SENTENZA N. 33
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), promosso dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nel procedimento vertente tra il Ministero dell’interno e altro e P. F. e F. B., in proprio e quali genitori di P. B.F., con ordinanza del 29 aprile 2020, iscritta al n. 99 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visti gli atti di costituzione di P. F. e F. B., in proprio e quali genitori di P. B.F., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi gli avvocati Antonio Saitta, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020, e Alexander Schuster per P. F. e F. B., in proprio e quali genitori di P. B.F., nonché l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 28 gennaio 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 29 aprile 2020, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».
1.1.– Secondo quanto espone il giudice a quo, il caso che ha dato origine al giudizio riguarda un bambino nato nel 2015 in Canada da una donna nella quale era stato impiantato un embrione formato con i gameti di una donatrice anonima e di un uomo di cittadinanza italiana (P. F.), unito in matrimonio in Canada – con atto poi trascritto in Italia nel registro delle unioni civili – con altro uomo, pure di cittadinanza italiana (F. B.), con il quale aveva condiviso il progetto genitoriale.
Al momento della nascita del bambino, le autorità canadesi avevano formato un atto di nascita che indicava come genitore il solo P. F., mentre non erano stati menzionati né F. B., né la madre surrogata che aveva partorito il bambino, né la donatrice dell’ovocita. Accogliendo il ricorso dei due uomini, nel 2017 la Corte Suprema della British Columbia aveva dichiarato che entrambi i ricorrenti dovevano essere considerati genitori del bambino, e aveva disposto la corrispondente rettifica dell’atto di nascita in Canada.
I due uomini avevano quindi chiesto all’ufficiale di stato civile italiano di rettificare anche l’atto di nascita del bambino in Italia, sulla base del provvedimento della Corte Suprema della British Columbia. In seguito al rifiuto opposto a tale richiesta, essi avevano chiesto alla Corte d’appello di Venezia il riconoscimento del provvedimento canadese in Italia ai sensi dell’art. 67 della legge n. 218 del 1995.
Nel 2018 la Corte d’appello di Venezia aveva accolto il ricorso, riconoscendo l’efficacia in Italia del provvedimento.
L’Avvocatura dello Stato aveva tuttavia interposto ricorso per cassazione nell’interesse del Ministero dell’interno e del Sindaco del Comune ove era stato trascritto l’originario atto di nascita del minore.
1.2.– Investita di tale ricorso, la prima sezione civile della Corte di cassazione prende atto che nel frattempo è stata depositata la sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, la quale ha affermato il principio secondo cui non può essere riconosciuto nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che riconosca il rapporto di genitorialità tra un bambino nato in seguito a maternità surrogata e il genitore “d’intenzione”. Secondo le Sezioni unite, tale riconoscimento troverebbe infatti ostacolo insuperabile nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l’istituto dell’adozione.
Tuttavia, la Sezione rimettente dubita della compatibilità di tale principio di diritto, costituente diritto vivente, con una pluralità di parametri costituzionali.
1.3.– Anzitutto, il divieto di riconoscimento in esame violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai diritti del minore al rispetto della propria vita privata e familiare (art. 8 CEDU), a non subire discriminazioni, a vedere preso in considerazione preminente il proprio interesse, a essere immediatamente registrato alla nascita e ad avere un nome, a conoscere i propri genitori, a essere da loro allevato e a non esserne separato (rispettivamente, artt. 2, 3, 7, 8 e 9 della Convenzione sui diritti del fanciullo), al principio della responsabilità comune dei genitori per l’educazione e la cura del figlio (art. 18 della medesima Convenzione), nonché ai diritti riconosciuti dall’art. 24 CDFUE.
La sussistenza di tali violazioni si desumerebbe in particolare, secondo la Corte rimettente, dal parere consultivo della grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, reso su richiesta della Corte di cassazione francese il 10 aprile 2019, con il quale si è affermato, da un lato, che il diritto al rispetto della vita privata del bambino, ai sensi dell’art. 8 CEDU, richiede che il diritto nazionale offra una possibilità di riconoscimento del legame di filiazione con il genitore d’intenzione; e, dall’altro, che tale riconoscimento non comporta necessariamente l’obbligo di trascrivere l’atto di nascita straniero nei registri dello stato civile, ben potendo il diritto al rispetto della vita privata del minore essere tutelato anche per altra via, e in particolare mediante l’adozione da parte del genitore d’intenzione, a condizione però che le modalità di adozione previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità di tale procedura, conformemente all’interesse superiore del bambino.
Secondo la Sezione rimettente, l’attuale diritto vivente in Italia non sarebbe adeguato rispetto agli standard di tutela dei diritti del minore stabiliti in sede convenzionale, dal momento che la possibilità del ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari da parte del genitore “d’intenzione”, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983 n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), riconosciuta dalle Sezioni unite civili nella richiamata sentenza n. 12193 del 2019, non creerebbe «un vero rapporto di filiazione». Tale forma di adozione porrebbe infatti «il genitore non biologico in una situazione di inferiorità rispetto al genitore biologico»; non creerebbe legami parentali con i congiunti dell’adottante ed escluderebbe il diritto a succedere nei loro confronti; e non garantirebbe, comunque, quella tempestività del riconoscimento del rapporto di filiazione che è richiesta dalla Corte EDU nell’interesse del minore. D’altra parte, l’adozione in casi particolari resterebbe rimessa alla volontà del genitore “d’intenzione”, lasciando così aperta la possibilità per quest’ultimo «di sottrarsi all’assunzione di responsabilità già manifestata e legittimata nel paese in cui il minore è nato»; e sarebbe, altresì, condizionata all’assenso all’adozione da parte del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo in caso di crisi della coppia.
1.4.– Il diritto vivente cristallizzato dalla pronuncia delle Sezioni unite risulterebbe, altresì, contrastante con gli artt. 2, 3, 30 e 31 Cost., dai quali si evincerebbero – in materia di filiazione – i principi di uguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza e proporzionalità.
Sarebbe infatti violato il diritto del minore all’inserimento e alla stabile permanenza nel proprio nucleo familiare, inteso come formazione sociale tutelata dalla Carta costituzionale, nonché il diritto alla stessa identità del minore, senza che tale violazione possa ritenersi giustificata nell’ottica di tutela della madre “surrogata”, che non trarrebbe comunque alcun vantaggio dal mancato riconoscimento del rapporto di filiazione tra il bambino e il genitore d’intenzione.
In secondo luogo, il figlio nato da maternità surrogata sarebbe discriminato rispetto a ogni altro bambino, in conseguenza di circostanze delle quali egli non porta alcuna responsabilità.
Sarebbe, altresì, irragionevole consentire di riconoscere il rapporto di genitorialità in capo al genitore biologico e non a quello “d’intenzione”, posto che il primo – avendo fornito i propri gameti nella formazione dell’embrione – sarebbe ancor più coinvolto nella pratica procreativa, dalla cui illiceità nel nostro ordinamento deriva l’asserita contrarietà all’ordine pubblico italiano del riconoscimento dello status di genitore del padre “d’intenzione”.
Infine, sarebbe irragionevole precludere al giudice la possibilità di valutare caso per caso l’interesse del minore al riconoscimento del legame con il genitore “d’intenzione”, con ciò sacrificandosi automaticamente la tutela dei diritti del bambino per condannare il comportamento dei genitori (sono citate le sentenze di questa Corte n. 7 del 2013, n. 31 del 2012 e n. 494 del 2002).
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.– L’inammissibilità discenderebbe: a) dall’erronea assunzione a parametro interposto del giudizio di costituzionalità del parere consultivo della Corte EDU, non vincolante e reso in base al Protocollo n. 16 alla CEDU, che non è stato ratificato dall’Italia; b) dall’omessa sperimentazione dell’interpretazione conforme: a fronte del novum costituito dal parere della Corte EDU, la Sezione rimettente avrebbe potuto e dovuto investire nuovamente della questione le sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, terzo comma, del codice di procedura civile, invece di promuovere l’incidente di costituzionalità.
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate.
2.2.1.– Le conclusioni cui sono pervenute le sezioni unite della Corte di cassazione nella richiamata sentenza n. 12193 del 2019 non sarebbero contraddette dal parere della Corte EDU, che, pur affermando la necessità del riconoscimento del rapporto tra il minore nato all’estero tramite surrogazione di maternità e il genitore d’intenzione, riconosce un margine di apprezzamento degli Stati contraenti sulla scelta delle modalità di tale riconoscimento (trascrizione dell’atto di nascita straniero nei registri di stato civile oppure adozione).
2.2.2.– Per altro verso, l’adozione ex art. 44, primo comma, lettera d), della legge n. 184 del 1983 non configurerebbe un procedimento più lungo o complesso rispetto al riconoscimento dell’atto o provvedimento straniero e alla sua trascrizione nei registri di stato civile italiani, che presupporrebbe pur sempre l’attivazione di un procedimento giurisdizionale in caso di rifiuto di annotazione da parte dell’ufficiale di stato civile.
2.2.3.– Le norme censurate, nell’interpretazione offertane dalle sezioni unite della Corte di cassazione, sarebbero poi pienamente conformi agli orientamenti espressi da questa Corte nelle sentenze n. 221 del 2019 (che ha ritenuto non contrastante con la Costituzione la preclusione, per le coppie dello stesso sesso, all’accesso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo) e n. 237 del 2019 (che ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale della «norma che si desume» dagli artt. 250 e 449 del codice civile, 29, comma 2, e 44, comma 1, del d.P.R. n. 396 del 2000, 5 e 8 della legge n. 40 del 2004, censurata nella parte in cui non consentiva, ad avviso del rimettente, la formazione in Italia di un atto di nascita in cui venissero riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso). Nemmeno nella sentenza n. 162 del 2014 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa in caso di patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili – questa Corte avrebbe mai messo in discussione la legittimità del divieto di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, comma 6, della legge 40 del 2004.
La stessa sezione prima civile della Corte di cassazione, in una pronuncia coeva all’ordinanza di rimessione (sentenza 22 aprile 2020, n. 8029), si sarebbe conformata ai principi stabiliti dalle Sezioni unite nella sentenza n. 12193 del 2019.
2.2.4.– Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, della Corte EDU e della Corte di cassazione, pertanto, le norme censurate dalla Sezione rimettente non lederebbero alcuno dei parametri costituzionali invocati: non l’art. 2, da cui non discenderebbe alcun diritto alla genitorialità, inteso come aspirazione a procreare e a crescere dei figli; non l’art. 3, per l’incomparabilità tra la condizione di sterilità o infertilità delle coppie eterosessuali cui è consentita la procreazione medicalmente assistita, e la condizione di fisiologica infertilità delle coppie omosessuali; non gli artt. 30 e 31 Cost., poiché la tutela dell’interesse del minore non potrebbe essere affidata alla pratica della surrogazione di maternità, offensiva della dignità della donna e lesiva delle relazioni umane; non, infine, gli artt. 117, primo comma, Cost. e 8 CEDU, alla luce della sentenza della Corte EDU, grande camera, del 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, che ha ritenuto insufficiente, per l’accertamento di un legame di «vita familiare», la mera esistenza di un progetto genitoriale, in assenza di legami biologici tra il minore e gli aspiranti genitori.
2.2.5.– Non sussisterebbe, infine, alcuna discriminazione in base all’orientamento sessuale, atteso che la surrogazione di maternità è vietata tanto alle coppie eterosessuali, quanto a quelle omosessuali.
2.2.6.– Né indicazioni di segno contrario si potrebbero trarre dagli artt. 12 CEDU e 9 CDFUE, che, nel riconoscere il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, demandano alle legislazioni nazionali il compito di disciplinare tali diritti.
La scelta del legislatore italiano di non equiparare unioni civili e matrimonio, per quanto concerne la filiazione, riposerebbe sull’esigenza di fornire adeguata tutela ai best interests del minore e si collocherebbe pienamente nel solco della giurisprudenza costituzionale, che ha da un lato escluso che l’aspirazione al riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione al matrimonio (sentenza n. 138 del 2010), e dall’altro lato ha posto l’accento sull’«elevato grado di disvalore che il nostro ordinamento riconnette alla surrogazione di maternità» (sentenza n. 272 del 2017).
2.2.7.– Quanto all’art. 24 CDFUE, parimenti assunto a parametro interposto, non si rinverrebbe nell’ordinanza alcuna «disamina specifica» in relazione a tale profilo.
3.– Si sono costituiti in giudizio F. B. e P. F., «in proprio e in qualità di genitori» del minore P. B.F., chiedendo l’accoglimento delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione ed evidenziando come il riconoscimento degli interessi preminenti del minore, consacrato dalle fonti costituzionali e pattizie, faccia parte «di un patrimonio comune del costituzionalismo contemporaneo, che non può non essere partecipato anche dal nostro ordinamento».
Tali interessi risulterebbero irragionevolmente pregiudicati – con violazione degli artt. 2, 3, 30, 31, 117, primo comma, Cost., 8 e 14 CEDU – dalla disciplina censurata, che impedisce al giudice di compiere il bilanciamento più opportuno in ciascun caso concreto a salvaguardare tutti gli interessi in gioco, non essendo «costituzionalmente ammissibile che l’esigenza di verità della filiazione si imponga in modo automatico sugli interessi del minore» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 272 del 2017).
4.– J.E. N., madre gestazionale del minore P. B.F., ha spiegato intervento ad adiuvandum, dichiarato inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 271 del 2020.
5.– Sono state depositate varie opinioni scritte ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Con decreto del Presidente della Corte del 2 dicembre 2020, tutte le opinioni sono state ammesse, tranne quella presentata dalla Rete Italiana contro l’Utero in Affitto, in difetto di allegazioni e produzioni documentali atte a dimostrare il possesso dei requisiti di legittimazione richiesti dal comma 1 del richiamato art. 4-ter.
5.1.– Con l’opinione presentata l’11 settembre 2020, l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica a.p.s. e l’Associazione radicale Certi Diritti a.p.s. auspicano l’accoglimento delle questioni, che non porrebbero in discussione il divieto di maternità surrogata vigente nell’ordinamento italiano, ma riguarderebbero unicamente lo status del minore nato attraverso tale pratica.
La preclusione al riconoscimento dello status filiationis costituito all’estero tramite surrogazione di maternità avrebbe effetti punitivi e discriminatori in danno di un soggetto terzo incolpevole, ossia il minore.
Le norme censurate sarebbero inoltre affette da «irrazionalità per inappropriatezza ed inefficacia», poiché il dato sociale dimostrerebbe l’ampia diffusione del fenomeno della genitorialità delle coppie dello stesso sesso e la «valutazione complessiva pubblica» in termini di «normalità, di pregi e di difetti, di positivo e negativo, come per tutte le coppie».
In subordine, le associazioni sollecitano una pronuncia di inammissibilità o infondatezza delle questioni, basata sulla possibilità di interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina censurata.
5.2.– Con l’opinione presentata il 14 settembre 2020, l’Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie (ANFAA) auspica invece la reiezione delle questioni, osservando che l’istituto dell’adozione, disciplinato dalla legge n. 184 del 1983, realizza il diritto del minore ad avere una famiglia, nell’ambito di un procedimento che impone una previa rigorosa verifica dell’idoneità dei genitori affidatari e adottivi e nel quadro di un sistema che prevede severe sanzioni penali a presidio del rispetto delle procedure di adozione.
La maternità surrogata, non imponendo alcuna verifica sull’idoneità degli aspiranti genitori e consentendo una sorta di compravendita del minore, attuata attraverso lo sfruttamento delle madri gestazionali, sarebbe invece fenomeno assimilabile al traffico di minori, come tale meritevole di essere disincentivato e represso.
5.3.– Con l’opinione presentata il 14 settembre 2020, anche l’Associazione Amici dei Bambini (Ai.Bi.), l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII e l’associazione Famiglie per l’Accoglienza ritengono che la repressione penale della maternità surrogata non sia contraria all’interesse del minore, ma intenda, al contrario, tutelarlo, proteggendo la relazione con la madre, che, invece, la surrogazione mira intenzionalmente a interrompere.
L’interesse del minore si realizzerebbe attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando – nel solo caso di abbandono del minore, o di incapacità della famiglia d’origine a garantirne la cura – all’adozione, attuata con le garanzie del procedimento giurisdizionale e previa puntuale verifica dell’idoneità degli aspiranti genitori adottivi, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal dato biologico.
Tali elementi di garanzia per il minore sarebbero assenti nella surrogazione di maternità, la cui legittimazione – tramite il riconoscimento dello status filiationis costituito all’estero mediante il ricorso a detta pratica – rischierebbe di indebolire «la capacità del corpo sociale ad apprestare sostegno, tramite gli istituti dell’affidamento e della adozione, a minori che risultano privi di una adeguata famiglia di origine».
5.4.– Con l’opinione presentata il 15 settembre 2020, l’Avvocatura per i diritti LGBTI a.p.s. auspica invece l’accoglimento delle questioni, sottolineando la necessità di distinguere tra divieto di surrogazione di maternità e tutela del nato a seguito del ricorso a tale pratica. Dalla giurisprudenza costituzionale si trarrebbe il principio per cui, «al di là delle scelte che i genitori possono compiere anche in violazione della legge italiana, l’interesse primario da salvaguardare deve rimanere quello del nato al riconoscimento formale del proprio status filiationis, elemento costitutivo della sua identità personale protetta, oltre che dagli artt. 7 e 8 della Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, anche dagli artt. 2, 30 e 31 della Costituzione».
Le conclusioni cui sono pervenute le sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 12193 del 2019 si porrebbero in contrasto con la stessa giurisprudenza costituzionale, secondo cui il divieto della gestazione per altri non preclude al giudice di valutare nel singolo caso la sussistenza dell’interesse del minore a mantenere il proprio status nei confronti del genitore che non vanti con esso alcun legame biologico (è citata la sentenza n. 272 del 2017). Ciò tanto più che la legge n. 40 del 2004, pur vietando la surrogazione di maternità, nulla dispone quanto alle conseguenze per il nato da tale pratica.
Occorrerebbe infine considerare come altri ordinamenti, come quello francese e tedesco, pur vietando la gestazione per altri, apprestino tutela al minore nato dal ricorso a tale pratica, consentendo la trascrizione degli atti di nascita stranieri che indichino una doppia paternità.
6.– Con articolata memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza pubblica, le parti F. B. e P. F. hanno insistito per l’accoglimento delle questioni.
6.1.– Queste ultime sarebbero pienamente ammissibili: il rimettente non avrebbe potuto disattendere la sentenza n. 12193 del 2019 delle sezioni unite della Corte di cassazione, qualificabile in termini di diritto vivente, ma solo sollevare questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, così come interpretata da detta pronuncia (sono citate le sentenze di questa Corte n. 299 del 2005 e n. 266 del 2006). Né sarebbe configurabile alcun obbligo di rimettere nuovamente le questioni alle Sezioni unite, atteso che l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte Costituzionale) «non ammette alcun filtro preventivo fra il giudice a quo e la Corte».
6.2.– Il parere del 10 aprile 2019 della Corte EDU sarebbe stato correttamente preso in considerazione dal rimettente non in quanto parametro interposto o fonte normativa vincolante, ma quale «strumento interpretativo che il giudice nazionale non può ignorare», essendo stato pronunziato all’unanimità dalla Grande camera e costituendo codificazione di un «diritto consolidato» relativo alla Convenzione.
6.3.– La fattispecie in discussione nel giudizio a quo differirebbe sia da quella che veniva in rilievo nella sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte (per il significativo collegamento con un ordinamento straniero, stante la cittadinanza canadese del minore P. B.F.), sia da quella oggetto della richiamata sentenza Paradiso e Campanelli della Corte EDU (per la sussistenza di un legame genetico tra uno dei genitori e il bambino), sia, infine, da quella considerata dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nella sentenza 11 novembre 2014, n. 24001 (per la piena conformità della gestazione per altri alla lex loci).
6.4.– L’ordine pubblico di cui all’art. 64 della legge n. 218 del 1995 (cui rinvia l’art. 65 della stessa legge, a sua volta richiamato dal successivo art. 66), unico ostacolo al riconoscimento di uno status filiationis già stabilito dallo Stato di cittadinanza del minore, dovrebbe essere interpretato in senso restrittivo; e l’interesse del minore, al pari degli altri valori supremi dell’ordinamento che, con esso, determinano la nozione di ordine pubblico, non potrebbe che essere valutato dal giudice in ciascun caso concreto, conformemente alle indicazioni della sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte e del parere consultivo della Corte EDU.
6.5.– Anche il confronto con le esperienze di altri ordinamenti mostrerebbe come il divieto di maternità surrogata non sia d’ostacolo alla possibilità di garantire la continuità dello status familiare dei minori nati in Stati che ammettano tale pratica.
6.6.– Il richiamo all’art. 24 CDFUE operato dal rimettente sarebbe meramente funzionale a dimostrare la sussistenza di un’irragionevole disparità di trattamento, rilevante ex art. 3 Cost.: mentre gli status familiari costituiti – anche a seguito di gestazione per altri – in uno Stato membro dell’Unione europea (o costituiti in uno Stato terzo e ivi riconosciuti) possono «circolare» negli altri Stati membri, in forza della libertà di circolazione del cittadino dell’Unione, i minori italiani vedrebbero la propria continuità di status interrotta «per il sol fatto che entrambi i genitori sono italiani o per il fatto che non hanno risieduto in un altro Stato membro».
6.7.– L’orientamento delle sezioni unite della Corte di cassazione negherebbe al minore la possibilità di conseguire l’«allineamento dello status giuridico con lo stato di fatto», in contrasto con le esigenze di tutela del diritto all’identità personale discendenti dalla stessa giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze di questa Corte n. 494 del 2002 e n. 120 del 2001). Tale diritto, riconosciuto anche dall’art. 9, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, implicherebbe «anche il riconoscimento della genitorialità così come affermata da altro Stato di cui il minore è cittadino e con il quale possiede un legame qualificato».
6.8.– L’attuale assetto del diritto vivente implicherebbe per il minore nato da maternità surrogata una capitis deminutio del tutto analoga, se non più grave, rispetto a quella in danno ai figli cosiddetti incestuosi, rimossa da questa Corte con la sentenza n. 494 del 2002, atteso che il bambino dovrebbe patire le conseguenze sanzionatorie di una condotta posta in essere dai genitori, in nome di «una concezione “totalitaria” della famiglia».
6.9.– Il riconoscimento dello status filiationis rispetto al genitore d’intenzione non minerebbe il diritto del minore a conoscere le proprie origini ma, al contrario, lo rafforzerebbe, in quanto proprio la prospettiva di poter conseguire la trascrizione dell’atto di nascita del minore nato all’estero da maternità surrogata incentiverebbe i genitori a versare nei registri di stato civile italiani la relativa documentazione, così consentendo al figlio di avere accesso alle informazioni relative alla propria nascita.
6.10.– Quanto al ricorso all’adozione in casi particolari, esso non sarebbe conforme alle esigenze di tutela degli interessi del minore, considerati da un lato i limitati effetti di tale istituto e, dall’altro lato, le caratteristiche del procedimento di adozione, attivabile solo su domanda dell’adottante e con l’assenso dell’altro genitore. La procedura di adozione sarebbe inoltre caratterizzata da cadenze temporali particolarmente dilatate, pari a circa cinque anni, non compatibili con le esigenze di celerità evidenziate dalla Corte EDU nel parere del 10 aprile 2019. Del resto, la stessa Corte EDU, nella sentenza 28 giugno 2007, Wagner e J.M.W.L. contro Lussemburgo, avrebbe ritenuto insufficiente a garantire il rispetto dell’art. 8 CEDU la possibilità, offerta dall’ordinamento lussemburghese, dell’adozione «semplice» (assimilabile all’adozione in casi particolari) di una minore la cui adozione «piena», pronunciata in Perù, non era stata riconosciuta in Lussemburgo.
Al contrario, nel contesto del giudizio sulla riconoscibilità del provvedimento straniero ex art. 67 della legge n. 218 del 1995, la Corte d’appello potrebbe svolgere con celerità ogni opportuna indagine circa il contesto familiare e il legame tra minore e genitore d’intenzione e prendere altresì in considerazione le modalità di realizzazione della gestazione per altri nell’ordinamento straniero di volta in volta considerato.
6.11.– Sarebbe infine estranea al thema decidendum ogni considerazione relativa all’orientamento sessuale dei soggetti che ricorrono alla gestazione per altri, alla luce dell’ininfluenza dell’orientamento sessuale sull’idoneità genitoriale.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) e dell’art. 18 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».
2.– In sostanza, le questioni di legittimità che questa Corte è chiamata a esaminare riguardano lo stato civile dei bambini nati attraverso la pratica della maternità surrogata, vietata nell’ordinamento italiano dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004.
Più in particolare, è qui in discussione la possibilità di dare effetto nell’ordinamento italiano a provvedimenti giudiziari stranieri che riconoscano come genitore del bambino non solo chi abbia fornito i propri gameti, e dunque il genitore cosiddetto “biologico”; ma anche la persona che abbia condiviso il progetto genitoriale pur senza fornire il proprio apporto genetico, e dunque il cosiddetto genitore “d’intenzione”.
La prima sezione civile della Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale del diritto vivente, risultante dalla sentenza delle Sezioni unite civili 8 maggio 2019, n. 12193, che esclude il riconoscimento dell’efficacia nell’ordinamento italiano del provvedimento giurisdizionale straniero con il quale sia stato dichiarato un rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore “d’intenzione” cittadino italiano, in ragione del ritenuto contrasto di tale riconoscimento con il divieto di surrogazione di maternità stabilito dal menzionato art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, qualificabile secondo le Sezioni unite come principio di ordine pubblico.
Tale soluzione violerebbe, ad avviso del giudice a quo, tutti i parametri costituzionali e sovranazionali sopra indicati, per le ragioni di cui si è analiticamente dato conto nel Ritenuto in fatto.
Conseguentemente, la prima sezione civile della Corte di cassazione solleva questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto:
– dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge n. 218 del 1995, che vieta il riconoscimento di sentenze straniere allorché producano effetti contrari all’ordine pubblico;
– dell’art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000, che vieta la trascrizione nei registri dello stato civile italiani di atti formati all’estero contrari all’ordine pubblico; e
– dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, che prevede sanzioni penali a carico di chiunque «in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità».
3.– Devono essere vagliate preliminarmente le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato.
3.1.– Non è fondata, anzitutto, l’eccezione che fa leva sul carattere non vincolante del parere consultivo reso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo il 10 aprile 2019, ampiamente citato nell’ordinanza di rimessione.
Il giudice rimettente, pur richiamando tale parere, invoca infatti correttamente – quale parametro interposto in un giudizio di legittimità costituzionale fondato, tra l’altro, sull’art. 117, primo comma, Cost. – l’art. 8 CEDU, che riconosce il diritto alla vita privata e familiare del minore: diritto sul quale si imperniano le argomentazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione.
D’altra parte, non v’è dubbio che il parere consultivo reso dalla Corte EDU su richiesta della Corte di cassazione francese non sia vincolante, come espressamente stabilisce l’art. 5 del Protocollo n. 16 alla CEDU: né per lo Stato cui appartiene la giurisdizione richiedente, né a fortiori per gli altri Stati, tanto meno per quelli – come l’Italia – che non hanno ratificato il protocollo in questione. Cionondimeno, tale parere è confluito in pronunce successive, adottate in sede contenziosa dalla Corte EDU (sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia; decisione 19 novembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia).
3.2.– Infondata è altresì l’ulteriore eccezione di inammissibilità imperniata sull’omessa sperimentazione da parte del Collegio rimettente di un’interpretazione conforme alla CEDU alla luce del citato parere consultivo; interpretazione, peraltro, che secondo l’Avvocatura generale dello Stato avrebbe dovuto essere rimessa nuovamente alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, terzo comma, del codice di procedura civile, dal momento che la richiamata sentenza n. 12193 del 2019 non avrebbe potuto tenere conto di tale parere, sopravvenuto alla decisione.
La Sezione rimettente ha plausibilmente motivato nel senso dell’impraticabilità di una interpretazione conforme, proprio in ragione dell’intervenuta pronuncia delle Sezioni unite, che ha formato il diritto vivente che il giudice a quo sospetta di contrarietà alla Costituzione. Ciò deve ritenersi sufficiente ai fini dell’ammissibilità di una questione di legittimità costituzionale (ex plurimis, da ultime, sentenze n. 75 del 2019, n. 39 del 2018, n. 259 e n. 122 del 2017).
D’altra parte, l’obbligo per una sezione semplice della Corte di cassazione di astenersi dal decidere in contrasto con il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite attiene al piano dell’interpretazione della legge, non a quello della verifica della compatibilità della legge (così come interpretata dalle Sezioni unite) con la Costituzione; verifica, questa, che l’ordinamento italiano affida a ogni autorità giurisdizionale durante qualsiasi giudizio, consentendo a tale autorità di promuovere direttamente questione di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte, senza dover sollecitare allo scopo altra istanza superiore di giudizio (art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, recante «Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale»; art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»).
4.– Deve invece essere dichiarata, d’ufficio, l’inammissibilità della questione formulata dal giudice a quo in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 24 CDFUE, non avendo la Sezione rimettente motivato sulla sua riconducibilità all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, ciò che condiziona la stessa applicabilità delle norme della Carta (ex multis, sentenze n. 190 del 2020, n. 279 del 2019, n. 37 del 2019). Il che non esclude, naturalmente, che le norme della Carta possano essere comunque tenute in considerazione come criteri interpretativi degli altri parametri, costituzionali e internazionali, invocati dal giudice rimettente (come è accaduto, ad esempio, nelle sentenze n. 102 del 2020 e 272 del 2017 per l’appunto in relazione all’art. 24 CDFUE).
5.– Quanto alle restanti questioni sottoposte alla Corte, anche esse debbono essere dichiarate inammissibili, per le ragioni di seguito esposte.
5.1.– Il diritto vivente censurato dal giudice a quo si impernia sulla qualificazione, operata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione, del divieto penalmente sanzionato di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004 come «principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali», tra cui segnatamente la dignità umana della gestante.
Questa Corte si è recentemente espressa in termini analoghi, osservando che la pratica della maternità surrogata «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (sentenza n. 272 del 2017). A tale prospettiva si affianca l’ulteriore considerazione – su cui pongono l’accento anche l’Avvocatura generale dello Stato e una parte degli amici curiae – che gli accordi di maternità surrogata comportano un rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate; situazioni che, ove sussistenti, condizionerebbero pesantemente la loro decisione di affrontare il percorso di una gravidanza nell’esclusivo interesse dei terzi, ai quali il bambino dovrà essere consegnato subito dopo la nascita.
Tali preoccupazioni stanno verosimilmente alla base della condanna di «qualsiasi forma di maternità surrogata a fini commerciali» espressa dal Parlamento europeo nella propria Risoluzione del 13 dicembre 2016 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea nel 2015 (2016/2009-INI) (paragrafo 82).
5.2.– Le questioni ora sottoposte a questa Corte sono però focalizzate sugli interessi del bambino nato mediante maternità surrogata, nei suoi rapporti con la coppia (omosessuale, come nel caso che ha dato origine al giudizio a quo, ovvero eterosessuale) che ha sin dall’inizio condiviso il percorso che ha condotto al suo concepimento e alla sua nascita nel territorio di uno Stato dove la maternità surrogata non è contraria alla legge; e che ha quindi portato in Italia il bambino, per poi qui prendersene quotidianamente cura.
Più precisamente, si tratta di fornire una risposta all’interrogativo se il diritto vivente espresso dalle Sezioni unite civili, alla luce della complessità della vicenda, sia compatibile con i diritti del minore sanciti dalle norme costituzionali e sovranazionali invocate dal giudice a quo.
5.3.– Questa Corte ha recentemente avuto modo di rammentare (sentenza n. 102 del 2020) che il principio secondo cui in tutte le decisioni relative ai minori di competenza delle pubbliche autorità, compresi i tribunali, deve essere riconosciuto rilievo primario alla salvaguardia dei “migliori interessi” (best interests) o dell’“interesse superiore” (intérêt supérieur) del minore, secondo le formule utilizzate nelle rispettive versioni ufficiali in lingua inglese e francese, fu espresso anzitutto nella Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959. Di qui tale principio è confluito – tra l’altro – nell’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e nell’art. 24, comma 2, CDFUE. Tale principio è stato altresì considerato dalla giurisprudenza della Corte EDU come specifica declinazione del diritto alla vita familiare di cui all’art. 8 CEDU (ex multis, Grande camera, sentenza 26 novembre 2013, X contro Lettonia, paragrafo 96).
Il principio in parola è stato felicemente riformulato da una risalente sentenza di questa Corte, con riferimento all’art. 30 Cost., come necessità che nelle decisioni concernenti il minore venga sempre ricercata «la soluzione ottimale “in concreto” per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior “cura della persona”» (sentenza n. 11 del 1981); ed è stato ricondotto da plurime pronunce di questa Corte altresì all’ambito di tutela dell’art. 31 Cost. (sentenze n. 272 del 2017, n. 76 del 2017, n. 17 del 2017 e n. 239 del 2014).
5.4.– I parametri costituzionali e sovranazionali (questi ultimi rilevanti nell’ordinamento italiano per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.) invocati dall’ordinanza di rimessione convergono, dunque, attorno al principio della ricerca della soluzione ottimale in concreto per l’interesse del minore. Principio che deve essere ora declinato in relazione alle peculiarità delle situazioni all’esame.
Non v’è dubbio, in proposito, che l’interesse di un bambino accudito sin dalla nascita (nel caso oggetto del giudizio a quo, ormai da quasi sei anni) da una coppia che ha condiviso la decisione di farlo venire al mondo è quello di ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono a entrambi i componenti della coppia, ovviamente senza che ciò abbia implicazioni quanto agli eventuali rapporti giuridici tra il bambino e la madre surrogata.
E ciò, quanto meno, da una duplice prospettiva.
Anzitutto, questi legami sono parte integrante della stessa identità del bambino (Corte EDU, sentenza 26 giugno 2014, Mennesson contro Francia, paragrafo 96), che vive e cresce in una determinata famiglia, o comunque – per ciò che concerne le unioni civili – nell’ambito di una determinata comunità di affetti, essa stessa dotata di riconoscimento giuridico, e certamente riconducibile al novero delle formazioni sociali tutelate dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 221 del 2019). Sicché indiscutibile è l’interesse del bambino a che tali legami abbiano riconoscimento non solo sociale ma anche giuridico, a tutti i fini che rilevano per la vita del bambino stesso – dalla cura della sua salute, alla sua educazione scolastica, alla tutela dei suoi interessi patrimoniali e ai suoi stessi diritti ereditari –; ma anche, e prima ancora, allo scopo di essere identificato dalla legge come membro di quella famiglia o di quel nucleo di affetti, composto da tutte le persone che in concreto ne fanno parte. E ciò anche laddove il nucleo in questione sia strutturato attorno ad una coppia composta da persone dello stesso sesso, dal momento che l’orientamento sessuale della coppia non incide di per sé sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale (sentenza n. 221 del 2019; Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962; sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).
Sotto un secondo e non meno importante profilo, non è qui in discussione un preteso “diritto alla genitorialità” in capo a coloro che si prendono cura del bambino. Ciò che è qui in discussione è unicamente l’interesse del minore a che sia affermata in capo a costoro la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali agli interessi del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio di responsabilità genitoriali. Doveri ai quali non è pensabile che costoro possano ad libitum sottrarsi (per una analoga sottolineatura, si veda la sentenza n. 347 del 1998, che – seppur nel diverso contesto della fecondazione eterologa – già evocava i diritti del minore «nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo assumendone le relative responsabilità»).
Proprio per queste ragioni, del resto, l’ormai consolidata giurisprudenza della Corte EDU afferma la necessità, al metro dell’art. 8 CEDU, che i bambini nati mediante maternità surrogata, anche negli Stati parte che vietino il ricorso a tali pratiche, ottengano un riconoscimento giuridico del «legame di filiazione» (lien de filiation) con entrambi i componenti della coppia che ne ha voluto la nascita, e che se ne sia poi presa concretamente cura (sentenza Mennesson contro Francia, paragrafo 100; sentenza D. contro Francia, paragrafo 64).
Né l’interesse del minore potrebbe ritenersi soddisfatto dal riconoscimento del rapporto di filiazione con il solo genitore “biologico”, come è accaduto nel caso dal quale è scaturito il giudizio a quo, in cui l’originario atto di nascita canadese, che designava come genitore il solo P. F., era stato trascritto nei registri di stato civile italiani. Laddove, infatti, il minore viva e cresca nell’ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone, che non solo abbiano insieme condiviso e attuato il progetto del suo concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata.
5.5.– È peraltro vero che l’interesse del bambino non può essere considerato automaticamente prevalente rispetto a ogni altro controinteresse in gioco.
La frequente sottolineatura della “preminenza” di tale interesse ne segnala bensì l’importanza, e lo speciale “peso” in qualsiasi bilanciamento; ma anche rispetto all’interesse del minore non può non rammentarsi che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri […]. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sentenza n. 85 del 2013).
Gli interessi del minore dovranno essere allora bilanciati, alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore; scopo di cui si fanno carico le sezioni unite civili della Corte di cassazione, allorché negano la trascrivibilità di un provvedimento giudiziario straniero, nella parte in cui attribuisce lo status di genitore anche al componente della coppia che abbia partecipato alla surrogazione di maternità, senza fornire i propri gameti.
5.6.– Di tale bilanciamento tra gli interessi del bambino e la legittima finalità di disincentivare il ricorso a una pratica che l’ordinamento italiano considera illegittima e anzi meritevole di sanzione penale – bilanciamento alla cui necessità alludeva anche la già menzionata sentenza n. 272 del 2017 di questa Corte – si è, del resto, fatta carico anche la giurisprudenza della Corte EDU, poc’anzi citata.
Dal complesso delle pronunce rese sul tema dalla Corte di Strasburgo, si evince che – anche a fronte della grande varietà di approccio degli Stati parte rispetto alla pratica della maternità surrogata – ciascun ordinamento gode, in linea di principio, di un certo margine di apprezzamento in materia; ferma restando, però, la rammentata necessità di riconoscimento del «legame di filiazione» con entrambi i componenti della coppia che di fatto se ne prende cura.
La Corte EDU riconosce, in particolare, che gli Stati parte possano non consentire la trascrizione di atti di stato civile stranieri, o di provvedimenti giudiziari, che riconoscano sin dalla nascita del bambino lo status di padre o di madre al “genitore d’intenzione”; e ciò proprio allo scopo di non fornire incentivi, anche solo indiretti, a una pratica procreativa che ciascuno Stato ben può considerare potenzialmente lesiva dei diritti e della stessa dignità delle donne che accettino di portare a termine la gravidanza per conto di terzi.
Tuttavia, la stessa Corte EDU ritiene comunque necessario che ciascun ordinamento garantisca la concreta possibilità del riconoscimento giuridico dei legami tra il bambino e il “genitore d’intenzione”, al più tardi quando tali legami si sono di fatto concretizzati (Corte EDU, decisione 12 dicembre 2019, C. contro Francia ed E. contro Francia, paragrafo 42; sentenza D. contro Francia, paragrafo 67); lasciando poi alla discrezionalità di ciascuno Stato la scelta dei mezzi con cui pervenire a tale risultato, tra i quali si annovera anche il ricorso all’adozione del minore.
Rispetto, peraltro, a quest’ultima soluzione, la Corte EDU sottolinea come essa possa ritenersi sufficiente a garantire la tutela dei diritti dei minori nella misura in cui sia in grado di costituire un legame di vera e propria “filiazione” tra adottante e adottato (Corte EDU, sentenza 16 luglio 2020, D. contro Francia, paragrafo 66), e «a condizione che le modalità previste dal diritto interno garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera, conformemente all’interesse superiore del bambino» (ibidem, paragrafo 51).
5.7.– Il punto di equilibrio raggiunto dalla Corte EDU – espresso da una giurisprudenza ormai consolidata – appare corrispondente anche all’insieme dei principi sanciti in materia dalla Costituzione italiana, parimenti invocati dal giudice a quo.
Essi per un verso non ostano alla soluzione, cui le sezioni unite civili della Cassazione sono pervenute, della non trascrivibilità del provvedimento giudiziario straniero, e a fortiori dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il “padre d’intenzione”; ma per altro verso impongono che, in tal caso, sia comunque assicurata tutela all’interesse del minore al riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia che non solo ne abbiano voluto la nascita in un Paese estero in conformità alla lex loci, ma che lo abbiano poi accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale.
Una tale tutela dovrà, in questo caso, essere assicurata attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino.
Ogni soluzione che non dovesse offrire al bambino alcuna chance di un tale riconoscimento, sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice, finirebbe per strumentalizzare la persona del minore in nome della pur legittima finalità di disincentivare il ricorso alla pratica della maternità surrogata.
Proprio questo rischio, d’altronde, questa Corte ha inteso evitare allorché ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma che vietava il riconoscimento dei figli nati da incesto, precludendo loro l’acquisizione di un pieno status filiationis in ragione soltanto della condotta penalmente illecita dei loro genitori (sentenza n. 494 del 2002), e allorché – più recentemente – ha dichiarato pure costituzionalmente illegittima l’automatica applicazione della sanzione accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale in capo al genitore autore di un grave delitto commesso a danno del figlio, in ragione della possibilità che tale automatismo – finalizzato anche a lanciare un messaggio di deterrenza nei confronti dei potenziali autori di reati – finisse per risolversi in un pregiudizio per gli stessi interessi del minore (sentenza n. 102 del 2020).
5.8.– Come correttamente sottolinea l’ordinanza di rimessione, il possibile ricorso all’adozione in casi particolari di cui all’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), ritenuto esperibile nei casi all’esame dalla stessa sentenza n. 12193 del 2019 delle Sezioni unite civili, costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali rammentati.
L’adozione in casi particolari non attribuisce la genitorialità all’adottante. Inoltre, pur a fronte della novella dell’art. 74 cod. civ., operata dall’art. 1, comma 1, della legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali), che riconosce la generale idoneità dell’adozione a costituire rapporti di parentela, con la sola eccezione dell’adozione di persone di maggiore età, è ancora controverso – stante il perdurante richiamo operato dall’art. 55 della legge n. 184 del 1983 all’art. 330 cod. civ. – se anche l’adozione in casi particolari consenta di stabilire vincoli di parentela tra il bambino e coloro che appaiono socialmente, e lui stesso percepisce, come i propri nonni, zii, ovvero addirittura fratelli e sorelle, nel caso in cui l’adottante abbia già altri figli propri. Essa richiede inoltre, per il suo perfezionamento, il necessario assenso del genitore “biologico” (art. 46 della legge n. 184 del 1983), che potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce per essere così definitivamente privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall’inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita.
Al fine di assicurare al minore nato da maternità surrogata la tutela giuridica richiesta dai principi convenzionali e costituzionali poc’anzi ricapitolati attraverso l’adozione, essa dovrebbe dunque essere disciplinata in modo più aderente alle peculiarità della situazione in esame, che è in effetti assai distante da quelle che il legislatore ha inteso regolare per mezzo dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983.
5.9.– Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco.
Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell’art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell’art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate – in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) – dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 gennaio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA