SENTENZA N. 65
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 5, comma 1, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 29 luglio 2015, n. 115 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2014), e dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al medesimo decreto legislativo, nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma 4, lettere a), b) e c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per la riduzione dei premi RC-auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 9, e dall’art. 5, comma 1, lettera b), numero 1), della legge n. 115 del 2015, promossi dal Tribunale ordinario di Roma, seconda sezione civile, con ordinanze del 15 e del 9 dicembre 2019, iscritte, rispettivamente, ai numeri 128 e 137 del registro ordinanze 2020 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 40 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visti gli atti di costituzione della E. spa e della V. I. spa, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell’udienza pubblica del 9 marzo 2021 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;
uditi l’avvocato Eutimio Monaco per la E. spa e per la V. I. spa e l’avvocato dello Stato Luigi Simeoli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con due ordinanze iscritte, rispettivamente, ai numeri 128 e 137 reg. ord. del 2020, il Tribunale ordinario di Roma, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 5, comma 1, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 29 luglio 2015, n. 115 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2014), e dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al medesimo decreto legislativo, nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma 4, lettere a), b) e c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per la riduzione dei premi RC-auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 9, e dall’art. 5, comma 1, lettera b), numero 1), della legge n. 115 del 2015.
Le questioni di legittimità costituzionale sono state poste in riferimento agli artt. 3 e 97, nonché 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione ai considerando numeri 30 e 31 e all’art. 12 della direttiva 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2020, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva autorizzazioni) e, altresì, in relazione: agli artt. 106, paragrafo 2, 288 e 291 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130; all’art. 1 del Protocollo n. 26 allegato al TFUE; e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
2.– In punto di fatto, il giudice rimettente riferisce di doversi pronunciare, in entrambi i giudizi a quibus, su domande di ripetizione dell’indebito formulate da due società (E. spa e V.I. spa) – parti attrici nei richiamati processi – operanti nel settore delle telecomunicazioni e titolari di licenze individuali per l’installazione e la fornitura di reti di telecomunicazioni aperte al pubblico nonché per la prestazione del servizio di telefonia vocale.
2.1.– Le due società chiedono la restituzione, ai sensi dell’art. 2033 codice civile, di tutte le somme corrisposte al Ministero dello sviluppo economico (MiSE) nel periodo 2009-2018, a titolo di diritti amministrativi, in base a quanto previsto dall’art. 34 del d.lgs. n. 259 del 2003 (d’ora in avanti: cod. comunicazioni elettroniche) e nella misura stabilita dall’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al medesimo codice. In particolare, viene invocata la condictio indebiti quale effetto della richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale delle richiamate norme del cod. comunicazioni elettroniche, che costituiscono la giusta causa dei pagamenti effettuati.
2.2.– Il Tribunale rimettente riferisce, poi, che in entrambi i giudizi a quibus il MiSE ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario – trattandosi a suo avviso di controversia devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera m), dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) – e ha rilevato, altresì, l’insussistenza dei presupposti di legge per l’azione di ripetizione dell’indebito e l’intervenuta prescrizione dell’asserito credito azionato in giudizio.
3.– Tanto premesso, il giudice a quo procede a una ricostruzione del quadro normativo di riferimento, a partire dalla direttiva 2002/20/CE, che ha avuto attuazione con il cod. comunicazioni elettroniche.
3.1.– Il giudice rimettente espone che la direttiva 2002/20/CE risponde all’esigenza di «istituire un quadro normativo per garantire la libera prestazione delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica» (considerando n. 3) e intende assicurare ai fornitori delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica «diritti, condizioni e procedure obiettivi, trasparenti, non discriminatori e proporzionati» (considerando n. 4).
In particolare, la direttiva stabilisce che ai prestatori di servizi di comunicazione elettronica possa «essere richiesto il pagamento di diritti amministrativi a copertura delle spese sostenute dall’autorità nazionale di regolamentazione per la gestione del regime di autorizzazione e per la concessione dei diritti d’uso» e prevede che sia garantita «la trasparenza della contabilità gestita dall’autorità nazionale di regolamentazione mediante rendiconti annuali in cui figuri l’importo complessivo dei diritti riscossi e dei costi amministrativi sostenuti», così da consentire alle imprese di «verificare se vi sia equilibrio tra i costi e gli oneri ad esse imposti» (considerando n. 30).
La medesima direttiva aggiunge, nel considerando n. 31, che «[i] sistemi di diritti amministrativi» non devono «distorcere la concorrenza o creare ostacoli per l’ingresso sul mercato» e che «un esempio di alternativa leale, semplice e trasparente» per l’attribuzione di tali diritti può essere «una ripartizione collegata al fatturato».
Stante tale quadro, l’art. 12 della direttiva prescrive quanto segue: «1. I diritti amministrativi imposti alle imprese che prestano servizi o reti ai sensi dell’autorizzazione generale o che hanno ricevuto una concessione dei diritti d’uso: a) coprono complessivamente i soli costi amministrativi che saranno sostenuti per la gestione, il controllo e l’applicazione del regime di autorizzazione generale, dei diritti d’uso e degli obblighi specifici di cui all’articolo 6, paragrafo 2, che possono comprendere i costi di cooperazione internazionale, di armonizzazione e di standardizzazione, di analisi di mercato, di sorveglianza del rispetto delle disposizioni e di altri controlli di mercato, nonché di preparazione e di applicazione del diritto derivato e delle decisioni amministrative, quali decisioni in materia di accesso e interconnessione; b) sono imposti alle singole imprese in modo proporzionato, obiettivo e trasparente che minimizzi i costi amministrativi aggiuntivi e gli oneri accessori. 2. Le autorità nazionali di regolamentazione che impongono il pagamento di diritti amministrativi sono tenute a pubblicare un rendiconto annuo dei propri costi amministrativi e dell’importo complessivo dei diritti riscossi. Alla luce delle differenze tra l’importo totale dei diritti e i costi amministrativi, vengono apportate opportune rettifiche».
3.2.– Il rimettente osserva che, a fronte di tale contenuto precettivo della direttiva, la formulazione originaria dell’art. 34 del d.lgs. n. 259 del 2003 non prevedeva alcun obbligo di rendicontazione finale, mentre la misura dei diritti amministrativi veniva determinata nell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10, «sulla base della popolazione potenzialmente destinataria dell’offerta». Nello specifico, la misura dei diritti variava a seconda che il servizio fosse potenzialmente destinato: a) all’intero territorio nazionale (rispettivamente, con riguardo alla fornitura di reti pubbliche di comunicazione o a quella del servizio telefonico accessibile al pubblico, per un importo di 111.000 e di 66.500 euro all’anno); b) a un territorio avente fino a 10 milioni di abitanti (rispettivamente, sempre con riferimento alle due forniture, per un importo di 55.500 e di 27.750 euro all’anno); c) a un territorio avente fino a 200 mila abitanti (rispettivamente, come sopra, per un importo di 27.750 e di 11.500 euro all’anno).
3.3.– Successivamente – riferisce ancora il giudice a quo – l’art. 6, comma 4, lettere a), b), c) e d), del d.l. n. 145 del 2013, come convertito, novellava – con effetto a decorrere dal 24 dicembre 2013 – il solo art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al cod. comunicazioni elettroniche, limitandosi a intervenire sulla misura dei diritti amministrativi dovuti dalle imprese con un numero di utenti pari o inferiore a 50.000. Per tali ipotesi si stabiliva che l’importo fosse determinato – sempre per legge – attraverso una cifra riferita al numero di utenti effettivi dell’impresa (specificamente 300 euro ogni mille utenti per le licenze reti e 100 euro ogni mille utenti per le licenze voce).
3.4.– Da ultimo, prosegue il rimettente, l’art. 5 della legge n. 115 del 2015 modificava ulteriormente le disposizioni oggetto del presente giudizio, giungendo all’attuale formulazione (vigente a far data dal 18 agosto 2015). La novella apportata nel 2015 ha introdotto specifici obblighi di rendicontazione, integrando l’art. 34 con il comma 2-ter che dispone: «Il Ministero, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, e l’Autorità pubblicano annualmente i costi amministrativi sostenuti per le attività di cui al comma 1 e l’importo complessivo dei diritti riscossi ai sensi, rispettivamente, dei commi 2 e 2-bis. In base alle eventuali differenze tra l’importo totale dei diritti e i costi amministrativi, vengono apportate opportune rettifiche». Sempre l’art. 5 della legge n. 115 del 2015 ha poi nuovamente modificato le disposizioni dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10, rideterminando come di seguito i criteri di ripartizione dei diritti amministrativi e la loro entità «a) nel caso di fornitura di reti pubbliche di comunicazioni: 1) sull’intero territorio nazionale: 127.000 euro; 2) su un territorio avente più di 1 milione e fino a 10 milioni di abitanti: 64.000 euro; 3) su un territorio avente più di 200.000 e fino a 1 milione di abitanti: 32.000 euro; 4) su un territorio avente fino a 200.000 abitanti: 17.000 euro; 5) per le imprese che erogano il servizio prevalentemente a utenti finali in numero pari o inferiore a 50.000: 500 euro ogni mille utenti. Il numero degli utenti è calcolato sul quantitativo delle linee attivate a ciascun utente finale; b) nel caso di fornitura di servizio telefonico accessibile al pubblico: 1) sull’intero territorio nazionale: 75.500 euro; 2) su un territorio avente più di 1 milione e fino a 10 milioni di abitanti: 32.000 euro; 3) su un territorio avente più di 200.000 e fino a 1 milione di abitanti: 12.500 euro; 4) su un territorio avente fino a 200.000 abitanti: 6.400 euro; 5) per le imprese che erogano il servizio prevalentemente a utenti finali in numero pari o inferiore a 50.000: 300 euro ogni mille utenti. Il numero degli utenti è calcolato sul quantitativo delle risorse di numerazione attivate a ciascun utente finale […]».
4.– Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, il giudice rimettente rinvia «l’esame della questione pregiudiziale di giurisdizione, alla definizione (nel merito) della lite», dopo aver, comunque, rilevato che le controversie relative ai giudizi a quibus non possano essere ricondotte a quelle contemplate dall’art. 133, comma 1, lettera m), dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al d.lgs. n. 104 del 2010, che devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti in materia di comunicazioni elettroniche».
Ad avviso del Tribunale di Roma, infatti, nella fattispecie in esame le parti attrici non contestano la legittimità dei provvedimenti adottati dal MiSE nell’ambito delle sue competenze in materia di comunicazioni elettroniche, bensì la conformità della normativa italiana di recepimento del diritto interno al diritto sovranazionale. Conseguentemente, secondo il giudice, il Tribunale non sarebbe chiamato a scrutinare incidentalmente ed eventualmente a disapplicare i provvedimenti, espressivi di discrezionalità amministrativa, ai fini della tutela della posizione giuridica sostanziale vantata dalle parti attrici, bensì a pronunciarsi su un petitum (la domanda di ripetizione dell’indebito) e su una causa petendi (l’inadempimento dello Stato degli obblighi posti dalla direttiva 2002/20/CE) che individuerebbero una pretesa avente natura sostanziale di diritto soggettivo.
5.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che sarebbe proprio la prospettata illegittimità costituzionale delle norme oggetto del presente giudizio a rendere i pagamenti non dovuti, poiché la declaratoria di illegittimità costituzionale di tali norme produrrebbe la caducazione ex tunc del titolo giustificativo del pagamento, rendendo perciò indebiti i pagamenti effettuati dalle parti attrici.
5.1.– Il rimettente ritiene, inoltre, che le previsioni della direttiva, di cui si assume il mancato rispetto da parte della normativa nazionale di recepimento, sarebbero prive di effetti diretti. In tal senso, deporrebbe la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 18 luglio 2013, nelle cause riunite da C-228/12 a C-232/12 e da C-254/12 a C-258/12, Vodafone Omnitel ed altri, ove si legge che «la direttiva autorizzazioni non prevede né il modo in cui determinare l’importo dei diritti amministrativi […] né le modalità di prelievo di tali diritti» (punto 41). In mancanza dell’efficacia diretta, non sarebbe, pertanto, possibile procedere all’immediata applicazione della normativa sovranazionale, a beneficio dei privati nei confronti dei soggetti di diritto pubblico, con conseguente non applicazione della disciplina interna con essa incompatibile.
5.2.– Ancora, ad avviso del rimettente, il «contenuto estremamente puntuale, analitico, correlato a parametri chiaramente ed univocamente predeterminati» impedirebbe di operare un’interpretazione delle disposizioni della normativa di recepimento conforme al diritto dell’Unione europea.
5.3.– Infine, il giudice a quo afferma di non potere effettuare il rinvio pregiudiziale di interpretazione alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, poiché le parti attrici, nei giudizi in via principale, non hanno agito invocando la responsabilità civile dello Stato per inadempimento del dovere di attuare la direttiva 2002/20/CE, bensì hanno preteso la ripetizione dell’indebito, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., sul presupposto della asserita illegittimità costituzionale delle norme che hanno trasposto a livello nazionale la richiamata direttiva.
6.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale di Roma rileva, innanzitutto, che in termini generali e con riferimento a tutte le diverse formulazioni susseguitesi nel tempo, la normativa interna di recepimento della direttiva 2002/20/CE non avrebbe rispettato gli obiettivi e i principi dalla medesima disposti: tanto con riferimento agli obblighi di rendicontazione, necessari a garantire la trasparenza e la corrispondenza fra costi e diritti amministrativi, quanto con riguardo all’esigenza di una distribuzione proporzionata, obiettiva e trasparente di tali diritti fra le imprese. L’art. 34 del cod. comunicazioni elettroniche e l’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al medesimo codice, avrebbero, pertanto, violato gli artt. 11 e 117 Cost. in relazione agli obblighi imposti dagli artt. 288 e 291 TFUE e, in particolare, a quelli dettati dalla direttiva 2002/20/CE nei considerando numeri 30 e 31 e nell’art. 12.
6.1.– In termini più specifici, le norme del codice delle comunicazioni elettroniche censurate, nella formulazione antecedente alla novella introdotta con la legge n. 115 del 2015, non avrebbero contemplato l’obbligo di rendicontazione e i doveri ad esso conseguenti, il che avrebbe violato non solo le prescrizioni della direttiva, ma anche il principio di imparzialità e di buon andamento della Pubblica amministrazione, di cui all’art. 97, secondo comma, Cost.
6.2.– Quanto ai criteri adottati per distribuire i diritti amministrativi fra le imprese, il rimettente censura la scelta dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al cod. comunicazioni elettroniche, presente in tutte le formulazioni succedutesi nel tempo, di utilizzare quale criterio generale di determinazione di tali diritti quello degli utenti potenziali, anziché quello della capacità economica e reddituale sul mercato delle imprese, il che si porrebbe in contrasto con le prescrizioni della direttiva, per mancato rispetto della proporzionalità, e con gli artt. 3 Cost. e 20 e 21 CDFUE, sotto il profilo di una irragionevole disparità di trattamento fra diverse imprese operanti sul mercato.
Infine, con riguardo al metodo di stima introdotto con le riforme del 2013 e del 2015 a beneficio delle imprese con un numero di utenti effettivi pari o inferiore a 50.000, vale a dire la previsione di una cifra fissa ogni mille utenti, il rimettente censura la non corrispondenza anche di tale criterio con la effettiva capacità reddituale e produttiva di ciascun operatore, il che renderebbe più difficoltoso l’accesso al mercato e ostacolerebbe la concorrenza, in violazione sia delle prescrizioni della direttiva, sia dell’art. 106 TFUE e dell’art. 1 Prot. n. 26 allegato al TFUE.
7.– Con atti depositati il 20 e il 27 ottobre 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate, svolgendo argomenti di identico tenore nei due atti di intervento. La difesa erariale evidenzia come il criterio relativo alla parametrazione del contributo sulla base della popolazione potenzialmente destinataria dell’offerta tenga implicitamente conto delle dimensioni dell’impresa, ove si consideri «il potenziale di linee che possono essere servite dall’operatore autorizzato». Esso, inoltre, presenterebbe il vantaggio di essere di facile applicazione per i destinatari, non estremamente mutevole e suscettibile di creare certezza e stabilità nella quantificazione dei costi per le imprese. Per converso, un onere calcolato direttamente sulla base del fatturato potrebbe disincentivare la competitività. Infine, prosegue l’Avvocatura dello Stato, il correttivo apportato per le imprese con un numero di utenti pari o inferiore a 50.000 renderebbe ancora più evidente, per tali fattispecie, il rispetto del principio di proporzionalità.
Quanto all’obbligo di rendicontazione, la difesa erariale ritiene infondati i dubbi di legittimità costituzionale relativi alla normativa antecedente la novella legislativa introdotta nel 2015, adducendo che l’adempimento di quell’obbligo avrebbe potuto essere anche spontaneo ed effettuato in esercizi successivi a quelli in cui si determinano i diritti amministrativi, così come a posteriori si potrebbero introdurre eventuali correttivi conseguenti all’adempimento (viene, a tal riguardo, invocata la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea, ordinanza 29 aprile 2020, in causa C-399-19).
8.– Con atti depositati il 20 e il 27 ottobre 2020, si sono costituite in giudizio, rispettivamente, E. spa e V.I. spa, parti ricorrenti nei giudizi a quibus, insistendo per l’accoglimento delle questioni sollevate. La difesa delle parti richiama e ulteriormente illustra le censure del rimettente, ribadendo la violazione delle prescrizioni disposte dalla direttiva 2002/20/CE. Il contrasto con il principio di proporzionalità da parte della disciplina antecedente al 2013 risulterebbe, in particolare, di evidenza palmare alla luce della discrasia fra quanto dovuto dopo tale riforma e quanto invece versato dagli operatori in base alla precedente normativa (nel caso di E. spa l’importo sarebbe passato da 55.500 a 900 euro all’anno per la licenza reti, e da 27.750 a 300 euro all’anno per la licenza voce; nel caso di V.I. spa, per la licenza voce, da 66.500 a 600 euro all’anno).
La difesa delle parti costituite ritiene, peraltro, che nemmeno l’ulteriore novella apportata nel 2015 avrebbe introdotto norme idonee a recepire gli obblighi derivanti dalla direttiva, non avendo adottato criteri associati al fatturato o al reddito, capaci di superare il contrasto con il principio di proporzionalità e con il libero accesso al mercato.
9.– Con due distinte memorie integrative di identico tenore, depositate in data 16 febbraio 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che le norme interposte individuate dal rimettente andrebbero a censurare «la violazione dell’obbligo dell’Italia di curare la trasposizione della direttiva (art. 291 TFUE)», là dove l’art. 34 novellato nel 2015 avrebbe, viceversa, riprodotto quasi testualmente l’art. 12 della direttiva, dal che deriverebbe l’inammissibilità delle questioni.
L’Avvocatura dello Stato, nelle medesime memorie, eccepisce inoltre il difetto di rilevanza delle questioni aventi ad oggetto mancato rispetto dell’obbligo di rendicontazione, in quanto attinenti «maggiormente al profilo del merito della vicenda che non alla costituzionalità della norma» e, comunque, in subordine, insiste per la non fondatezza, poiché l’obbligo di rendicontazione avrebbe potuto essere rispettato anche in anni successivi a quelli in cui sono stati imposti i diritti amministrativi.
10.– In data 16 febbraio 2021, le parti hanno depositato memorie illustrative, per replicare agli argomenti dell’Avvocatura dello Stato, in specie là dove la difesa erariale aveva osservato che il criterio prescelto per la quantificazione dei diritti amministrativi integrerebbe un «sistema di calcolo del contributo di facile applicazione per i destinatari, non estremamente mutevole e, pertanto, non suscettibile di determinare una variazione di costi non prevedibile per le imprese». Si obietta, infatti, come proprio tali caratteristiche sarebbero in contrasto con la logica di cui ai principi della direttiva 2002/20/CE, nella misura in cui questa avrebbe invece voluto agevolare la massima «corrispondenza del contributo richiesto ai “costi amministrativi veri e propri”». Infine, la difesa delle parti deduce che la possibile osservanza spontanea dell’obbligo di rendicontazione non avrebbe alcuna influenza rispetto al dovere di prescrivere in via legislativa tale obbligo, il che è mancato nella formulazione della disciplina di recepimento fino alla novella del 2015.
11.– All’udienza del 9 marzo 2021, le parti e la difesa erariale hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi e hanno discusso il profilo di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale relativamente alla giurisdizione in capo al Tribunale rimettente.
Considerato in diritto
1.– Con due distinte ordinanze di tenore sostanzialmente identico, il Tribunale ordinario di Roma, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 5, comma 1, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 29 luglio 2015, n. 115 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2014), e dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al medesimo decreto legislativo, nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma 4, lettere a), b) e c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per la riduzione dei premi RC-auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 9, e dall’art. 5, comma 1, lettera b), numero 1), della legge n. 115 del 2015.
A giudizio del Tribunale rimettente, le norme censurate si porrebbero in contrasto con gli artt. 3 e 97, nonché 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione ai considerando numeri 30 e 31 e all’art. 12 della direttiva 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2020, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva autorizzazioni), e altresì in relazione agli artt. 106, paragrafo 2, 288 e 291 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130; all’art. 1 del Protocollo n. 26 allegato al TFUE; e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
La normativa di recepimento censurata non avrebbe, in particolare, rispettato, in alcuna delle formulazioni susseguitesi, le prescrizioni della direttiva, specie per quanto concerne i principi di proporzionalità, obiettività e trasparenza nella determinazione dei diritti amministrativi, e non avrebbe implementato, e neppure contemplato a livello legislativo sino alla novella introdotta nel 2015, l’obbligo di rendicontazione dei costi sostenuti dall’amministrazione.
1.1.– Le due ordinanze di rimessione pongono questioni sostanzialmente identiche in relazione alle disposizioni censurate e ai parametri evocati e, pertanto, i giudizi vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia.
2.– Preliminarmente, occorre rilevare che il recepimento della direttiva 2002/20/CE è stato oggetto di una travagliata vicenda legislativa, che ha dato luogo a successivi interventi con le novelle del 2013 e del 2015.
Pur prendendo atto di tale processo volto a dare attuazione agli obiettivi della citata direttiva, questa Corte non può esimersi dal constatare che la rigida determinazione dei contributi, affidata a cifre cristallizzate nella fonte primaria, non consente di apportare le opportune rettifiche che – in linea con l’art. 12 della direttiva 2002/20/CE – devono essere introdotte «[a]lla luce delle differenze tra l’importo totale dei diritti e i costi amministrativi». Del resto, lo stesso art. 34 del d.lgs. n. 259 del 2003 (d’ora in avanti: cod. comunicazioni elettroniche), nella sua attuale formulazione, dispone che «in base alle eventuali differenze tra l’importo totale dei diritti e i costi amministrativi vengono apportate opportune modifiche», il che pone il problema del coordinamento con la tecnica di determinazione dei diritti amministrativi prevista dall’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al cod. comunicazioni elettroniche.
3.– Ciò premesso, è necessario esaminare d’ufficio l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sotto il profilo della sussistenza della giurisdizione in capo al giudice rimettente.
3.1.– L’ordinanza di rimessione è stata, infatti, sollevata dal Tribunale ordinario di Roma, nell’ambito di una controversia avente ad oggetto i diritti amministrativi riconducibili ad una materia che l’art. 133, comma 1, lettera m), dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) devolve alla giurisdizione amministrativa esclusiva. La previsione richiamata si riferisce, in particolare, alle «controversie aventi ad oggetto i provvedimenti in materia di comunicazioni elettroniche, compresi quelli relativi all’imposizione di servitù, nonché i giudizi riguardanti l’assegnazione di diritti d’uso delle frequenze, la gara e le altre procedure di cui ai commi da 8 a 13 dell’articolo 1 della legge 13 dicembre 2010, n. 220, incluse le procedure di cui all’articolo 4 del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2011, n. 75».
Il giudice, nel valutare l’eccezione sul difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa erariale nel procedimento a quo, ha ritenuto di non affrontare la questione, ma di «rimettere [il suo] esame […] alla definizione (nel merito) della lite». In sostanza, ha rinviato ad una fase successiva all’emanazione dell’ordinanza di rimessione la trattazione della eccezione pregiudiziale, che invero condiziona la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale.
3.2.– In premessa a tale determinazione, con cui viene posticipata al merito la trattazione dell’eccezione, il rimettente ha, comunque, addotto alcune succinte motivazioni a sostegno della sua giurisdizione.
Secondo il Tribunale di Roma, nei giudizi principali non sarebbe in discussione alcun provvedimento amministrativo, bensì la ripetizione delle somme che sarebbero state indebitamente pagate dai privati, sulla base di una normativa censurata di illegittimità costituzionale per non «conformità del diritto interno al diritto sovranazionale». La giurisdizione, pertanto, spetterebbe al giudice ordinario, essendo controverso, alla luce del petitum (la domanda di ripetizione dell’indebito) e della causa petendi (l’inadempimento dello Stato agli obblighi imposti dalla direttiva), un diritto soggettivo. Aggiunge, infine, il giudice a quo che «è opinione oramai consolidata della Corte Regolatrice, che laddove si discuta dell’inadempimento dello Stato all’obbligo di cooperazione e di realizzazione degli obblighi posti dalle direttive (non esecutive) adottate in sede europea (artt. 288, 291 TFUE), la competenza spetti al giudice ordinario».
3.3.– Tale sintetica ricostruzione appare, invero, assertoria e manifestamente implausibile.
Al di là della circostanza che il giudizio a quo verte su una questione, quella dei diritti amministrativi, che presuppone la sussistenza del provvedimento di autorizzazione, in ogni caso, le norme che devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo particolari materie attraggono, alla stregua di quanto ribadito da questa stessa Corte, anche le controversie «che investono i diritti soggettivi» (sentenza n. 204 del 2004), in quanto «riconducibili, ancorché in via indiretta o mediata, all’esercizio del pubblico potere dell’amministrazione» (sentenza n. 191 del 2006; in senso analogo, sentenze n. 179 del 2016 e n. 204 del 2004). Non basta, dunque, invocare il diritto soggettivo a fondamento della pretesa di condictio indebiti, per richiamare la sussistenza della giurisdizione ordinaria.
Del tutto inconferente, poi, è il riferimento alla materia della responsabilità civile dello Stato, essendo nella fattispecie implicata la ben diversa azione di ripetizione dell’indebito. Né può certo ritenersi che ogni controversia relativa a norme di cui si lamenti il contrasto con previsioni di diritto dell’Unione europea prive di efficacia diretta debba, in quanto tale, ascriversi alla giurisdizione ordinaria.
3.4.– Per consolidata giurisprudenza costituzionale, il difetto di giurisdizione del giudice a quo determina l’inammissibilità della questione, ove esso sia rilevabile ictu oculi (sentenze n. 267 e n. 168 del 2020, n. 28 del 2019, n. 189 del 2018, n. 269 del 2016, n. 106 del 2013; ordinanza n. 318 del 2013).
In conformità a tale orientamento, l’evidente carenza di giurisdizione del giudice rimettente comporta l’inammissibilità delle questioni sollevate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 5, comma 1, lettera a), numeri 1) e 2), della legge 29 luglio 2015, n. 115 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2014), e dell’art. 1, comma 1, dell’Allegato n. 10 al medesimo decreto legislativo, nella formulazione originaria e in quella risultante a seguito delle modifiche apportate dall’art. 6, comma 4, lettere a), b) e c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per la riduzione dei premi RC-auto, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 9, e dall’art. 5, comma 1, lettera b), numero 1), della legge n. 115 del 2015, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97, nonché 11 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi in relazione ai considerando numeri 30 e 31 e all’art. 12 della direttiva 2002/20/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2020, relativa alle autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (direttiva autorizzazioni), e altresì in relazione agli artt. 106, paragrafo 2, 288 e 291 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, all’art. 1 del Protocollo n. 26 allegato al TFUE, e agli artt. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dal Tribunale ordinario di Roma, seconda sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Emanuela NAVARRETTA, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA