Corte Costituzionale, Sentenza n.89 del 05/05/2021

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Interpretazione della norma censurata - Interpretazione adeguatrice - Plausibile esclusione da parte del rimettente - Condizioni

In ordine all'impossibilità di pervenire ad un'interpretazione adeguatrice, è sufficiente che il rimettente abbia plausibilmente escluso tale possibilità, anche solo perché improbabile o difficile, perché la questione debba essere scrutinata nel merito. (Precedenti citati: sentenze n. 237 del 2020, n. 168 del 2020 e n. 42 del 2017).

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SENTENZA N. 89

ANNO 2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 395, numero 4), del codice di procedura civile, in combinato disposto con l’art. 14 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), promosso dal Tribunale ordinario di Cosenza, nel procedimento vertente tra A. T. e F. S., con ordinanza del 6 febbraio 2020, iscritta al n. 94 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2021 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

deliberato nella camera di consiglio del 25 marzo 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 6 febbraio 2020, iscritta al n. 94 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Cosenza – nel corso di un giudizio di revocazione per errore di fatto instaurato da A. T. avverso l’ordinanza di rigetto della domanda diretta ad ottenere la liquidazione degli onorari per l’attività professionale svolta nell’ambito di tre procedure giudiziarie intraprese davanti allo stesso Tribunale quale difensore di fiducia di F. S. –, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 395, numero 4), del codice di procedura civile e 14 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

1.1.– Il giudice rimettente evidenzia, in punto di rilevanza, che il ricorso presentato dall’avvocato istante nei confronti del suo cliente è stato respinto sul presupposto che non fosse stata prodotta la documentazione funzionale a verificare i fatti allegati, e ciò benché il nuovo procuratore del ricorrente, costituendosi in giudizio per via telematica, avesse in realtà depositato i documenti utili per la liquidazione degli onorari, inerenti agli atti redatti per conto della parte assistita nei giudizi incardinati. Cosicché il ricorrente, rilevando che la decisione assunta con ordinanza era stata determinata da errore di fatto, in quanto fondata sull’affermazione, non vera, della mancata produzione dei documenti comprovanti l’attività difensiva espletata, ha chiesto la revocazione del provvedimento impugnato e la conseguente condanna della parte al compenso dovuto.

Argomenta in premessa il giudice a quo che il resistente ha eccepito l’inammissibilità della domanda di revocazione, avendo ritenuto che l’ordinanza impugnata fosse appellabile ai sensi dell’art. 702-quater cod. proc. civ., ed ha, ancora, dedotto l’irrituale introduzione del giudizio di revocazione con ricorso, anziché con citazione; nel merito, ha sostenuto che il ricorrente si sarebbe limitato a sottoscrivere gli atti in relazione ai quali aveva chiesto la liquidazione dei compensi giudiziali.

Sempre in punto di rilevanza, l’ordinanza di rimessione precisa che la domanda di revocazione è stata correttamente introdotta con atto avente la forma del ricorso, in ragione del principio secondo il quale il rito speciale deve trovare applicazione anche al procedimento di revocazione, osservandosi, davanti al giudice adito, le norme stabilite per il procedimento davanti allo stesso, ai sensi dell’art. 400 cod. proc. civ., con la conseguenza che la domanda di revocazione è stata considerata tempestiva, perché proposta nel termine di cui agli artt. 325 e 326 cod. proc. civ., avuto riguardo alla data di deposito del ricorso.

Il Tribunale di Cosenza osserva altresì che, all’esito della consultazione del fascicolo telematico relativo al procedimento definito con l’ordinanza impugnata, è emerso che effettivamente il nuovo procuratore costituito aveva depositato, per via telematica, non solo la memoria di costituzione, ma anche la documentazione relativa all’attività espletata. Ciò comproverebbe l’integrazione dell’errore di fatto contenuto nell’ordinanza impugnata, che presenterebbe tutti i requisiti dell’errore revocatorio, essendo stata supposta l’inesistenza di un fatto – rappresentato dalla produzione della necessaria documentazione – la cui verità sarebbe risultata positivamente stabilita appunto dalla presenza di tali documenti nel fascicolo telematico. Si sarebbe trattato, pertanto, di un errore di percezione avente rilevanza decisiva, con i caratteri dell’assoluta evidenza e della rilevabilità, sulla scorta del mero raffronto tra l’ordinanza impugnata e i documenti del giudizio prodotti per via telematica.

Ritiene, quindi, il rimettente che dall’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate «deriverebbe il superamento della preclusione alla proponibilità della domanda, conseguendone, nell’ipotesi inversa, la declaratoria di inammissibilità».

1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva che l’ordinanza collegiale che decide sulla domanda di liquidazione degli onorari del difensore, emessa ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, al termine di un procedimento sommario di cognizione, è dichiarata espressamente non appellabile ed è idonea a definire il giudizio in un unico grado, producendo gli effetti del giudicato. Aggiunge che non è consentito, secondo il consolidato orientamento nomofilattico, proporre ricorso per cassazione allo scopo di denunciare l’errore revocatorio, sicché la limitazione dell’ambito di operatività della disciplina dedicata alla revocazione alle sole sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado impedirebbe alla parte che lamenti l’errore di fatto, per aver ritenuto non prodotta la documentazione in effetti puntualmente depositata, di avvalersi dell’unico mezzo di impugnazione esperibile.

Ad avviso del rimettente, proprio la natura eccezionale del mezzo impugnatorio della revocazione, evocabile nelle sole ipotesi tassativamente regolate, concernenti in via esclusiva le sentenze, renderebbe impossibile l’estensione della relativa disciplina ad altre tipologie di provvedimenti definitori. E ciò nonostante l’evoluzione normativa abbia progressivamente ridotto la centralità della sentenza nel novero dei provvedimenti che definiscono il giudizio, non solo avvicinandone la motivazione a quella dell’ordinanza, come emerge dal confronto tra gli artt. 134 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., ma anche disponendo la trasformazione di alcuni provvedimenti definitori da sentenza in ordinanza, come accade nell’ipotesi di declaratoria di incompetenza, nonché attraverso l’introduzione della figura dell’ordinanza che definisce il procedimento sommario di cognizione, che – secondo alcuni progetti legislativi pendenti di riforma del codice di procedura civile – potrebbe divenire addirittura il principale rito delle controversie civili.

Di qui, secondo il rimettente, la ingiustificata disparità di trattamento, quanto all’impugnabilità dell’errore revocatorio, tra i destinatari di provvedimenti definitori suscettibili di produrre efficacia di giudicato, e tanto in dipendenza della forma del provvedimento adottato: il provvedimento definitorio che abbia la forma di sentenza sarebbe impugnabile per revocazione, mentre il medesimo mezzo sarebbe precluso per il provvedimento ugualmente definitorio, che abbia però la forma di ordinanza.

In secondo luogo – espone il giudice a quo – sarebbe compromesso il diritto di agire in giudizio della parte che intenda far valere l’errore di fatto nella percezione dell’esistenza di un documento versato in atti, con la irragionevole negazione di ogni possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale in relazione alla forma del provvedimento adottato.

Il Tribunale rimettente richiama, poi, allo scopo di corroborare la valutazione sulla non manifesta infondatezza delle questioni, alcune pronunce di questa Corte, che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 395, numero 4), cod. proc. civ., nella parte in cui impediva di avvalersi della revocazione per errore di fatto con riferimento ad altre tipologie di provvedimenti definitori (sentenze n. 36 del 1991, n. 558 del 1989 e n. 17 del 1986). Nondimeno rimarca che si tratta di decisioni argomentate da esigenze del tutto peculiari, riguardanti fattispecie eterogenee non assimilabili al caso di specie, se non per la natura definitoria del provvedimento, da cui non potrebbe comunque desumersi un principio immanente di equiparazione delle ordinanze alle sentenze che possa autorizzare un’interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto censurato. Né d’altronde sarebbe consentito al giudice comune giungere, «attraverso un’ardita operazione ermeneutica», al superamento della tassativa previsione normativa che riserva il rimedio impugnatorio della revocazione ai provvedimenti definitori assunti in forma di sentenza, alla stregua della natura eccezionale del rimedio della revocazione.

2.– Nel giudizio innanzi a questa Corte non si sono costituite le parti del giudizio a quo e non ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Cosenza ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 395, numero 4), del codice di procedura civile e 14 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), «nella parte in cui non consente di assoggettare al rimedio impugnatorio di cui all’art. 395 numero 4 cpc l’ordinanza, emessa ai sensi dell’art. 14 d.lvo 1° settembre 2011 n 150, viziata da errore di fatto consistito nel ritenere non prodotto in giudizio un documento decisivo».

Il giudice rimettente – muovendo dall’assunto secondo cui l’ordinanza collegiale conclusiva del procedimento di liquidazione dei compensi del difensore, sebbene abbia contenuto decisorio e sia inappellabile, non sarebbe suscettibile di revocazione per errore di fatto, in ragione della forma del provvedimento che definisce tale procedimento – dubita della legittimità costituzionale delle previsioni censurate anzitutto in riferimento all’art. 3 Cost., per l’irragionevole esclusione del rimedio impugnatorio che si determinerebbe a fronte della possibilità di esperire lo stesso rimedio per le sentenze inappellabili pronunciate in unico grado o in grado di appello, così dandosi luogo ad «un’irragionevole disparità di trattamento nell’accesso alla tutela giurisdizionale tra soggetti che versano nelle medesime condizioni giuridiche».

Inoltre, il plesso normativo censurato recherebbe vulnus all’art. 24 Cost., in quanto, impedendo, in relazione alla forma del provvedimento definitorio adottato (ordinanza), la possibilità di avvalersi del mezzo di impugnazione della revocazione, realizzerebbe una ingiustificata compromissione del diritto di agire in giudizio della parte che intenda far valere l’errore di fatto nella percezione dell’esistenza di un documento versato in atti, così precludendole, in modo irragionevole, ogni possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale.

2.– Sul piano della rilevanza, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione si evince che l’errore di fatto risultante dai documenti prodotti, rappresentato dall’essersi ritenuta non provata l’attività difensiva espletata e posta a fondamento della richiesta dei compensi di avvocato, non ha costituito un punto controverso sul quale il provvedimento impugnato abbia avuto modo di pronunciarsi. Risulta, infatti, che tale provvedimento ha deciso sulla domanda di liquidazione dei compensi, ritenendo non depositata la documentazione attestante le incombenze difensive svolte nelle tre procedure giudiziali indicate, a fronte del deposito sopravvenuto in via telematica curato dal nuovo difensore del ricorrente, il che sottende che tale aspetto – ossia il tema della attinenza al giudizio della documentazione prodotta – non ha rappresentato un punto che l’ordinanza impugnata abbia avuto modo di affrontare e il Collegio di discutere previamente con le parti. Semplicemente si sarebbe trattato di una svista, perfezionatasi solo in sede decisoria, che avrebbe determinato il rigetto della domanda.

2.1.– Anche le argomentazioni addotte dal giudice a quo sulla ritualità della proposizione del mezzo impugnatorio della revocazione, con atto avente la forma del ricorso, anziché della citazione, e sulla conseguente tempestività del suo esperimento, risultano plausibili. Infatti, il Tribunale di Cosenza ha dato conto della circostanza che, ai sensi dell’art. 400 cod. proc. civ., innanzi al giudice adito con la domanda di revocazione si osservano le norme stabilite per il procedimento instaurato davanti alla stessa autorità giudiziaria, in quanto non derogate da quelle del capo dedicato alla revocazione. E nella fattispecie, in base al convincente avviso del rimettente, essendo stata l’ordinanza impugnata emessa a conclusione di un procedimento sommario di cognizione semplificato, introdotto con ricorso, anche l’impugnazione per revocazione avrebbe potuto essere introdotta da un atto avente la stessa forma, così come la giurisprudenza di legittimità ha specificato per la revocazione avverso i provvedimenti conclusivi di procedimenti trattati con il rito del lavoro (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 23 giugno 2016, n. 13063; sezione terza civile, sentenza 9 giugno 2010, n. 13834; sezione terza civile, sentenza 14 aprile 1992, n. 4537; sezione lavoro, sentenza 24 febbraio 1982, n. 1167).

2.2.– Sempre con riguardo alla rilevanza delle questioni, sono supportate da adeguato riscontro giurisprudenziale le conclusioni espresse dal rimettente in ordine all’inammissibilità del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza conclusiva del procedimento di liquidazione, al fine di far valere l’errore di percezione su fatto non controverso, e segnatamente l’errore del giudice di merito in relazione alla mancata o inesatta percezione di documenti acquisiti agli atti del processo e menzionati dalle parti (Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 26 gennaio 2021, n. 1562; sezione lavoro, sentenza 3 novembre 2020, n. 24395; sezione tributaria, sentenza 2 ottobre 2019, n. 24528; sezione seconda civile, sentenza 11 giugno 2018, n. 15043; sezione lavoro, sentenza 28 settembre 2016, n. 19174; sezione lavoro, sentenza 9 febbraio 2016,

n. 2529; sezione tributaria, sentenza 9 ottobre 2015, n. 20240; sezione terza civile, sentenza 19 febbraio 2009, n. 4056). Conclusione che suffraga ulteriormente la ponderazione circa la rilevanza delle questioni, non potendo il vizio denunciato essere fatto valere se non attraverso lo strumento della revocazione.

2.3.– Anche in ordine all’impossibilità di pervenire ad un’interpretazione adeguatrice, volta a valorizzare il significato sostanziale del termine “sentenza”, inteso come provvedimento decisorio, anche qualora esso abbia la veste formale di ordinanza, il Tribunale ha motivato plausibilmente, evidenziando che, poiché la norma censurata riserva il rimedio impugnatorio della revocazione ai provvedimenti definitori assunti in forma di sentenza, non potrebbe effettuarsi una lettura estensiva della stessa in ragione della natura eccezionale del rimedio della revocazione. E ciò sarebbe corroborato dalle pronunce di accoglimento di questa Corte, sempre in merito all’art. 395 cod. proc. civ., con riferimento ad altre tipologie di ordinanze che definiscono il giudizio rispetto a quella evocata nella fattispecie. Sicché il tema della condivisibilità o meno di tale opzione ermeneutica attiene al merito. Questa Corte ha ripetutamente affermato, al riguardo, che è sufficiente che il giudice rimettente abbia plausibilmente escluso la possibilità di una interpretazione adeguatrice, anche sol perchè «improbabile o difficile», perché la questione debba essere scrutinata nel merito (ex plurimis, sentenze n. 237 e n. 168 del 2020 e n. 42 del 2017).

2.4.– Il giudice rimettente ha dato altresì conto della pertinenza della documentazione depositata e non considerata, la quale, riguardando gli atti difensivi redatti dal ricorrente, sarebbe potenzialmente in grado di consentire l’accoglimento della richiesta revocazione.

3.– Nel merito, le questioni sollevate non sono fondate, nei sensi di seguito precisati.

3.1.– Nel disegno del codice di procedura civile la revocazione si configura come rimedio concepito per contrastare una serie, pur circoscritta, di vizi che, per la loro estrema gravità, sono assunti come indici rivelatori della probabile ingiustizia della decisione, giustificando la rimozione della sentenza e la restituzione delle parti nello stato anteriore alla sua pronuncia.

Con specifico riferimento all’ipotesi prevista dall’art. 395, numero 4), cod. proc. civ., la ratio dell’impugnazione revocatoria per errore di fatto va identificata nell’esigenza di riaprire il processo in ragione di una falsa percezione della realtà processuale, obiettivamente e immediatamente rilevabile, che ha indotto il giudice ad affermare o soltanto a supporre, purché attraverso un’enunciazione espressa nella motivazione, l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti ovvero l’inesistenza di un fatto, parimenti decisivo, che, sempre ex actis, risulti, invece, positivamente accertato.

La nozione di errore di fatto va, dunque, circoscritta – come affermato da questa Corte, in coerenza con la ricostruzione innanzi richiamata – all’«errore […] meramente percettivo (svista, puro equivoco) e che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa» dell’organo giudicante (sentenza n. 36 del 1991).

3.2.– La ratio dell’impugnazione revocatoria per errore percettivo riposa sull’assunto che l’accertamento tendenzialmente attendibile e razionalmente controllabile della verità dei fatti identifichi una delle condizioni indefettibili della giustizia del provvedimento giurisdizionale.

E poiché l’attendibilità dell’enunciazione giudiziale dei fatti dedotti a fondamento della domanda di tutela giurisdizionale costituisce estrinsecazione del principio costituzionale del giusto processo, la revocazione assurge a strumento di tutela primario tutte le volte che dalla statuizione deviata dall’errore di fatto, così come definito dalla norma censurata, derivino per la parte conseguenze pregiudizievoli sul piano dell’effettivo soddisfacimento di specifici bisogni di tutela.

Un’esigenza siffatta sorge di fronte ad ogni provvedimento giurisdizionale che, a prescindere dalla forma in cui si estrinsechi, abbia ad oggetto una regolamentazione, con attitudine al giudicato, di interessi protetti dall’ordinamento giuridico, il cui iter decisionale sviato dall’errore di percezione non sia rivedibile attraverso un rimedio a critica libera come l’appello, che costituisce il mezzo ordinario e illimitato di reazione all’ingiustizia della decisione e, in quanto tale, è capace di assorbire anche l’errore revocatorio.

4.– Nel novero dei provvedimenti giurisdizionali dotati dei suddetti requisiti contenutistici ed effettuali rientra senz’altro l’ordinanza conclusiva del procedimento ex art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, soggetta alle disposizioni del processo sommario di cognizione introdotto dall’art. 51 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), mediante l’inserimento del Capo III-bis del Titolo primo del Libro quarto del codice di procedura civile, contenente gli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater.

Si tratta di un modello procedimentale che, a dispetto dell’impropria denominazione in termini di rito “sommario” – che stride con la pienezza della cognizione che lo contraddistingue (sentenza n. 10 del 2013) – e dell’incongrua collocazione tra i procedimenti speciali, è sovrapponibile, sotto il profilo funzionale ed effettuale, al giudizio ordinario di cognizione.

Invero, come di recente sottolineato da questa Corte, dalla identificazione come sommario del procedimento disciplinato dagli artt. 702-bis e seguenti cod. proc. civ., non deve trarsi una indicazione, come pure potrebbe apparire, circa la sommarietà della cognizione, che resta piena, dovendo riferirsi tale denominazione, piuttosto, alla destrutturazione formale del procedimento. Si tratta, dunque, di un rito speciale a cognizione piena, che si conclude con un provvedimento che, sebbene rivesta la forma dell’ordinanza, è idoneo al giudicato sostanziale (sentenza n. 253 del 2020).

Nelle controversie in materia di liquidazione degli onorari di avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile, originariamente disciplinate dall’art. 28 della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile), il rito sommario di cognizione è previsto come modello necessario, non essendo ammessa la possibilità di conversione nel rito ordinario contemplata dall’art. 702-ter, terzo comma, cod. proc. civ., a prescindere dal tasso di complessità reso evidente dalle particolarità della fattispecie concreta.

Ne deriva che, in conformità al diritto vivente, è esclusa la possibilità di esperire l’azione in questione nelle forme del rito ordinario di cognizione o in quelle del procedimento sommario ordinario disciplinato dal codice di procedura civile anche quando vengano sollevate contestazioni relative all’esistenza del rapporto o, in genere, all’an debeatur. Soltanto qualora il convenuto ampli l’oggetto del giudizio con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione o di accertamento pregiudiziale) non esorbitante dalla competenza del giudice adito ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, la trattazione di quest’ultima deve avvenire, ove non si presti ad un’istruttoria sommaria, con il rito ordinario (o eventualmente speciale) a cognizione piena, previa separazione delle domande. Ove, invece, la domanda introdotta dal convenuto non rientri nella competenza del giudice adito, devono trovare applicazione gli artt. 34, 35 e 36 cod. proc. civ., che eventualmente possono comportare lo spostamento della competenza sulla domanda, ai sensi dell’art. 14 (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 febbraio 2018, n. 4485).

5.– Per quanto rilevato in ordine alla natura del procedimento sommario di cognizione ed alla sua necessità nella ipotesi contemplata dall’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, l’ordinanza con la quale si conclude quest’ultimo procedimento, nonostante la veste formale diversa dalla sentenza, è un provvedimento decisorio su diritti, con attitudine al giudicato sostanziale (ancora sentenza n. 253 del 2020). Un’interpretazione che, considerando solo la formulazione testuale dell’art. 395 cod. proc. civ. – la quale limita alle sentenze i provvedimenti impugnabili per revocazione – ne escludesse l’assoggettabilità a tale rimedio, sarebbe irragionevolmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale ex artt. 3 e 24 Cost.

5.1.– In tale prospettiva, questa Corte, con la sentenza n. 558 del 1989, ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 395, numero 4), cod. proc. civ., per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede la revocazione per errore di fatto avverso i provvedimenti di convalida di sfratto o licenza per finita locazione emessi in assenza o per mancata opposizione dell’intimato, sul presupposto che, attesa l’efficacia di cosa giudicata sostanziale di tali ordinanze, è irrazionale e lesivo dei diritti delle parti escludere la possibilità di emendarle dall’errore determinato dalla mancata o inesatta percezione dei documenti versati in causa. Sempre in forza di detta pronuncia, in conseguenza della precedente dichiarazione di illegittimità costituzionale relativa al caso, del tutto assimilabile, di convalida di sfratto emessa in assenza o per mancata opposizione dell’intimato, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo – ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) – l’art. 395, numero 4), cod. proc. civ., laddove non prevede la revocazione per errore di fatto per i provvedimenti di convalida di sfratto per morosità resi sui medesimi presupposti.

In seguito, l’art. 395, numero 4), cod. proc. civ. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede la revocazione delle sentenze della Corte di cassazione per la svista nel controllo degli atti del processo a quo (sentenza n. 17 del 1986) e di quelli propri del giudizio di legittimità (sentenza n. 36 del 1991). In tali pronunce questa Corte ha evidenziato che il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost., sarebbe gravemente vulnerato se l’errore di fatto, così come descritto nell’art. 395, numero 4), cod. proc. civ. non fosse suscettibile di emenda sol per essere stato perpetrato dal giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia.

In ultimo, alla stregua della ratio decidendi della sentenza n. 558 del 1989, questa Corte ha riconosciuto che la formulazione letterale dell’art. 395 cod. proc. civ. è lesiva del diritto di agire e difendersi in giudizio sancito dall’art. 24 Cost., anche laddove non prevede la revocazione dei provvedimenti di convalida di sfratto per morosità emessi in assenza o per mancata comparizione dell’intimato che siano effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra, consistito nella falsa attestazione della persistenza della morosità. Al riguardo, ha evidenziato che, dato il contenuto decisorio del provvedimento di convalida, la sua efficacia esecutiva e l’attitudine a produrre effetto di cosa giudicata, non può ritenersi consentito – alla luce della intervenuta modifica, sotto l’aspetto processuale, oltre che sostanziale, del rapporto locatizio, rispetto a quello esistente all’epoca in cui fu dettato lo speciale procedimento per convalida e nonostante l’esigenza di celerità che è alla base dei procedimenti speciali – che nel caso, come quello in esame, in cui la mancata comparizione dell’intimato potrebbe essere determinata proprio dal venir meno della morosità che la parte attrice ha poi falsamente attestato come persistente, resti escluso il rimedio straordinario, ed estremamente circoscritto nei suoi contenuti, della revocazione (sentenza n. 51 del 1995).

6.– Nel confermare le direttrici ermeneutiche tracciate dai richiamati precedenti, la Corte reputa non più attuale la conclusione per la quale la formulazione dell’art. 395, numero 4), cod. proc. civ., che limita alle sentenze i provvedimenti impugnabili per revocazione, non consenta un’interpretazione adeguatrice atta ad estenderne la portata alle decisioni rese in forma di ordinanza (sentenza n. 192 del 1995).

Il mutato assetto ordinamentale, delineatosi in conseguenza delle riforme del processo civile dell’ultimo ventennio e dell’evoluzione del modo in cui la giurisprudenza ricostruisce il rapporto tra forma e funzione dei provvedimenti giurisdizionali, consente, infatti, di offrire, attraverso una lettura sistematica dell’art. 395 cod. proc. civ., una interpretazione costituzionalmente orientata che, adeguando tale disposizione agli artt. 3 e 24 Cost., garantisca l’accesso al rimedio revocatorio per emendare dall’errore percettivo determinante ai fini della decisione ogni provvedimento giurisdizionale che, pur non assumendo la forma della sentenza, sia definitivo e decida, all’esito di un procedimento di natura contenziosa ed a cognizione esauriente, su diritti o status con attitudine al giudicato.

6.1.– Tale interpretazione postula l’individuazione di una nozione sostanziale di atto giurisdizionale decisorio nella quale possano essere ricompresi tutti i provvedimenti che, pur non estrinsecandosi nella forma della sentenza, siano ad essa equiparabili sotto il profilo contenutistico ed effettuale.

6.1.1.– Al riguardo, occorre, anzitutto, considerare che le diverse riforme cui negli ultimi anni è stato interessato il processo civile hanno eroso il primato che nell’originario impianto del codice di rito era riservato al giudizio ordinario di cognizione e, quindi, alla sentenza come provvedimento conclusivo di esso, denotando una sempre più marcata preferenza per un modello processuale alternativo, ancorché funzionalmente omogeneo alla cognizione ordinaria, connotato da elasticità, destrutturazione e semplificazione, anche e soprattutto con riferimento allo snodo della decisione e alla forma del provvedimento conclusivo.

Momento fondamentale di tale evoluzione è costituito dalla legge n. 69 del 2009, in una prospettiva di economia processuale coerente con il principio di ragionevole durata del processo, di rilevanza costituzionale ex art. 111 Cost. La scelta del legislatore si è, infatti, orientata sullo strumento dell’ordinanza decisoria, più flessibile rispetto alla sentenza e con motivazione più agile e succinta, come può desumersi dall’introduzione – quale generale alternativa per i giudizi assoggettati alla cognizione del tribunale in composizione monocratica (sentenza n. 253 del 2020, citata) – del procedimento sommario di cognizione, destinato a concludersi, appunto, con un’ordinanza avente contenuto decisorio ed idonea al giudicato, formale e sostanziale.

In attuazione della delega, conferita al Governo con l’art. 54 della legge n. 69 del 2009, a prevedere una nuova regolamentazione dei riti attraverso cui instaurare le cause civili, seguendo il criterio direttivo della riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, il d.lgs. n. 150 del 2011 ha ricondotto numerosi riti speciali ad un modello di procedimento sommario di cognizione caratterizzato dalla obbligatorietà e non convertibilità in rito ordinario. Inoltre, con l’art. 14, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, in legge 10 novembre 2014, n. 162, è stato inserito nel codice di procedura civile l’art. 183-bis, che ha previsto la facoltà del giudice di disporre, per le cause meno complesse, il passaggio procedimentale dal rito ordinario al rito sommario, al fine di assicurare una piena comunicabilità tra i due modelli di trattazione delle cause (ancora sentenza n. 253 del 2020).

Successivamente, il ricorso al procedimento sommario di cognizione è stato valorizzato dall’art. 1, comma 777, lettere a) e b), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», che ha modificato gli artt. 1-bis, 1-ter e 2, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), introducendo – per ciò che interessa in questa sede – i rimedi preventivi, il cui esperimento rappresenta condizione necessaria per poter ottenere l’indennizzo in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo. Tra di essi nell’art. 1-ter sono indicati: a) l’introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione; b) la formulazione della richiesta di passaggio dal rito ordinario al rito sommario a norma dell’art. 183-bis cod. proc. civ.. Tali rimedi sono stati di recente scrutinati con esito positivo da questa Corte, in quanto con essi è richiesto alla parte del processo in corso non un adempimento formale per poter poi proporre la domanda indennitaria (sentenza n. 34 del 2019), bensì un comportamento collaborativo con l’autorità giudiziaria, alla quale manifestare la propria disponibilità al passaggio al rito semplificato o al modello decisorio concentrato, in tempo potenzialmente utile ad evitare il superamento del termine di ragionevole durata del processo stesso (sentenza n. 121 del 2020).

Alle ricordate riforme di carattere generale si sono aggiunti interventi normativi più mirati, che hanno esteso l’ambito applicativo del procedimento sommario ad alcuni specifici settori del contenzioso civile, per i quali la trattazione semplificata costituisce la soluzione ordinaria: a) l’art. 76, comma 1, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98, ha introdotto l’art. 791-bis cod. proc. civ., regolando un rito sommario obbligatorio non convertibile per le opposizioni nei giudizi di divisione a domanda congiunta; b) l’art. 8 della legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie), ha previsto un rito sommario obbligatorio, convertibile in rito ordinario, per le controversie in tema di responsabilità medica; c) l’art. 1, comma 1, della legge 12 aprile 2019, n. 31 (Disposizioni in materia di azione di classe), con riferimento alle azioni di classe, ha disciplinato – con l’introdotto art. 840-ter cod. proc. civ. – un rito sommario obbligatorio non convertibile, che si conclude con sentenza.

6.1.2.– Per effetto delle modifiche al codice di procedura civile introdotte dalla legge n. 69 del 2009, anche le questioni di competenza – come quelle di litispendenza e continenza – sono decise con ordinanza, come può desumersi dall’attuale dettato degli artt. 39, 40, 42, 43, 50 e 279, primo comma, cod. proc. civ.

6.1.3.– Va, infine, evidenziato che, con riferimento al giudizio di cassazione, è direttamente l’art. 391-bis, primo comma, cod. proc. civ. – introdotto dall’art. 1-bis, comma 1, lettera l), numero 1), del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168 (Misure urgenti per la definizione del contenzioso presso la Corte di cassazione, per l’efficienza degli uffici giudiziari, nonché per la giustizia amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 25 ottobre 2016, n. 197 – a prevedere che, «[s]e la sentenza o l’ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta da errore materiale o di calcolo ai sensi dell’articolo 287, ovvero da errore di fatto ai sensi dell’articolo 395, numero 4), la parte interessata può chiederne la correzione o la revocazione con ricorso ai sensi degli articoli 365 e seguenti». Ciò in quanto nel giudizio dinanzi alla Corte di legittimità, a seguito delle modifiche introdotte dalla stessa legge n. 197 del 2016, la forma della sentenza è riservata, in via di eccezione rispetto a quella dell’ordinanza, alla decisione dei ricorsi che, sollevando questioni di rilevanza nomofilattica, sono ormai gli unici destinati al procedimento “solenne” con trattazione in pubblica udienza.

6.2.– Questo progressivo ampliamento del ricorso all’ordinanza decisoria, che oggi costituisce una delle forme di possibile definizione delle controversie civili, impone di adeguare la norma espressa dall’art. 395 cod. proc. civ. – formulata in consonanza con un sistema imperniato sull’unico tipo normativo della sentenza in senso formale – al mutato contesto legislativo, estendendone l’ambito applicativo nella prospettiva della garanzia del diritto di difesa e dell’effettività della tutela giurisdizionale ai sensi dell’art. 24 Cost.

7.– Nella direzione di siffatta interpretazione spinge, altresì, la elaborazione, da parte della giurisprudenza di legittimità, della nozione di sentenza “in senso sostanziale” ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost.

Tale categoria concettuale risale alla sentenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione 30 luglio 1953, n. 2593, secondo la quale l’impugnazione ex art. 111, settimo comma, Cost. è esperibile avverso ogni ordinanza o decreto a contenuto decisorio, incidente su situazioni giuridiche soggettive, che sia capace di arrecare alla parte un pregiudizio non altrimenti riparabile nell’ulteriore corso del procedimento.

Sulla scorta di tale decisione è stato progressivamente ampliato il novero dei provvedimenti impugnabili mediante il rimedio del ricorso straordinario per cassazione, includendovi ogni pronuncia, diversa dalla sentenza, che, pur statuendo su diritti con l’efficacia del giudicato, non sia, per un’anomalia del sistema, che è eliminata proprio dalla norma costituzionale reputata di immediata efficacia precettiva, già assoggettata direttamente o indirettamente al ricorso per cassazione, il quale rappresenta l’estremo e tipico rimedio di legalità che conclude l’iter di formazione del giudicato.

7.1.– In linea di continuità con siffatta ricostruzione si è posta, poi, l’enunciazione nomofilattica del principio della prevalenza della sostanza sulla forma (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 24 febbraio 2005, n. 3816), secondo il quale hanno natura di sentenze, soggette agli ordinari mezzi di impugnazione (art. 323 cod. proc. civ.) e suscettibili, in mancanza, di passare in giudicato, i provvedimenti che, ai sensi dell’art. 279 cod. proc. civ., contengono una statuizione di natura decisoria (con pronunce, quindi, sulla giurisdizione, sulla competenza, ovvero su questioni pregiudiziali del processo o preliminari di merito) che definiscano o meno la controversia sotto il profilo sostanziale e processuale. Non sono, invece, qualificabili come sentenze i provvedimenti adottati in ordine all’ulteriore corso del giudizio, anche se con essi siano state decise questioni di merito o in rito, essendo tali questioni soggette al successivo riesame in sede decisoria (in senso conforme, tra le altre, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 11 dicembre 2007, n. 25837 e 24 ottobre 2005, n. 20470; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 7 aprile 2006, n. 8174).

7.2.– I caratteri che connotano la sentenza in senso sostanziale rilevante ai fini del ricorso straordinario per cassazione sono, dunque, la decisorietà e la definitività.

La prima indica la idoneità del provvedimento a dirimere una lite tra parti contrapposte decidendo su diritti o status. Pertanto, la sentenza in senso sostanziale nella elaborazione del diritto vivente si identifica con l’atto con il quale il giudice, al fine di dirimere una controversia, procede all’accertamento del regolamento giuridico di un determinato rapporto e, di conseguenza, afferma o nega l’esistenza di una concreta volontà di legge che assicuri all’una o all’altra delle parti il bene oggetto di contesa. La decisorietà deve, invece, essere esclusa nel caso in cui non sia ravvisabile una contrapposizione di interessi da comporre e il provvedimento conclusivo non sia, pertanto, idoneo ad acquistare autorità di cosa giudicata (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 26 settembre 2019, n. 24068 e 14 aprile 1965, n. 684; sezione sesta, sottosezione prima civile, ordinanza 12 ottobre 2020, n. 21963; sezione prima, ordinanze 10 settembre 2020, n. 18801 e 7 settembre 2020, n. 18611; sezione terza civile, sentenze 26 settembre 2019, n. 23976 e 25 marzo 2016, n. 5951).

La definitività viene, invece, intesa come insuscettibilità di ulteriore riesame attraverso un mezzo di impugnazione e, quindi, come attitudine al giudicato del provvedimento decisorio, la cui incontrovertibilità scaturisce dall’irrevocabilità ed immodificabilità della decisione (ex multis, Corte di cassazione, sezione sesta, sottosezione seconda civile, ordinanza 1° agosto 2018, n. 20396; sezione terza civile, sentenze 15 maggio 2012, n. 7525 e 29 dicembre 2011, n. 29742).

8.– Gli approdi dell’itinerario giurisprudenziale sin qui sintetizzato, considerati unitamente alla tendenza del legislatore a promuovere il ricorso, in alternativa al modello tradizionale della sentenza, alla ordinanza a contenuto decisorio idonea a conseguire la stabilità del giudicato, comportano un ridimensionamento del rigido rapporto di congruenza tra forma, contenuto e funzione del provvedimento giurisdizionale sul quale, nel primigenio disegno del codice di procedura civile, riposava la distinzione tra sentenza, ordinanza e decreto tracciata dall’art. 131 cod. proc. civ.

La fungibilità del “contenitore formale” rispetto al contenuto decisorio della pronuncia giurisdizionale impone di riconsiderare il primato assegnato dal codice di rito alla sentenza.

Deve, dunque, concludersi che il rimedio ex art. 395 cod. proc. civ. è esperibile anche contro tutti i provvedimenti aventi carattere decisorio con attitudine al giudicato, nei termini chiariti, per i quali non è previsto un mezzo di impugnazione.

9.– Tale ricostruzione, fatta propria da parte della dottrina, è stata operata altresì da alcune pronunce di legittimità. Le decisioni più recenti, invero, seppure sporadiche, superano i risalenti precedenti (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 20 maggio 1987, n. 4617; sezione terza civile, sentenza 9 febbraio 1982, n. 769; sezione terza civile, sentenza 25 maggio 1965, n. 1010) che avevano propiziato l’intervento di questa Corte, e aderiscono all’impostazione secondo cui l’ordinanza che definisce il giudizio, qualora assuma il carattere sostanziale di sentenza, può essere impugnata per revocazione ai sensi dell’art. 395, numero 4), cod. proc. civ. nei termini e alle condizioni ivi previsti.

Con una prima pronuncia, la Corte di legittimità ha ritenuto ammissibile la domanda di revocazione per errore di fatto proposta avverso il decreto che ha respinto il reclamo nei confronti del provvedimento di inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni per responsabilità civile dei magistrati, pronunciato ai sensi dell’art. 5 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante «Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati» (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 17 settembre 1999, n. 10078).

Negli stessi termini altra pronuncia della Corte regolatrice ha ritenuto ammissibile il rimedio della revocazione per errore di fatto esperito avverso un’ordinanza di inammissibilità per tardività dell’opposizione recuperatoria a cartella esattoriale, emessa ai sensi dell’abrogato art. 23, primo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale» (Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 14 febbraio 2011, n. 3628).

Nei medesimi sensi si è espressa altra pronuncia della Corte di legittimità con riguardo alla domanda di revocazione per errore di fatto spiegata contro l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ai sensi dell’art. 348-bis cod. proc. civ., negando che con tale mezzo siano impugnabili esclusivamente le sentenze (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 13 giugno 2017, n. 14622).

9.1.– Le richiamate pronunce di legittimità non sono, tuttavia, idonee a rappresentare un consolidato indirizzo giurisprudenziale, di cui si possa imputare l’omessa considerazione al giudice rimettente, difettando dei requisiti che caratterizzano il diritto vivente. E ciò non solo per il descritto rapporto diacronico tra le contrapposte enunciazioni, ma anche perché solo la prima pronuncia evocata affronta in modo espresso ed organico il tema relativo all’esegesi dell’art. 395 cod. proc. civ., mentre le altre decisioni citate pervengono al medesimo approdo ermeneutico in via implicita, senza soffermarsi sul tenore precettivo della norma censurata nella fattispecie, e comunque con riferimento a specifici modelli di provvedimento decisorio assunto in forma diversa dalla sentenza.

10.– Alla stregua delle esposte considerazioni, la norma espressa dalle disposizioni denunciate deve essere interpretata in modo costituzionalmente adeguato e coerente agli evocati parametri costituzionali, nel senso, appunto, che la revocazione per errore di fatto può essere esperita contro ogni atto giurisdizionale riconducibile nel paradigma del provvedimento decisorio innanzi delineato.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 395, numero 4), del codice di procedura civile e 14 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Cosenza, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 5 maggio 2021.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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