ORDINANZA N. 97
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, promosso dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, nel procedimento penale a carico di S.F. P., con ordinanza del 3 giugno 2020, iscritta al n. 100 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2020.
Visti l’atto di costituzione di S.F. P., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi l’avvocato Giovanna Beatrice Araniti per S.F. P. e l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia per il Presidente del Consiglio dei ministri, quest’ultimo in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 16 marzo 2021;
deliberato nella camera di consiglio del 15 aprile 2021.
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nonché dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia.
Il giudice a quo premette che la disciplina restrittiva per l’accesso ai benefici penitenziari, prevista all’art. 4-bis ordin. penit., si estende, per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, anche al regime della liberazione condizionale. In virtù di tale complesso normativo, la richiesta di accedere alla liberazione condizionale, se presentata da condannati per i delitti compresi nel comma 1 dell’art. 4-bis, può essere valutata nel merito solo laddove essi abbiano collaborato con la giustizia, oppure nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima.
Ciò rende ragione, aggiunge il rimettente, della scelta del Tribunale di sorveglianza, che in mancanza della condizione ricordata ha omesso l’esame di merito della domanda di liberazione condizionale, sia riguardo al superamento della soglia minima della pena già scontata, sia in relazione al «sicuro ravvedimento» del condannato.
Osserva inoltre la Corte di cassazione che, avendo il detenuto già scontato oltre ventisei anni di reclusione (anche grazie a provvedimenti di liberazione anticipata), e ricorrendo elementi sintomatici del suo possibile ravvedimento, risulterebbe chiara la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, volte a superare l’effetto preclusivo assoluto della mancata collaborazione.
L’accoglimento di tali questioni non implicherebbe, di per sé, una risposta positiva alla domanda di accesso al beneficio, ma modificherebbe la disciplina applicabile da parte del Tribunale di sorveglianza, che dovrebbe estendere al merito l’esame del caso. Ciò sarebbe appunto sufficiente – osserva il giudice a quo richiamando la sentenza di questa Corte n. 253 del 2019 – ad affermare la rilevanza delle questioni sollevate, non essendo a tal fine necessario l’esito di accoglimento della domanda posta nel giudizio principale, che ben potrebbe essere negativo.
Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione osserva essenzialmente che, in tanto la disciplina dell’ergastolo si mantiene compatibile con la Costituzione, in quanto ai condannati alla pena perpetua sia concessa proprio la possibilità di ottenere il beneficio della liberazione condizionale, anche attraverso il computo dei periodi di liberazione anticipata (sono citate, a vario titolo, le sentenze di questa Corte n. 161 del 1997, n. 274 del 1983 e n. 264 del 1974).
Del resto, ricorda ancora il giudice a quo, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – sul piano della compatibilità dell’ergastolo con il divieto di trattamenti disumani o degradanti – ha valorizzato l’esistenza di strumenti per la cessazione di una pena originariamente inflitta per la vita intera, in presenza di significativi progressi nel trattamento penitenziario.
Alla luce di tale giurisprudenza, dovrebbe perciò considerarsi, al contrario, «inumano e degradante» un trattamento fondato sulla reclusione a vita, in assenza di qualunque possibilità per il condannato di lasciare il carcere, una volta conseguito l’obiettivo della rieducazione.
D’altronde, sottolinea il rimettente, nella sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia (definitiva dal 7 ottobre 2019), la Corte EDU ha preso in specifica considerazione la compatibilità convenzionale di un regime che condiziona l’accesso alla liberazione condizionale alla collaborazione dell’interessato con l’autorità giudiziaria, ed ha concluso che la scelta collaborativa non può rappresentare l’unico parametro per misurare il percorso di effettiva risocializzazione del condannato, potendo quella scelta far difetto per ragioni diverse dal mantenimento di legami con organizzazioni criminali.
In tali condizioni, la presunzione assoluta di perdurante pericolosità – tale da rendere inutile qualunque scelta e decisione il condannato adotti, nel corso del proprio trattamento penitenziario – escluderebbe per l’ergastolo cosiddetto ostativo quella condizione di “riducibilità” invece necessaria affinché la pena perpetua sia compatibile con le prescrizioni dell’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Nel ragionamento del rimettente assume inoltre rilievo centrale la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.
Sul presupposto che la disciplina vigente istituisca una presunzione assoluta di perdurante pericolosità nel caso di mancata collaborazione, tale sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di accordare permessi premio, in caso di condanna alla pena dell’ergastolo per reati “ostativi”, sottolineando la necessità che il giudice, superando la presunzione, possa in concreto valutare ed eventualmente valorizzare situazioni di sicuro ravvedimento.
Sottolinea il rimettente che, a maggior ragione, tale necessità si manifesterebbe nei casi in cui, come nell’odierna fattispecie, la probabilità di seri e profondi mutamenti della personalità del detenuto è resa elevata dalla rilevante durata del percorso carcerario e dal lungo tempo trascorso dal fatto.
Il regime normativo censurato, invece, comprimerebbe in misura intollerabile la funzione rieducativa della pena, in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.
In definitiva, decisivi argomenti a favore della non manifesta infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale prospettati proverrebbero, da una parte, dalla sentenza Viola contro Italia della Corte EDU – relativa a un caso sovrapponibile a quello posto ad oggetto del giudizio a quo, e caratterizzata da un giudizio di incompatibilità strutturale della disciplina italiana con l’art. 3 della CEDU – e, dall’altra parte, dalla indicata sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, che ha introdotto la possibilità di concedere permessi premio ai condannati per reati ostativi anche quando non abbiano collaborato con la giustizia.
2.– Le questioni sollevate riguardano dunque, specificamente, la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità con la CEDU la Corte di Strasburgo si è soffermata, di recente, nella sentenza Viola contro Italia.
L’ordinanza di rimessione censura non solo la disciplina “ostativa” contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ma (oltre alla previsione del successivo art. 58-ter) anche, in particolare, il contenuto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991. Quest’ultima disposizione, al comma 1, afferma che i condannati per delitti indicati nel citato art. 4-bis possono essere ammessi alla liberazione condizionale solo se ricorrono i presupposti che lo stesso articolo prevede, a seconda delle fattispecie delittuose, per la concessione degli altri benefici penitenziari. Il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari, previsto all’art. 4-bis ordin. penit., si estende così, appunto per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, anche al regime della liberazione condizionale.
Tale presupposto interpretativo, da tempo condiviso da questa Corte (sentenze n. 273 del 2001, n. 68 del 1995 e n. 39 del 1994), è corretto e si basa sulla natura formale del rinvio al citato art. 4-bis, contenuto nell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991.
È quindi sottoposta a verifica di legittimità costituzionale la disciplina che non consente di concedere lo specifico beneficio della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo, per delitti di “contesto” mafioso, che non collabora utilmente con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni di carcere (anche grazie a provvedimenti di liberazione anticipata).
L’ordinanza di rimessione censura le norme sopra indicate in quanto introducono, a carico del condannato per siffatti reati “ostativi”, che non collabora utilmente con la giustizia, una presunzione di mancata rescissione dei legami con la criminalità organizzata. In virtù di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se non per effetto della stessa collaborazione, il complesso normativo censurato comporta che le richieste del detenuto di accedere alla liberazione condizionale siano dichiarate in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del giudice di sorveglianza.
Per il condannato all’ergastolo non collaborante, la pena perpetua de iure si trasformerebbe, così, in una pena perpetua anche de facto.
Se ciò sia conforme ai parametri costituzionali evocati è, in definitiva, il thema decidendum posto a questa Corte dal giudice rimettente.
3.– Sia nell’evoluzione legislativa, sia nella giurisprudenza di questa Corte, a orientare in favore della compatibilità della pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 cod. pen. con il principio costituzionale di risocializzazione sono state le previsioni che, in progresso di tempo, hanno consentito al condannato a tale pena di accedere alla liberazione condizionale.
Per prima, la legge 25 novembre 1962, n. 1634 (Modificazioni alle norme del Codice penale relative all’ergastolo e alla liberazione condizionale), aveva stabilito, modificando, con il suo art. 2, l’art. 176, terzo comma, cod. pen., che la liberazione condizionale potesse essere accordata anche al condannato all’ergastolo, nel concorso di ulteriori presupposti, dopo che egli avesse «effettivamente scontato almeno ventotto anni di pena».
Il riferimento testuale alla esecuzione effettiva della pena aveva peraltro condotto la prevalente giurisprudenza a negare che la soglia indicata potesse de facto ridursi attraverso la concessione, ai condannati alla pena perpetua, di periodi di liberazione anticipata ex art. 54 ordin. penit.
In ogni caso, la sentenza di questa Corte n. 264 del 1974 aveva risolto nel senso della non fondatezza la questione della compatibilità tra l’art. 22 cod. pen. e l’art. 27, terzo comma, Cost., anche attraverso un riferimento alla possibilità di accedere alla liberazione condizionale, ormai riconosciuta al condannato pur nel caso in cui risultasse privo dei mezzi utili all’adempimento delle obbligazioni nascenti da reato (preoccupazione che, tra le altre, alimentava nella specie i dubbi del giudice a quo). La sentenza si chiudeva con un riferimento alla di poco precedente pronuncia n. 204 del 1974, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittima la norma attributiva al Ministro della giustizia del potere di concedere la liberazione condizionale: da qui in avanti la decisione sarebbe spettata all’autorità giudiziaria, che «con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale accerterà se il condannato abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».
Successivamente, anche il beneficio della liberazione anticipata veniva esteso ai condannati all’ergastolo. La sentenza di questa Corte n. 274 del 1983 aveva infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 54 ordin. penit. nella parte in cui non prevedeva, ai soli fini della maturazione della soglia di pena che consente la richiesta di liberazione condizionale, la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo le detrazioni di pena previste da quella norma. A seguito della pronuncia, l’art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) modificava l’art. 176, terzo comma, cod. pen., riducendo a ventisei anni la soglia minima di pena eseguita a carico del condannato prima del suo potenziale accesso alla liberazione condizionale, ed eliminando il riferimento al carattere “effettivo” dell’esecuzione. Nel contempo, al fine di superare ogni residua controversia sulla rilevanza dei periodi di liberazione anticipata nel computo della pena da scontare prima della richiesta di liberazione condizionale, il legislatore modificava anche l’ultimo comma dell’art. 54 ordin. penit., specificando che la regola di equivalenza alla esecuzione effettiva si applica anche ai condannati all’ergastolo.
Per effetto di queste scelte, l’accesso alla liberazione condizionale ha accentuato il proprio ruolo di fattore di riequilibrio nella tensione tra il corredo genetico dell’ergastolo (il suo essere una pena senza fine), da una parte, e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato, dall’altra.
La successiva giurisprudenza di questa Corte ha confermato questo ruolo della liberazione sotto condizione.
Con la sentenza n. 168 del 1994 viene dichiarata costituzionalmente illegittima la previsione legislativa dell’ergastolo per i delitti commessi da minori, per contrasto con l’art. 31 Cost., oltre che con l’art. 27 Cost., nella prospettiva della speciale tutela loro dovuta. La pronuncia sottolinea che quest’ultimo precetto costituzionale appare soddisfatto dall’estensione ai condannati all’ergastolo non solo dell’istituto della liberazione condizionale, ma anche di altre misure premiali, che anticipano il reinserimento sociale come effetto del sicuro ravvedimento del detenuto: «[t]utti gli anzidetti correttivi finiscono con l’incidere sulla natura stessa della pena dell’ergastolo, che non è più quella concepita alle sue origini dal codice penale del 1930. La previsione astratta dell’ergastolo deve ormai essere inquadrata in quel tessuto normativo che progressivamente ha finito per togliere ogni significato al carattere della perpetuità che all’epoca dell’emanazione del codice la connotava».
Un’ulteriore decisione di accoglimento (sentenza n. 161 del 1997) riassume icasticamente le acquisizioni fin qui descritte.
Esprimendosi in punto di reiterabilità della richiesta di liberazione condizionale, pur dopo un provvedimento di revoca adottato a norma dell’art. 177, comma primo, seconda parte, cod. pen. (secondo cui, in caso di revoca del beneficio, «il condannato non può essere riammesso alla liberazione condizionale»), la decisione introduce, per il solo condannato all’ergastolo, la possibilità di ottenere nuovamente il beneficio stesso, sempreché ne siano nuovamente maturate le condizioni.
La pronuncia osserva che il divieto della riammissione alla liberazione condizionale escluderebbe in modo permanente i condannati all’ergastolo dal processo rieducativo e di reinserimento sociale, in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. Aggiunge che, invece, alla stregua dei principi costituzionali, il connotato di perpetuità dell’ergastolo non può autorizzare, sia pure dopo l’esito negativo di un periodo trascorso in liberazione condizionale, una preclusione assoluta all’ottenimento di un nuovo beneficio, naturalmente se sussista il presupposto del sicuro ravvedimento.
La conclusione è netta: «[s]e la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale».
4.– Una giurisprudenza ispirata ai medesimi principi si è andata formando presso la Corte EDU.
A partire dalla sentenza della grande camera 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro fino alla stessa, recente, sentenza Viola contro Italia del 2019, la Corte di Strasburgo ha affermato che la compatibilità delle previsioni di una pena perpetua con la CEDU, ed in particolare con l’art. 3 della stessa, che fa divieto di sottoporre chiunque «a tortura» od a «pene o trattamenti inumani o degradanti», è subordinata al ricorrere di determinate e specifiche condizioni.
In disparte alcune tendenze all’abbassamento delle garanzie di concretezza e prevedibilità degli strumenti per la liberazione del condannato “rieducato” (giunte fino a giudicare sufficiente, nella sentenza della grande camera 17 gennaio 2017, Hutchinson v. Regno Unito, la previsione di strumenti politico-amministrativi fondati «on compassionate grounds»), la Corte EDU ha infatti chiarito che l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società.
È appunto l’idea della necessaria “riducibilità”, de iure e de facto, della pena dell’ergastolo, che può articolarsi in ulteriori corollari, a partire da quello che considera ben possibile imporre soglie minime di esecuzione effettiva della pena, prima di poter accedere alla scarcerazione (si vedano tra le altre, oltre alla già citata sentenza 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito, le decisioni: 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria).
5.– La ben nota disciplina “ostativa” contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., approvata all’indomani delle stragi di mafia dei primi anni Novanta del secolo scorso, mette in tensione i principi sin qui descritti.
Infatti, anche per i condannati all’ergastolo a seguito di reati connessi alla criminalità organizzata, tale disciplina, da una parte eleva la utile collaborazione a presupposto indefettibile per l’accesso (anche) alla liberazione condizionale, dall’altra sancisce, a carico del detenuto non collaborante, una presunzione di perdurante pericolosità, dovuta, in tesi, alla mancata rescissione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. Una presunzione assoluta, perché non superabile da altro se non dalla collaborazione stessa, che lo esclude in radice dall’accesso ai benefici penitenziari e, appunto, fra questi, alla liberazione condizionale.
Non sorprende, dunque, che – nell’ambito dell’ampia giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla disciplina ostativa, per oltre venticinque anni (dalla sentenza n. 306 del 1993 fino alla più recente n. 253 del 2019) – questa Corte sia stata chiamata a occuparsi della peculiare condizione dei condannati alla pena perpetua per reati connessi alla criminalità organizzata, verificando, in particolare, se tale disciplina collida con la ricordata necessità costituzionale di “riducibilità” dell’ergastolo.
Nel giudizio sulla censura di violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., sollevata sul citato art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., appunto nella parte in cui impedisce del tutto, in assenza di un’utile collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., l’accesso alla liberazione condizionale, la risposta della sentenza n. 135 del 2003 è negativa: l’inaccessibilità (anche) alla liberazione condizionale, per il detenuto che non collabora, non è frutto di un automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità prevista dalla disposizione censurata. L’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale (e agli altri benefici penitenziari) è insomma una preclusione che non discende automaticamente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo».
6.– Già a partire dalla sentenza n. 306 del 1993, la stessa giurisprudenza costituzionale maturata sulla disciplina “ostativa” contiene, tuttavia, le premesse per una risposta diversa.
In primo luogo, ha più volte affermato questa Corte (sentenze n. 253 del 2019 e n. 306 del 1993) che la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali.
Sono argomenti, questi ultimi, particolarmente presenti alla Corte EDU, soprattutto nella sentenza Viola contro Italia. Nelle parti di tale ultima pronuncia espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, viene sottoposta a critica una disciplina che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli. Afferma la Corte di Strasburgo che considerare la collaborazione con le autorità quale unica dimostrazione possibile della dissociazione del condannato conduce a trascurare gli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, osserva la medesima Corte, «non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia».
Da questo punto di vista, aggiunge la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, la presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante mostra la propria irragionevolezza, perché si basa su una generalizzazione che i dati dell’esperienza possono smentire.
In secondo luogo, la giurisprudenza costituzionale mostra come possa essere dubbia la “libertà” della scelta, sui cui insisteva la sentenza n. 135 del 2003.
In realtà, la disciplina ostativa prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per il condannato all’ergastolo a seguito di un reato ostativo, lo “scambio” in questione può assumere una portata drammatica, allorché lo obbliga a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà e il suo contrario, cioè un destino di reclusione senza fine. In casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la propria (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli.
Qui, anche per i condannati all’ergastolo che aspirano alla libertà condizionale, può essere ripetuto quanto osservato nella sentenza n. 253 del 2019: quale condizione per il possibile accesso alla liberazione condizionale, il condannato alla pena perpetua è caricato di un onere di collaborazione, che può richiedere la denuncia a carico di terzi, comportare pericoli per i propri cari, e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale.
7.– Essenzialmente per questi motivi valgono per le questioni all’odierno esame alcune rationes decidendi già poste a fondamento della sentenza n. 253 del 2019.
La presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente. Non è affatto irragionevole, come meglio si dirà tra breve, presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza.
Il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, infatti, alla magistratura di sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n. 149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.
L’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere contraddetta, ad esempio alle determinate e rigorose condizioni già previste dalla stessa sentenza n. 253 del 2019, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che, appunto, devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza, particolarmente nel caso in cui il detenuto abbia affrontato un lungo percorso carcerario, come accade per i condannati a pena perpetua.
8.– Nelle questioni di legittimità costituzionale decise con la sentenza n. 253 del 2019 si trattava di valutare l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non consentiva, al detenuto non collaborante, l’accesso al permesso premio, cioè a un beneficio penitenziario che segna l’inizio del percorso di risocializzazione.
Nel presente giudizio, si tratta invece di sottoporre a scrutinio la medesima norma, unitamente alle altre censurate, nella parte in cui non consentono che un soggetto condannato all’ergastolo, il quale non collabori utilmente con la giustizia, possa chiedere, dopo un lungo tempo di carcerazione, una valutazione in concreto circa il suo sicuro ravvedimento, premessa per l’accesso alla libertà condizionale e, quindi, per la estinzione della pena (in esito, peraltro, a un ulteriore periodo di vigilanza dell’autorità).
Da un lato, rispetto al caso precedente, la posta in gioco è ancora più radicale, giacché, in termini ordinamentali, sono in questione le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione; mentre, dal punto di vista del condannato, è in discussione la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena.
Dall’altro lato però, proprio per il profilo da ultimo sottolineato, è qui in esame l’accesso al ben diverso istituto che determina, all’esito positivo del periodo di libertà vigilata, l’estinzione della pena e il definitivo riacquisto della libertà, e non semplicemente, come nel caso del permesso-premio, la concessione di una breve sospensione della carcerazione, senza interruzione dell’esecuzione della pena, in costanza dei connessi controlli.
Come già si è detto, inoltre, anche nel caso all’odierno esame la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata anche in base a fattori diversi dalla collaborazione e indicativi del percorso di risocializzazione dell’interessato. Tuttavia, tale presunzione permane, giacché, come pure si è detto, non è affatto irragionevole presumere che costui conservi i propri legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza.
Le ragioni di una tale generalizzazione sono ben note. L’appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un’adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (sentenza n. 253 del 2019; in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017).
Queste ragioni, è bene ribadirlo, sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo. È ben possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche in esito a lunghe carcerazioni, proprio per le caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finché il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, come quella che generalmente viene espressa dalla collaborazione con la giustizia.
Peraltro, è anche bene ribadire che, per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone, appunto, l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento” ex art. 176 cod. pen.
9.– Nella sentenza n. 253 del 2019, questa Corte ha già stabilito che, in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), caratterizzati dalle specifiche connotazioni criminologiche appena descritte, ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.
In quel caso, a integrazione della vigente disciplina di ordinamento penitenziario, la pronuncia di accoglimento ha richiamato profili costituzionalmente necessari di natura probatoria.
Anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.
Deve inoltre considerarsi che, nel presente giudizio, sono sospettati di illegittimità costituzionale aspetti centrali e, per così dire, “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali: sia quanto alle fattispecie di reato (delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste), sia con riferimento all’entità della pena inflitta (l’ergastolo), sia in relazione al beneficio avuto di mira, la liberazione condizionale, che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena.
In tali condizioni, un intervento meramente “demolitorio” di questa Corte potrebbe mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame, e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa.
Da questo punto di vista, potrebbe, ad esempio, risultare incongrua, se compiuta con i limitati strumenti a disposizione del giudice costituzionale, l’equiparazione, per le condizioni di accesso alla libertà condizionale, tra il condannato all’ergastolo per delitti connessi alla criminalità organizzata, che non abbia collaborato con la giustizia, e gli ergastolani per delitti di contesto mafioso collaboranti.
Come si è detto, la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica. Appartiene perciò alla discrezionalità legislativa, e non già a questa Corte, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.: scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione.
Si tratta qui di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri di questa Corte. Come detto, esse pertengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa, e possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale.
In loro assenza, alla luce della peculiarità del fenomeno criminale in esame, l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, potrebbe determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata, nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema.
Non a caso, la stessa Corte EDU, nella sentenza Viola contro Italia, ha sostenuto che la disciplina in questione pone «un problema strutturale», tale da richiedere che lo Stato italiano la modifichi, «di preferenza per iniziativa legislativa».
E non a caso – giova aggiungere – lo stesso legislatore, già dopo la più volte menzionata sentenza n. 253 del 2019, si è attivato in direzione di una disciplina di “assestamento” del sistema.
Un resoconto delle conclusioni acquisite e delle intenzioni di riforma maturate è offerto dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere (istituita con l’omonima legge 7 agosto 2018, n. 99), che ha rassegnato, in data 20 maggio 2020, una «Relazione sull’istituto di cui all’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975 in materia di ordinamento penitenziario e sulle conseguenze derivanti dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale». In argomento, inoltre, risultano presentate proposte di legge (XVIII legislatura, A.C. n. 1951), e anche il Governo, nel riferire per mezzo della Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa circa lo stato di esecuzione della sentenza Viola contro Italia, ha evocato una situazione “dinamica” di sviluppo della disciplina in questione.
Questi dati mostrano con eloquenza la necessità che l’intervento di modifica di aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario – che l’ordinanza di rimessione sollecita questa Corte a compiere – sia, in prima battuta, oggetto di una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa.
10.– Sempre considerando che le questioni di legittimità costituzionale all’odierno esame coinvolgono aspetti “apicali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali (quanto alle fattispecie di reato, all’entità della pena e al beneficio avuto di mira), la necessità appena ricordata può essere apprezzata anche da un ulteriore angolo visuale.
Il giudice rimettente, per parte sua, chiede che l’illegittimità costituzionale delle norme censurate sia dichiarata con stretta aderenza al caso di specie, e quindi con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso (oltre che, naturalmente, per i soli ergastolani e con riguardo al solo beneficio della liberazione condizionale).
È noto, tuttavia, come il “catalogo” della prima fascia di reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. comprenda ormai anche reati diversi, relativi alla criminalità terroristica, ma anche delitti addirittura privi di riferimento al crimine organizzato, come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale (per alcune di queste fattispecie non è impossibile una condanna all’ergastolo, specie avuto riguardo ai «delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza»). Ed è altresì noto che l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. impedisce al condannato non collaborante l’accesso a tutti i benefici penitenziari (salvo la liberazione anticipata e, dopo la sentenza n. 253 del 2019, il permesso premio).
Emerge così l’incerta coerenza della disciplina risultante da un’eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all’ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata.
Per ultimo, ma non da ultimo, la normativa risultante da una pronuncia di accoglimento delle questioni, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da tratti di incoerenza.
In esso, i condannati per i reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., pur se non collaborino utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio (in virtù, come appena ricordato, della sentenza n. 253 del 2019). All’esito di una pronuncia di accoglimento delle odierne questioni – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure alternative – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà.
Un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame.
11.– Per tutti questi motivi, esigenze di collaborazione istituzionale impongono a questa Corte di disporre, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale, il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia. Rimarrà nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo.
Spetta in primo luogo al legislatore, infatti, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata; mentre compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018).
per questi motivi
la CORTE COSTITUZIONALE
rinvia all’udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 aprile 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l'11 maggio 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA