dell’art. 19, comma 1, lettera c), della medesima legge.

2.– Preliminarmente all’esame di tali censure, occorre anzitutto precisare che l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005, è stato modificato, successivamente all’ordinanza di rimessione, dall’art. 15, comma 1, del decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 10 (Disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra stati membri, in attuazione delle delega di cui all’articolo 6 della legge 4 ottobre 2019, n. 117).

2.1.– Nella versione in vigore al momento dell’ordinanza di rimessione, la disposizione censurata prevedeva la possibilità per la corte d’appello di rifiutare la consegna «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, sempre che la corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».

2.2.– Nella versione modificata dal menzionato d.lgs. n. 10 del 2021 e attualmente in vigore, il nuovo comma 2 dell’art. 18-bis prevede: «[q]uando il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, la corte di appello può rifiutare la consegna della persona ricercata che sia cittadino italiano o cittadino di altro Stato membro dell’Unione europea legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni, sempre che disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno».

2.3.– Dal confronto tra le due versioni dell’art. 18-bis emerge che la corte d’appello, ove disponga l’esecuzione della pena o della misura di sicurezza in Italia:

– poteva sotto il regime previgente, e tuttora può, rifiutare la consegna di un cittadino italiano;

– poteva, sotto il regime previgente, rifiutare la consegna di un cittadino di altro Stato membro alla semplice condizione che questi avesse «legittimamente ed effettivamente» residenza o dimora nel territorio italiano, mentre oggi può rifiutarne la consegna soltanto ove questi sia «legittimamente ed effettivamente residente o dimorante nel territorio italiano da almeno cinque anni»;

– non poteva sotto il regime previgente, e neppure oggi può, rifiutare la consegna di un cittadino di un paese terzo, residente o dimorante in Italia.

3.– Occorre, altresì, preliminarmente precisare che l’art. 17 del d.lgs. n. 10 del 2021 ha modificato anche l’art. 19 della legge n. 69 del 2005, che il giudice rimettente invoca quale tertium comparationis rispetto alla sua censura di violazione dell’art. 3 Cost.

3.1.– Nella versione in vigore al momento dell’ordinanza di rimessione, l’art. 19 della legge n. 69 del 2005 prevedeva: «L’esecuzione del mandato d’arresto europeo da parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei casi sotto elencati, è subordinata alle seguenti condizioni: […] c) se la persona oggetto del mandato d’arresto europeo ai fini di un’azione penale è cittadino o residente dello Stato italiano, la consegna è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata ascoltata, sia rinviata nello Stato membro di esecuzione per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente pronunciate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione».

3.2.– Nella versione modificata dal menzionato d.lgs. n. 10 del 2021 e attualmente in vigore, l’art. 19 della legge n. 69 del 2005 prevede: «L’esecuzione del mandato d’arresto europeo da parte dell’autorità giudiziaria italiana, nei casi sotto elencati, è subordinata alle seguenti condizioni: […] b) se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini di un’azione penale nei confronti di cittadino italiano o di cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni, l’esecuzione del mandato è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata sottoposta al processo, sia rinviata nello Stato italiano per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà personale eventualmente applicate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione».

3.3.– Dal confronto tra le due versioni dell’art. 19 della legge n. 69 del 2005, per la parte che qui rileva, emerge che la corte d’appello italiana:

– doveva, sotto il regime previgente, subordinare sempre la consegna sia del cittadino italiano, sia della generalità delle persone residenti in Italia (senza distinguere tra cittadini di altri Stati membri e cittadini di paesi terzi, e senza alcun requisito relativo alla durata della residenza), alla condizione che la persona fosse rimandata in Italia, in caso di condanna, per l’esecuzione della pena;

– deve, oggi, subordinare la consegna a tale condizione soltanto nei confronti del cittadino italiano e del cittadino di altro Stato membro «legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni».

4.– La Corte d’appello rimettente deve fare applicazione della normativa precedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 10 del 2021. Infatti, l’art. 28, comma 1, di tale decreto legislativo dispone che le modifiche da esso apportate alla legge n. 69 del 2005 non si applicano ai procedimenti di esecuzione di mandati di arresto già in corso, come quello pendente innanzi al giudice rimettente, che continuano ad essere regolate dalle disposizioni anteriormente vigenti.

Sulla base di tali disposizioni, le questioni ora sottoposte a questa Corte sono certamente rilevanti nel giudizio principale: in mancanza di una dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lettera c), della legge n. 69 del 2005 nei termini auspicati dal giudice rimettente, quest’ultimo sarebbe senz’altro tenuto a disporre la consegna dell’interessato, dal momento che la legge indicata, nella versione applicabile nel giudizio principale, non prevedeva alcuno specifico motivo di rifiuto della consegna ai fini dell’esecuzione della pena di cittadini di paesi terzi che, come l’interessato nel giudizio principale, siano residenti o dimoranti nel territorio italiano.

5.– Nell’ordinanza n. 60 del 2021 questa Corte ha esaminato analoghe questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di cassazione prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 10 del 2021 nell’ambito di un procedimento principale al quale quelle modifiche parimenti non erano applicabili.

Questa Corte ha, in tale occasione, restituito gli atti al giudice rimettente, affinché potesse rivalutare le questioni prospettate alla luce delle modifiche legislative nel frattempo intervenute. Infatti, pur non essendo applicabili nel giudizio principale, esse hanno mutato significativamente il quadro sistematico nel quale le censure formulate dalla Corte di cassazione si collocavano, da un lato restringendo la facoltà di rifiutare la consegna del cittadino di altro Stato membro nell’ambito del mandato d’arresto finalizzato all’esecuzione della pena (ora possibile solo laddove tale cittadino europeo risieda legittimamente ed effettivamente da almeno cinque anni nel territorio italiano), e dall’altro imponendo l’esecuzione senza condizioni del mandato d’arresto finalizzato all’esercizio di un’azione penale nei confronti del cittadino di paese terzo – modifica, quest’ultima, che fa venir meno la disparità di trattamento tra le due forme di mandato di arresto che la Corte di cassazione aveva denunciato, nella propria ordinanza di rimessione, come contraria all’art. 3 Cost.

La restituzione degli atti al giudice rimettente è stata disposta anche in considerazione della circostanza, di cui dava atto la stessa ordinanza di rimessione, che l’interessato nel giudizio principale, cittadino di Stato terzo, risultava essere presente sul territorio italiano dal novembre 2016, e dunque da meno di cinque anni rispetto alla data della stessa ordinanza di rimessione: circostanza che ad avviso di questa Corte meritava di essere attentamente valutata dalla Corte di cassazione, anche ai fini del vaglio di rilevanza delle questioni nel giudizio principale, rispetto a una loro possibile riformulazione che tenesse conto delle modifiche normative nel frattempo intervenute, onde evitare di prospettare un trattamento più favorevole per i cittadini di paesi terzi rispetto a quello oggi riservato ai cittadini di altro Stato membro.

La Corte di cassazione ha nel frattempo deciso, nel giudizio principale in parola, di non riformulare le questioni di legittimità costituzionale, prendendo atto delle modifiche normative operate dal d.lgs. n. 10 del 2021 (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 1° ottobre 2021, n. 35953).

Il procedimento principale da cui è originato l’odierno giudizio di costituzionalità concerne, invece, un cittadino di paese terzo che – secondo quanto risulta dall’ordinanza di rimessione – ha, tramite la propria difesa, «adeguatamente fornito la prova di uno stabile radicamento familiare e lavorativo sul territorio nazionale»; radicamento che, sulla base di ciò che risulta dal fascicolo del procedimento principale, risalirebbe ad epoca ben precedente l’ultimo quinquennio, e sarebbe attestato dalla stabile convivenza con una donna residente in Italia, con la quale l’interessato risulta avere generato un figlio, oggi dodicenne.

Non compete a questa Corte la valutazione se tale radicamento possa essere ritenuto stabile ed effettivo, né se la permanenza dell’interessato sul territorio nazionale possa essere ritenuta legittima, tali valutazioni spettando soltanto al giudice del procedimento principale. Le circostanze di fatto esposte dal giudice rimettente consentono, tuttavia, di ipotizzare plausibilmente che, laddove questa Corte dovesse ritenere anche solo in parte fondate le questioni prospettate, la corte d’appello potrebbe decidere, nel giudizio principale, di negare la consegna dell’interessato all’autorità giudiziaria dell’esecuzione e di disporre l’esecuzione in Italia della pena inflittagli in Romania.

La considerazione che precede, unitamente alla necessità di pervenire al più presto a una complessiva chiarificazione, nell’ordinamento italiano e nell’intero spazio giuridico dell’Unione, circa i possibili legittimi motivi di rifiuto dell’esecuzione di mandati di arresto europei ai fini dell’esecuzione della pena relativi a cittadini di paesi terzi, rendono in questo caso non necessaria la restituzione degli atti al giudice rimettente.

6.– Riservata alla pronuncia definitiva la decisione tanto sulle eccezioni preliminari sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, quanto sulla censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost., questa Corte osserva che alla base delle restanti censure del rimettente è l’allegata violazione del diritto alla vita privata e familiare, che si produrrebbe in conseguenza dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena nei confronti del cittadino di un paese terzo che sia stabilmente radicato sul territorio italiano. Sotto questo profilo, le censure – che formalmente investono l’art. 18-bis nella versione, applicabile nel giudizio principale, antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 10 del 2021 – potrebbero essere svolte in maniera identica rispetto all’attuale formulazione dell’art. 18-bis, che parimenti non prevede la possibilità di rifiutare la consegna del cittadino di Stato terzo stabilmente radicato sul territorio italiano.

6.1.– Tale omessa previsione si porrebbe in contrasto, secondo il giudice rimettente, con le norme costituzionali e sovranazionali (queste ultime rilevanti, nell’ordinamento costituzionale italiano, ai sensi degli artt. 117, primo comma, Cost. nonché, per ciò che concerne il diritto dell’Unione europea, 11 Cost.) che sanciscono il diritto alla vita privata e familiare: l’art. 2 Cost., che riconosce i diritti inviolabili della persona, tra cui si annovera il diritto in esame (sentenza n. 202 del 2013), e gli artt. 7 CDFUE, 8 CEDU e 17, paragrafo 1, PIDCP.

6.2.– Secondo il giudice rimettente, inoltre, la disciplina italiana si porrebbe in contrasto con lo stesso art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, del quale l’art. 18-bis della legge n. 69 del 2005 costituisce specifica attuazione, e sarebbe pertanto anche per questa ragione incompatibile con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

L’ordinanza di rimessione insiste, invero, su un argomento in sé non persuasivo, e cioè sull’assunto che, ove allorché lo Stato membro decida di prevedere nel proprio ordinamento il motivo facoltativo di rifiuto della consegna previsto dall’art. 4, punto 6, della decisione quadro, sarebbe tenuto a riprodurre integralmente la relativa previsione, senza poterne modificare i confini applicativi: e conseguentemente a estendere l’ipotesi del rifiuto a tutti coloro che risiedano o dimorino nel territorio nazionale, senza alcuna limitazione relativa allo Stato di cittadinanza dell’interessato o alla durata del soggiorno nello Stato dell’esecuzione. Un simile assunto è smentito dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha già riconosciuto legittime talune limitazioni al corrispondente motivo di rifiuto apportate dalla legislazione degli Stati membri, come – con riferimento al cittadino di altro Stato membro – la condizione del soggiorno legale e continuativo per almeno cinque anni sul territorio dello Stato dell’esecuzione (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 6 ottobre 2009, in causa C-123/08, Wolzenburg, paragrafi 54-74).

Tuttavia, non è dubbio che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro debba, esso stesso, essere interpretato in conformità ai principi e ai diritti fondamentali al cui rispetto è condizionata la validità di qualsiasi atto del diritto dell’Unione, come ribadito del resto dalla stessa decisione quadro nel considerando n. 12 e nell’art. 1, paragrafo 3. Pertanto, laddove la legge di esecuzione nazionale del mandato di arresto europeo abbia disciplinato il motivo facoltativo di consegna di cui all’art. 4, punto 6, della decisione quadro in maniera non conforme a tali principi e diritti fondamentali – come, appunto, il diritto al rispetto della vita privata e familiare dell’interessato –, una tale disciplina risulterà necessariamente in contrasto anche con lo stesso art. 4, punto 6 della decisione quadro, letto alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima.

6.3.– Infine, la preoccupazione di tutelare i legami personali e familiari dello straniero già stabiliti sul territorio italiano sta alla base dell’ulteriore censura, concernente l’allegata violazione del principio della necessaria funzione rieducativa della pena, sancito nell’ordinamento italiano dall’art. 27, terzo comma, Cost. Tale allegazione si fonda, infatti, sulla considerazione che l’esecuzione della pena all’estero non potrebbe realizzare appieno una funzione rieducativa nei confronti di un condannato che abbia stabilito solidi legami sociali e familiari nel territorio italiano.

7.– Ciò che il giudice rimettente chiede, in sintesi, è se le esigenze di tutela del diritto fondamentale di un cittadino di un paese terzo a conservare i propri legami personali e familiari stabiliti sul territorio italiano impongano di riconoscere in capo all’autorità giudiziaria italiana la facoltà, non prevista dalla disposizione censurata, di rifiutare l’esecuzione di un mandato di arresto finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza, impegnandosi correlativamente ad eseguire tale pena o misura di sicurezza sul territorio italiano ai sensi dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro.

Ritiene questa Corte che tale interrogativo esiga una risposta, in primo luogo, sul piano del diritto dell’Unione. La Corte di giustizia ha già chiarito, in via generale, che le disposizioni della decisione quadro sul mandato d’arresto che non contengano alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri «devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione, di un’interpretazione autonoma e uniforme» (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 17 luglio 2008, in causa C-66/08, Kozlowski, paragrafo 42). Poiché le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente hanno a oggetto in primo luogo l’interpretazione dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, su un profilo che – come meglio si dirà più innanzi – non è ancora stato oggetto di chiarimenti da parte della Corte di giustizia, è necessario interrogare la Corte medesima circa l’uniforme interpretazione di tale disposizione nello spazio giuridico dell’Unione.

Dal momento, poi, che le questioni sollevate dal giudice rimettente concernono il rapporto tra il rifiuto della consegna ai sensi dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro e la tutela dei diritti fondamentali dell’interessato, l’intervento della Corte di giustizia appare necessario anche per una seconda ragione. Poiché la materia del mandato d’arresto europeo è interamente armonizzata dalla stessa decisione quadro, il livello di tutela dei diritti fondamentali suscettibili di porre limiti al dovere di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie di altri Stati membri, su cui si basa l’intero meccanismo disegnato dalla decisione quadro, non può che essere quello risultante dalla Carta dei diritti fondamentali e dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE). In settori oggetto di integrale armonizzazione, è invece precluso agli Stati membri condizionarne l’attuazione al rispetto di standard puramente nazionali di tutela dei diritti fondamentali, laddove ciò possa compromettere il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenze 26 febbraio 2013, in causa C-617/10, Fransson, paragrafo 29, e in causa C-399/11, Melloni, paragrafo 60).

È dunque necessario chiedere preliminarmente alla Corte di giustizia, nella sua funzione di interprete eminente del diritto dell’Unione (art. 19, paragrafo 1, TUE), se l’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3 della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE, osti a una disciplina, come quella italiana, che escluda in maniera assoluta e automatica dall’ambito di applicazione del motivo di rifiuto della consegna disciplinato da tale disposizione i cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, non consentendo all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna neppure quando tali persone abbiano stabili e radicati legami sociali e familiari con lo Stato dell’esecuzione; e in caso affermativo, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre il rifiuto della consegna.

8.– In un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia (sentenza n. 269 del 2017; ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019, nonché, nella stessa materia del mandato di arresto europeo, l’ordinanza n. 216 del 2021), questa Corte osserva quanto segue.

8.1.– L’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI stabilisce un motivo di rifiuto espressamente definito quale «facoltativo», la cui trasposizione totale o anche solo parziale nel diritto nazionale è rimessa, in linea di principio, alla discrezionalità degli Stati membri. La Corte di giustizia ha sottolineato, in proposito, che «un legislatore nazionale il quale, in base alle possibilità accordategli dall’art. 4 di detta decisione quadro, opera la scelta di limitare le situazioni nelle quali la sua autorità giudiziaria di esecuzione può rifiutare di consegnare una persona ricercata non fa che rafforzare il sistema di consegna istituito da detta decisione quadro a favore di uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. Infatti, limitando le situazioni nelle quali l’autorità giudiziaria di esecuzione può rifiutare di eseguire un mandato di arresto europeo, tale legislazione non fa che agevolare la consegna delle persone ricercate, conformemente al principio del reciproco riconoscimento sancito dall’art. 1, n. 2, della decisione quadro 2002/584, il quale costituisce il principio fondamentale istituito da quest’ultima» (sentenza Wolzenburg, paragrafi 58 e 59). Da ciò deriva, come già rammentato, che secondo la Corte di giustizia non può escludersi «che gli Stati membri, nell’attuazione di detta decisione quadro, limitino, nel senso indicato dal principio fondamentale enunciato al suo art. 1, n. 2, le situazioni in cui dovrebbe essere possibile rifiutare di consegnare una persona rientrante nella sfera di applicazione [dell’]art. 4, punto 6» (sentenza Wolzenburg, paragrafo 62).

Tuttavia, è indubbio che, come parimenti già osservato, l’esecuzione di un mandato di arresto europeo non può mai comportare la violazione dei diritti fondamentali dell’interessato (art. 1, paragrafo 3, e considerando n. 12 della decisione quadro), né dei principi fondamentali del diritto dell’Unione riconosciuti dall’art. 6 TUE.

Occorre pertanto stabilire se, ed eventualmente a quali condizioni, il cittadino di un paese terzo che sia residente o dimorante nello Stato dell’esecuzione sia titolare di un diritto fondamentale a non essere allontanato dal territorio di quest’ultimo Stato ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza nello Stato di emissione.

8.2.– La questione ora delineata presenta, ad avviso di questa Corte, elementi di novità rispetto alla giurisprudenza della Corte di giustizia sinora formatasi in materia di mandato di arresto europeo.

8.2.1.– La già citata sentenza Kozlowski ha fornito una nozione «autonoma e uniforme» (paragrafo 42), valida per l’intero spazio giuridico dell’Unione, delle nozioni di persona che «risiede» e «dimora» nel territorio dello Stato dell’esecuzione, chiarendo che la prima nozione fa riferimento alla situazione in cui la persona abbia ivi stabilito la propria residenza effettiva, e che la seconda allude invece alla situazione «in cui tale persona abbia acquisito, a seguito di un soggiorno stabile di una certa durata in questo medesimo Stato, legami con quest’ultimo di intensità simile a quella dei legami che si instaurano in caso di residenza» (paragrafo 46). Inoltre, per quanto il caso oggetto del giudizio principale concernesse un cittadino di altro Stato membro rispetto a quello dell’esecuzione, le definizioni enunciate nella sentenza Kozlowski appaiono di per sé suscettibili di essere applicate anche ai cittadini di paesi terzi.

Tuttavia, la prospettiva della sentenza Kozlowski era opposta rispetto a quella che viene in considerazione nel procedimento odierno. In quel caso il giudice del rinvio chiedeva in sostanza se l’autorità giudiziaria dell’esecuzione fosse legittimata, ai sensi dell’art. 4, punto 6, della decisione quadro, a rifiutare l’esecuzione di un mandato d’arresto emesso nei confronti di un cittadino straniero che non avesse ancora istituito legami significativi sul territorio dello Stato dell’esecuzione, o comunque vi si risiedesse illegalmente, fosse dedito in quel territorio alla commissione di reati, o fosse ivi detenuto in seguito a condanna penale; e la Corte di giustizia aveva in quell’occasione risposto escludendo che il termine «dimori» potesse essere interpretato in modo così ampio da autorizzare l’autorità giudiziaria dell’esecuzione a rifiutare la consegna, in deroga al principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, «per il semplice fatto che la persona ricercata si trovi temporaneamente nel territorio dello Stato membro di esecuzione» (paragrafo 36).

La questione ora in discussione concerne, invece, una disciplina nazionale di trasposizione dell’art. 4, punto 6 della decisione quadro che esclude in maniera assoluta e automatica dal motivo di rifiuto previsto in tale disposizione i cittadini di paesi terzi che dimorano o risiedono nel suo territorio, non consentendo così all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutarne la consegna nemmeno nel caso in cui essi abbiano già instaurato legami significativi e stabili sul territorio dello Stato dell’esecuzione.

8.2.2.– Tale questione non è stata affrontata nemmeno nella successiva, già citata, sentenza Wolzenburg, focalizzata sulla sola posizione del cittadino di altro Stato membro, al quale si applica il principio di non discriminazione in base alla nazionalità, all’epoca basato sull’art. 12, primo comma, del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE), trasfuso oggi nell’art. 18 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

8.2.3.– La successiva sentenza Lopes da Silva Jorge, infine, è anch’essa incentrata sulla posizione del cittadino di altro Stato membro residente o dimorante nel territorio dello Stato di esecuzione, rispetto al quale la Corte di giustizia – valorizzando anche qui il principio di non discriminazione in base alla nazionalità – ha affermato che l’art. 4, punto 6, della decisione quadro non consente allo Stato dell’esecuzione di escluderlo in modo assoluto e automatico dall’ambito di applicazione della disposizione nazionale che traspone il relativo motivo di rifiuto, indipendentemente dalla valutazione dei suoi legami con il territorio di tale Stato (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 5 settembre 2012, in causa C-42/11, Lopes da Silva Jorge).

8.2.4.– Sulla base in particolare di quanto affermato nelle sentenze Kozlowski e Wolzenburg, e alla luce del principio di non discriminazione secondo la nazionalità di cui all’art. 18 TFUE, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima, con la sentenza n. 227 del 2010, la disciplina italiana di trasposizione della decisione quadro sul mandato di arresto, nella versione allora vigente, nella parte in cui non prevedeva il rifiuto di consegna – oltre che del cittadino italiano – anche del cittadino di un altro Stato membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente avesse residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia.

L’effetto di tale pronuncia è stato, dunque, quello di equiparare il trattamento giuridico del cittadino italiano e quello del cittadino di altro Stato membro legittimamente ed effettivamente dimorante nel territorio italiano; mentre resta ancora non risolta, anche nella giurisprudenza di questa Corte, la questione se, ed eventualmente in che misura, il rifiuto della consegna debba estendersi anche al cittadino di paese terzo che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, stante la non invocabilità da parte di costui del principio di non discriminazione in base alla nazionalità (Corte di giustizia, grande sezione, sentenza 2 aprile 2020, in causa C-897/19 PPU, Ruska Federacija, paragrafo 40).

8.3.– Va peraltro osservato che, sin dalla sentenza Kozlowski, la Corte di giustizia ha costantemente sottolineato che «il motivo di non esecuzione facoltativa stabilito all’art. 4, punto 6, della decisione quadro mira segnatamente a permettere all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di accordare una particolare importanza alla possibilità di accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata una volta scontata la pena cui essa è stata condannata» (sentenza Kozlowski, paragrafo 45; sentenza Wolzenburg, paragrafo 62, e sentenza Lopes Da Silva Jorge, paragrafo 32).

Al perseguimento di tale scopo è funzionale la successiva decisione quadro 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea, il cui considerando n. 9 recita: «L’esecuzione della pena nello Stato di esecuzione dovrebbe aumentare le possibilità di reinserimento sociale della persona condannata. Nell’accertarsi che l’esecuzione della pena da parte dello Stato di esecuzione abbia lo scopo di favorire il reinserimento sociale della persona condannata, l’autorità competente dello Stato di emissione dovrebbe tenere conto di elementi quali, per esempio, l’attaccamento della persona allo Stato di esecuzione e il fatto che questa consideri tale Stato il luogo in cui mantiene legami familiari, linguistici, culturali, sociali o economici e di altro tipo».

La decisione quadro 2008/909/GAI appena menzionata si applica non solo ai cittadini degli Stati membri dell’Unione, ma anche ai cittadini di paesi terzi. Anche a questi ultimi appare riferirsi, in particolare, il considerando n. 7, che individua lo Stato in cui l’esecuzione della pena appare più funzionale alle finalità di reinserimento sociale del condannato in quello nel quale il condannato «vive e soggiorna legalmente e ininterrottamente da almeno cinque anni e in cui manterrà un diritto di soggiorno permanente».

Il collegamento tra ratio della decisione quadro 2008/909 e motivi di rifiuto previsti dalla decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto che si fondano sul radicamento dell’interessato nel territorio dello Stato richiesto è stato recentemente sottolineato dalla stessa Corte di giustizia, secondo la quale «l’articolazione prevista dal legislatore dell’Unione tra la decisione quadro 2002/584 e la decisione quadro 2008/909 deve contribuire a conseguire l’obiettivo consistente nel favorire il reinserimento sociale della persona interessata. Del resto, un siffatto reinserimento è nell’interesse non solo della persona condannata, ma anche dell’Unione europea in generale (v., in tal senso, sentenze del 23 novembre 2010, Tsakouridis, C145/09, EU:C:2010:708, punto 50, nonché del 17 aprile 2018, B e Vomero, C316/16 e C424/16, EU:C:2018:256, punto 75)» (Corte di giustizia, sentenza 11 marzo 2020, in causa C-314/18, SF, paragrafo 51).

Il rifiuto della consegna previsto dall’art. 4, punto 6, della decisione quadro 2002/584/GAI, così come la condizione apposta alla consegna ai sensi del successivo art. 5, punto 3, non sono d’altra parte in contrasto con il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie né con la ratio, sottesa all’intero sistema del mandato d’arresto europeo, di «lottare contro l’impunità di una persona ricercata che si trovi in un territorio diverso da quello nel quale si suppone abbia commesso un reato» (Corte di giustizia, sentenza 17 dicembre 2020, in cause riunite C-354/20 PPU e C-412/20 PPU, L e P, paragrafo 62, e ulteriori precedenti ivi citati). Infatti, in entrambi i casi lo Stato dell’esecuzione si impegna a riconoscere ed eseguire esso stesso la pena inflitta dallo Stato di emissione, assicurandone così l’effettività e, assieme, la maggiore funzionalità rispetto alla sua finalità di risocializzazione del condannato, nell’interesse tanto di quest’ultimo, quanto dell’intera Unione.

8.4.– L’interesse del cittadino di un paese terzo legittimamente dimorante o residente in uno Stato membro a non essere sradicato dallo Stato medesimo riceve inoltre tutela, da parte del diritto dell’Unione, ben al di là della materia dell’esecuzione delle pene o delle misure di sicurezza; e l’intensità di tale tutela è, in linea di principio, direttamente proporzionale al grado di radicamento della persona nel territorio dello Stato di dimora o di residenza.

In particolare, la tutela è massima rispetto ai cittadini di paesi terzi che siano titolari di permesso ai sensi della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Infatti, essi possono essere allontanati soltanto in esito a una valutazione individualizzata, nella quale le autorità dello Stato membro sono tenute a bilanciare la pericolosità dell’interessato per l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza con una pluralità di ulteriori circostanze espressive, tra l’altro, del grado del suo radicamento nel territorio dello Stato (art. 12, paragrafo 4, della direttiva).

Garanzie analoghe sono previste rispetto alle decisioni di allontanamento nei confronti di cittadini di paesi terzi titolari di permessi di soggiorno ai sensi della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (art. 17 della direttiva, ove si prevede che nell’adozione di una misura di allontanamento gli Stati membri siano tenuti a prendere «nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro»).

8.5.– Indicazioni non dissimili provengono dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’art. 8 CEDU, la quale segna il livello minimo di tutela che deve essere assicurato al corrispondente diritto di cui all’art. 7 della Carta, ai sensi dell’art. 52, paragrafo 3, CDFUE.

Anzitutto, la Corte EDU – nel quadro di una giurisprudenza che valorizza sempre più il reinserimento sociale del condannato tra le funzioni della pena (Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, sentenza 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, paragrafo 102; grande camera, sentenza 30 giugno 2015, Khoroshenko contro Russia, paragrafo 121; grande camera, 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito, paragrafo 115) – ha ritenuto che l’esecuzione di una pena detentiva a grande distanza dalla residenza familiare del condannato può comportare la violazione dell’art. 8 CEDU, in ragione della conseguente difficoltà, per il detenuto e per i suoi familiari, di mantenere regolari e frequenti contatti, a loro volta importanti rispetto alle finalità risocializzanti della pena (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 7 marzo 2017, Polyakova e altri contro Russia, paragrafo 88). In quest’ultima pronuncia la Corte EDU ha evidenziato – tra l’altro – come tali principi trovino conferma nella Raccomandazione del Comitato dei ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee (European Prison Rules), adottata l’11 gennaio 2006, il cui art. 17, paragrafo 1, in particolare, prevede che i detenuti debbano essere assegnati, per quanto possibile, a carceri vicine al loro domicilio o a luoghi di riabilitazione sociale.

In secondo luogo, la costante giurisprudenza della Corte EDU sottolinea la necessità che, nelle decisioni che comunque implicano l’allontanamento di uno straniero dal territorio di uno Stato, debba sempre essere compiuto un conveniente bilanciamento tra le ragioni poste a base di tale allontanamento – tra cui, segnatamente, la commissione di reati da parte dello straniero – e le confliggenti ragioni di tutela del diritto dell’interessato, fondato appunto sull’art. 8 CEDU, a non essere sradicato dal luogo in cui intrattenga la parte più significativa dei propri rapporti sociali, lavorativi, familiari, affettivi, in particolare allorché lo straniero sia coniugato o abbia figli nel territorio dello Stato dal quale dovrebbe essere allontanato, e a fortiori nell’ipotesi in cui sia nato o cresciuto nello Stato medesimo pur non avendone acquisito la cittadinanza (si vedano ad esempio, in materia di espulsione dello straniero, terza sezione, 24 novembre 2020, Unuane contro Regno Unito, paragrafo 72; prima sezione, sentenza 19 maggio 2016, Kolonja contro Grecia, paragrafo 48; grande camera, sentenza 23 giugno 2008, Maslov contro Austria, paragrafi 68-76; grande camera, sentenza 18 ottobre 2006, Üner contro Paesi Bassi, paragrafo 57; seconda sezione, 2 agosto 2001, Boultif contro Svizzera, paragrafo 48).

9.– Tutto ciò premesso, questa Corte ritiene di sospendere il giudizio in corso e di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), i seguenti quesiti:

a) se l’art. 4, punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 CDFUE, osti a una normativa, come quella italiana, che – nel quadro di una procedura di mandato di arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza – precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo;

b) in caso di risposta affermativa alla prima questione, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna.

Considerato, infine, che la causa in esame – pur essendo originata da un procedimento concernente una persona attualmente non sottoposta a misura detentiva – solleva questioni interpretative relative ad aspetti centrali del funzionamento del mandato d’arresto europeo, e che l’interpretazione richiesta è idonea a produrre conseguenze generali, tanto per le autorità chiamate a cooperare nell’ambito del mandato d’arresto europeo, quanto per i diritti delle persone ricercate, si richiede che il presente rinvio pregiudiziale sia deciso con procedimento accelerato, ai sensi dell’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), le seguenti questioni pregiudiziali:

a) se l’art. 4, punto 6, della direttiva 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri, interpretato alla luce dell’art. 1, paragrafo 3, della medesima decisione quadro e dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), osti a una normativa, come quella italiana, che – nel quadro di una procedura di mandato di arresto europeo finalizzato all’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza – precluda in maniera assoluta e automatica alle autorità giudiziarie di esecuzione di rifiutare la consegna di cittadini di paesi terzi che dimorino o risiedano sul suo territorio, indipendentemente dai legami che essi presentano con quest’ultimo;

b) in caso di risposta affermativa alla prima questione, sulla base di quali criteri e presupposti tali legami debbano essere considerati tanto significativi da imporre all’autorità giudiziaria dell’esecuzione di rifiutare la consegna;

2) chiede che la questione pregiudiziale sia decisa con procedimento accelerato;

3) sospende il presente giudizio sino alla definizione della suddetta questione pregiudiziale;

4) ordina la trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 novembre 2021.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE

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