Corte Costituzionale, Sentenza n.113 del 09/05/2022

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SENTENZA N. 113

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge di Stabilità regionale 2019), promosso dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione terza, nel procedimento vertente tra Aurelia 80 spa e altri e la Regione Lazio, con ordinanza del 23 febbraio 2021, iscritta al n. 112 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti gli atti di costituzione di Aurelia 80 spa, Villa Von Siebenthal srl, Casa di cura Città di Roma spa e della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi l’avvocato Fabio Elefante per Aurelia 80 spa e altri e l’avvocato Rosa Maria Privitera per la Regione Lazio, quest’ultima in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 6 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 23 febbraio 2021, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione terza, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge di stabilità regionale 2019), in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, commi primo, secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione.

Il Collegio rimettente premette che alcune strutture sanitarie avevano impugnato, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la circolare della Regione Lazio del 1° ottobre 2019, n. 775071, recante «Disposizioni relative alla progressiva attuazione dell’articolo 9 comma 1 della Legge 28 dicembre 2018, n. 13», nella parte in cui stabilisce che il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona delle strutture sanitarie private accreditate deve avere con la struttura un rapporto di lavoro dipendente regolato dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario.

A fronte del rigetto del ricorso da parte del giudice di primo grado, le parti soccombenti interponevano appello ponendo nuovamente in discussione, sotto plurimi profili, la conformità alla Costituzione dell’art. 9, comma 1, della predetta legge regionale e deducendo, di qui, l’invalidità derivata della circolare impugnata.

In punto di rilevanza, il Consiglio di Stato rimettente sottolinea che la legittimità della norma regionale censurata costituisce il fondamento anche di quella degli atti attuativi impugnati e che sulla loro natura immediatamente lesiva, in assenza di gravame incidentale da parte dell’amministrazione regionale, si sarebbe determinato un giudicato interno. Il rimettente evidenzia che, inoltre, la stessa disposizione ha comunque una valenza immediatamente precettiva nei confronti degli operatori del settore.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio premette che una previsione analoga a quella dettata dalla norma regionale impugnata era contenuta nel decreto del Commissario ad acta alla sanità della Regione Lazio n. 376 del 17 novembre 2016 (Accreditamento strutture sociosanitarie residenziali assistenziali e riabilitative. Integrazione DPCA 00090/2010. Contrattualizzazione del personale dedicato ai servizi alla persona nelle strutture sociosanitarie residenziali assistenziali e riabilitative) ed era stata già oggetto di annullamento da parte del Consiglio di Stato con la sentenza n. 3303 del 2019. Tale pronuncia aveva in particolare ritenuto che il provvedimento commissariale si era posto al di fuori dei requisiti per l’accreditamento stabiliti dal decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), anche alla luce del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), cosiddetto Jobs Act.

Il giudice a quo sottolinea dunque che, essendosi già pronunciato su tali aspetti, l’unica questione da decidere è se una previsione di questo tipo possa essere invece contenuta in una legge regionale.

Ciò posto, il Consiglio di Stato dubita, in primo luogo, della compatibilità della norma censurata con gli artt. 3 e 41 Cost., in quanto comprimerebbe eccessivamente l’autonomia privata delle strutture sanitarie accreditate in termini di organizzazione dell’impresa.

Inoltre, il Collegio denuncia un possibile contrasto della medesima norma con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al rispetto delle norme comunitarie e al generale principio di ragionevolezza e proporzionalità.

Pone altresì in dubbio il Consiglio di Stato rimettente la compatibilità dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018 con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., ossia con la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e ciò laddove «impone il recepimento di determinati accordi sindacali al di sopra delle soglie previste dal legislatore nazionale».

Invero, il limite inserito nella norma regionale non troverebbe corrispondenza né nell’art. 8-sexies del d.lgs. n. 502 del 1992, né nel d.lgs. n. 81 del 2015. Di qui anche la ritenuta non manifesta infondatezza di dubbi di legittimità costituzionale con riferimento alla delimitazione della competenza legislativa concorrente regionale prevista dall’art. 117, terzo comma, Cost.

2.– Con atto depositato il 13 settembre 2021, si sono costituite in giudizio le società Aurelia 80 spa, Villa von Siebenthal srl e Casa di cura Città di Roma spa, rilevando che la Regione ha erroneamente ritenuto di essere legittimamente intervenuta nell’ambito della propria competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., nelle materie «tutela della salute» e «tutela e sicurezza del lavoro».

In realtà, la norma censurata inciderebbe sui rapporti contrattuali che si instaurano tra soggetti privati nell’ambito della sanità privata accreditata, ponendosi così in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., atteso che la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile ricomprende la disciplina dei rapporti di diritto privato rispetto alla quale non sono ammesse differenze di carattere territoriale. Né si rinviene, del resto, nella legislazione statale di riferimento la limitazione introdotta a carico delle strutture sanitarie private accreditate dall’art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018.

Deducono inoltre le parti costituite il contrasto della predetta disposizione anche con gli altri parametri evocati dal giudice rimettente, poiché la norma non sarebbe funzionale alla tutela della salute, bensì a quella dell’occupazione, e non effettuerebbe un adeguato bilanciamento tra i valori costituzionali coinvolti, in danno della libertà di impresa sancita dall’art. 41 Cost.

3.– Con atto del 2 settembre 2021, si è costituita in giudizio la Regione Lazio eccependo in via pregiudiziale l’inammissibilità delle questioni, sia perché aventi ad oggetto una circolare, di valore regolamentare, e non una norma primaria di legge, sia per l’individuazione solo parziale delle disposizioni interposte rispetto all’evocata violazione della competenza esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile».

Nel merito, la Regione deduce la non fondatezza delle questioni, osservando, in primo luogo, quanto alla violazione dell’art. 41 Cost., che la libera iniziativa economica privata ben può essere limitata per il perseguimento di uno scopo di carattere sociale, da individuarsi, nell’ipotesi considerata, tanto nella tutela dei lavoratori prevista dall’art. 36 Cost., quanto in quella della salute che, in virtù dell’art. 32 Cost., è soprattutto un interesse della collettività.

Evidenzia, inoltre, la Regione che la legge censurata non ha travalicato la competenza statale in materia di «ordinamento civile», essendosi limitata a prevedere, ferma la possibilità di scelta da parte delle strutture accreditate dello strumento a tal fine più idoneo, l’obbligo di instaurare con il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona un rapporto di dipendenza, funzionale alla garanzia della qualità del servizio, in una prospettiva tanto di continuità medico-paziente, quanto di “tranquillità” del singolo operatore sanitario.

4.– Con memoria depositata il 16 marzo 2022, le parti hanno replicato alle deduzioni contenute nell’atto di costituzione della Regione Lazio.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 23 febbraio 2021 (r. o. n. 112 del 2021), il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione terza, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge di stabilità regionale 2019), in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, commi primo, secondo, lettera l), e terzo, della Costituzione.

Il Collegio rimettente premette che alcune strutture sanitarie avevano impugnato, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la circolare della Regione Lazio del 1° ottobre 2019, n. 775071, recante «Disposizioni relative alla progressiva attuazione dell’articolo 9 comma 1 della Legge 28 dicembre 2018, n. 13», nella parte in cui stabilisce che il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona delle strutture sanitarie private accreditate deve avere con la struttura un rapporto di lavoro dipendente regolato dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario.

A fronte del rigetto del ricorso da parte del giudice di primo grado, le parti soccombenti proponevano appello lamentando un contrasto, sotto plurimi profili, dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018 con la Costituzione, e deducendo di qui l’invalidità derivata della circolare impugnata.

In punto di rilevanza, il Consiglio di Stato rimettente sottolinea che la norma regionale censurata costituisce il fondamento anche degli atti attuativi impugnati.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio dubita in primo luogo della compatibilità della norma censurata – che ha sostanzialmente riprodotto sotto tali profili il contenuto dei decreti del Commissario ad acta alla sanità della Regione Lazio n. 376 del 17 novembre 2016 (Accreditamento strutture sociosanitarie residenziali assistenziali e riabilitative. Integrazione DPCA 00090/2010. Contrattualizzazione del personale dedicato ai servizi alla persona nelle strutture sociosanitarie residenziali assistenziali e riabilitative) e n. 422 del 5 ottobre 2017 (Accreditamento delle strutture sanitarie. Modifica ed integrazione del Decreto del Commissario ad Acta n. 00090/2010 e del Decreto del Commissario ad Acta n. 376/2016. Contrattualizzazione del personale dedicato ai servizi alla persona), annullati dallo stesso Consiglio di Stato con sentenza del 21 marzo 2019, n. 3303 – con gli artt. 3 e 41 Cost., nonché con l’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione al principio di ragionevolezza e proporzionalità affermato a più riprese nella giurisprudenza europea.

In particolare, il giudice a quo rileva a questo riguardo che il perseguimento dell’utilità sociale, pure richiamata dall’art. 41 Cost., deve essere adeguatamente bilanciato con altri valori rilevanti quali la libertà di impresa e la stessa tutela della salute dei destinatari delle prestazioni.

Il Consiglio di Stato lamenta, inoltre, la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., da parte del legislatore regionale, in quanto, con una disposizione incidente sulle modalità di disciplina del rapporto di lavoro, mediante il rinvio alla contrattazione collettiva, avrebbe invaso la competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile». Ciò in quanto avrebbe introdotto limitazioni non contemplate dall’art. 8-sexies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), anche alla luce del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), con ciò violando in ogni caso anche la competenza concorrente della Regione in materia di tutela della salute e di tutela e sicurezza del lavoro, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

2.– La Regione Lazio, costituita in giudizio, ha eccepito in via preliminare l’inammissibilità delle questioni, in quanto le stesse avrebbero ad oggetto la circolare della Regione Lazio del 1° ottobre 2019, recante «Disposizioni relative alla progressiva attuazione dell’articolo 9 comma 1 della Legge 28 dicembre 2018, n. 13», atto impugnato dalle strutture sanitarie nel giudizio principale, ossia una norma di valore regolamentare sottratta al sindacato della Corte.

L’eccezione non è fondata.

Il Consiglio di Stato rimettente censura non già la circolare, ma la disposizione di legge regionale (art. 9, comma 1, citato) della quale la prima costituisce attuazione. La disposizione censurata sancisce direttamente l’onere, da parte delle strutture sanitarie accreditate, di assumere personale dedicato ai servizi di cura alla persona con contratto di lavoro dipendente conforme al CCNL del settore, al fine di soddisfare i requisiti di carattere organizzativo necessari per conservare l’accreditamento.

Quindi oggetto delle censure di illegittimità costituzionale è la disposizione di un atto normativo primario che rientra nel sindacato di questa Corte.

3.– Ancora in via preliminare, le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono, poi, ammissibili con riferimento al requisito della rilevanza, avendo il Consiglio di Stato rimettente motivato in ordine alla ritenuta lesività dell’atto impugnato (la richiamata circolare), la cui legittimità, oggetto del giudizio principale, è condizionata, direttamente e unicamente, dallo scrutinio delle questioni stesse; e, anche se queste fissano ed esauriscono l’oggetto del contendere tra le parti nella controversia, ciò che fa venir meno il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità.

Inoltre, l’ordinanza di rimessione contiene una motivazione che, quanto ai parametri costituzionali, è certamente sufficiente; tale non è invece la motivazione quanto al parametro interposto della normativa dell’Unione europea.

Quest’ultima viene richiamata in termini generici, e quindi inadeguati, in riferimento «al rispetto delle norme comunitarie, in relazione al generale principio di ragionevolezza e proporzionalità della disposizione in relazione alla finalità di maggior efficienza della prestazione sanitaria». Peraltro, il «principio di ragionevolezza e proporzionalità» viene evocato per dedurre il necessario bilanciamento tra le libertà – segnatamente la libertà d’impresa – e i diritti fondamentali garantiti dai Trattati europei, con una prospettazione che si sovrappone, senza specifici riferimenti normativi e quindi in termini generici, a quella, maggiormente puntuale, sviluppata con riguardo ai parametri interni.

Deve essere, quindi, dichiarata inammissibile la questione con la quale il Consiglio di Stato rimettente assume la violazione, da parte della disposizione censurata, dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al «principio di ragionevolezza e proporzionalità» di derivazione europea.

4.– Passando al merito delle questioni, è preliminarmente opportuno richiamare, in sintesi, il quadro normativo di riferimento nel quale si collocano le questioni di legittimità costituzionale.

4.1.– Su un piano generale, occorre ricordare che la riforma realizzata – in forza della delega di cui all’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – dal d.lgs. n. 502 del 1992, superando l’assetto delineato dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), ha prefigurato una concorrenza tra le prestazioni offerte da strutture pubbliche e private munite dell’accreditamento cosiddetto istituzionale.

Detto accreditamento, come ha avuto occasione di precisare questa Corte, è mirato al riconoscimento del possesso da parte di un soggetto o di un organismo di prescritti specifici requisiti (sentenza n. 416 del 1995).

Nell’assetto originario del d.lgs. n. 502 del 1992, l’accreditamento cosiddetto istituzionale era subordinato al possesso, da parte delle strutture sanitarie, sia pubbliche che private, di determinati standard di qualificazione e si riteneva avesse valenza autorizzatoria vincolata al ricorrere degli stessi.

In seguito, l’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto in una prospettiva di riduzione della spesa dal decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), ha subordinato, al comma 1, l’accreditamento anche alla funzionalità della struttura richiedente «agli indirizzi di programmazione regionale».

Pertanto, nell’assetto attuale, l’accreditamento è strettamente connesso anche alle scelte programmatorie che governano la funzione di contingentamento e di selezione all’ingresso nel Servizio sanitario nazionale (SSN) e più specificamente regionale. Di conseguenza, non tutti i privati in possesso dei requisiti tecnici richiesti hanno diritto a ottenerlo, ma solo quelli la cui attività si inserisce in modo appropriato nella programmazione regionale: sussiste, dunque, una sfera di discrezionalità dell’amministrazione nella concessione dell’accreditamento, in considerazione della valutazione della rispondenza e adeguatezza agli obiettivi della programmazione.

In questo bilanciamento rileva anche la compatibilità con le risorse organizzative e finanziarie disponibili (sentenza n. 200 del 2005).

L’accreditamento postula oggi non solo una valutazione, di carattere vincolato, circa la sussistenza in capo alla struttura sanitaria dei richiesti standard di qualificazione, ma ne implica, altresì, un’altra, avente carattere discrezionale, correlata alla programmazione regionale.

In proposito, la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto che l’accreditamento è un provvedimento di carattere non già autorizzativo, bensì abilitativo-concessorio (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 27 febbraio 2018, n. 1206), che si colloca a metà strada tra la concessione di servizio pubblico e l’abilitazione tecnica idoneativa (ex multis, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 18 ottobre 2021, n. 6954, 30 aprile 2020, n. 2773 e 3 febbraio 2020, n. 824).

Mediante l’accreditamento le strutture autorizzate acquisiscono lo status di soggetto idoneo a erogare prestazioni e servizi sanitari per conto del SSN.

L’abilitazione a fornire, in concreto, prestazioni a carico del SSN segue, invece, solo alla stipula di accordi contrattuali che, ai sensi dell’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, definiscono programmi di attività, con indicazione dei volumi e delle tipologie di prestazioni erogabili.

L’effetto dell’accreditamento, quindi, è quello di abilitare il singolo operatore ad erogare prestazioni sanitarie “per conto” del SSN, il che prelude all’esercizio di attività sanitarie anche “a carico” dello stesso per il tramite della stipula dei successivi accordi contrattuali (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 18 ottobre 2021, n. 6954).

4.2.– La Regione, in qualità di amministrazione titolare del servizio pubblico di assistenza sanitaria, è il soggetto che concede l’accreditamento ed è chiamata dallo stesso art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992 a stabilire i requisiti ulteriori a quelli minimi individuati in via generale da un atto di indirizzo e di coordinamento statale, costituito, ancora all’attualità, dal d.P.R. 14 gennaio 1997 (Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private).

Alle Regioni sono pertanto demandate la disciplina delle modalità di accertamento e verifica sul rispetto dei requisiti minimi, l’individuazione di standard addizionali di qualità, che costituiscono requisiti ulteriori per l’accreditamento, nonché la definizione delle procedure per il rilascio dell’accreditamento, le ipotesi di revoca e i controlli.

La forte connotazione pubblicistica dell’accreditamento e la crescente valorizzazione della sua funzione di garanzia delle prestazioni erogate dalle strutture sanitarie private hanno costituito anche il fondamento sul quale si è articolata l’intesa tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome intervenuta il 20 dicembre 2012, sul documento recante «Disciplinare per la revisione della normativa dell’accreditamento, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, del nuovo Patto per la salute per gli anni 2010-2012».

La sottoscrizione di tale intesa è avvenuta allo scopo di promuovere una revisione della normativa in materia di accreditamento e di remunerazione delle prestazioni sanitarie, con l’obiettivo di pervenire alla istituzione di un sistema di accreditamento uniforme sul piano nazionale.

Ai fini dell’esame delle questioni sollevate dal Consiglio di Stato, rileva, nell’ambito dell’intesa, la previsione riguardante le competenze del personale. Si prevede, in particolare, che debba essere assicurato che il personale delle strutture accreditate «possieda, acquisisca e mantenga le conoscenze e le abilità necessarie alla realizzazione in qualità e sicurezza delle specifiche attività». Sono presi a tal fine in considerazione l’attività di programmazione, la verifica della formazione necessaria, le modalità di inserimento e l’addestramento di nuovo personale.

4.3.– In questo più ampio contesto normativo, vanno considerate, inoltre, le disposizioni dettate dalla legge della Regione Lazio 3 marzo 2003, n. 4 (Norme in materia di autorizzazione alla realizzazione di strutture e all’esercizio di attività sanitarie e socio-sanitarie, di accreditamento istituzionale e di accordi contrattuali).

In particolare, ai sensi dell’art. 13, comma 1, «[l]a Giunta regionale, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, stabilisce, con apposito provvedimento, sentita la competente commissione consiliare, i requisiti ulteriori di qualificazione per il rilascio dell’accreditamento nonché gli indicatori ed i livelli di accettabilità dei relativi valori per la verifica dell’attività svolta e dei risultati raggiunti in relazione alle prestazioni accreditate».

Con tale provvedimento sono, altresì, individuati i requisiti essenziali la cui mancanza comporta la revoca dell’accreditamento.

Un rilievo particolare, ai fini delle questioni in esame, ha l’art. 17-bis della medesima legge regionale che prevede, al comma 1, che «[n]ell’ambito dei processi di accreditamento istituzionale la Giunta regionale opera per salvaguardare i livelli occupazionali del settore».

4.4.– Proprio in attuazione di tale ultima disposizione, il decreto del Commissario ad acta della Regione Lazio n. 376 del 2016 aveva contemplato, quale ulteriore requisito di qualificazione necessario per il rilascio dell’accreditamento, che nelle strutture sociosanitarie residenziali, sia assistenziali sia riabilitative, il personale avente qualifica di infermiere, educatore professionale, fisioterapista, tecnico sanitario e operatore sociosanitario o figura equivalente o dedicata ai servizi alla persona avesse, con il soggetto gestore della struttura, un rapporto di lavoro dipendente regolato dal CCNL sottoscritto dalle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative nel settore sanitario.

Il successivo decreto commissariale n. 422 del 2017 aveva individuato poi le tempistiche di attuazione della relativa previsione e la percentuale, nella misura dell’80 per cento, di detto personale da assumere con contratto di lavoro dipendente conforme alle previsioni della contrattazione collettiva nazionale di settore per ottenere (o conservare) l’accreditamento.

Tali decreti erano stati impugnati, con distinti ricorsi, da alcune strutture sanitarie private dinanzi al TAR Lazio che li aveva annullati in parte qua, rilevando che le relative disposizioni si ponevano al di fuori del perimetro tanto dei requisiti per l’accreditamento delle strutture sanitarie, previsti dall’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, quanto dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, che consente l’utilizzo di rapporti di collaborazione, specie per le professioni intellettuali tra le quali dovrebbero essere ascritte anche quelle infermieristiche, diversi da quelli di natura subordinata.

La medesima statuizione era confermata da successive decisioni del Consiglio di Stato che, in particolare, ha ritenuto indimostrata la correlazione tra la natura del rapporto di lavoro degli addetti alle strutture accreditate con la tutela della salute, essendo la tipologia del rapporto di lavoro, di contro, prevalentemente correlata al diverso ed eterogeneo tema della salvaguardia della stabilità occupazionale nel settore sanitario privato, interesse che, pur in astratto meritorio, avrebbe richiesto un’espressa previsione normativa primaria, che invece mancava nella normativa statale e regionale (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 27 settembre 2019, n. 6473).

5.– Nel contesto descritto si colloca, dunque, l’art. 9 della legge reg. Lazio n. 13 del 2018, attinto dalle questioni di legittimità costituzionale in esame, il quale, all’interno di una norma rubricata «Disposizioni di salvaguardia dell’occupazione nelle strutture che erogano attività sanitarie e socio sanitarie. Definizione agevolata in materia di controlli esterni in ambito sanitario», prevede, al comma 1, che «[a] tutela della qualità delle prestazioni erogate e del corretto rapporto tra costo del lavoro e quantificazione delle tariffe, il personale sanitario dedicato ai servizi alla persona, necessario a soddisfare gli standard organizzativi, dovrà avere con la struttura un rapporto di lavoro di dipendenza regolato dal Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario».

È questa (l’art. 9, comma 1) una disposizione isolata, nell’ambito della legge regionale di stabilità per il 2019, diversa anche da quelle dettate dai successivi commi (da 2 a 5), che riguardavano la definizione agevolata in materia di controlli esterni in ambito sanitario, uno dei quali (il comma 2) è, peraltro, stato oggetto di una pronuncia di illegittimità costituzionale (sentenza n. 217 del 2020), in accoglimento del ricorso del Governo.

Con la disposizione censurata il legislatore regionale ha inteso approntare un fondamento normativo all’analoga regola già posta dal decreto commissariale, annullato in sede giurisdizionale. Ma ciò ha fatto – secondo il Consiglio di Stato rimettente – violando per un verso le regole sul riparto di competenze tra Stato e Regione e, per l’altro, i principi di ragionevolezza e proporzionalità, quanto ai possibili limiti alla libertà di iniziativa economica privata.

6.– Tutto ciò premesso, passando ora a esaminare nel merito le censure mosse dall’ordinanza di rimessione, le questioni che investono il riparto delle competenze tra Stato e Regioni (art. 117, secondo comma, lettera l, e terzo comma, Cost.) vanno dichiarate non fondate.

6.1.– Al riguardo, il Consiglio di Stato rimettente assume, in primo luogo, che la prescrizione, da parte della disposizione censurata, dell’ulteriore condizione relativa all’assunzione del personale dedicato alla cura della persona, ai fini dell’accreditamento, travalicherebbe il perimetro della competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile» (art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.), anche perché essa contempla il recepimento di determinati accordi sindacali per la disciplina dei rapporti di lavoro con le strutture accreditate.

In proposito è ben vero quanto ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui la disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati deve essere assoggettata a regole che ne garantiscano l’uniformità a livello nazionale (sentenze n. 39 del 2022, n. 25 e n. 20 del 2021 e n. 194 del 2020), sicché il legislatore regionale non può emanare una normativa che incida su un rapporto di lavoro già sorto e che, nel regolarne il trattamento giuridico ed economico, si sostituisca a quella statale e, per essa, alla contrattazione collettiva (sentenze n. 153 del 2021, n. 78 e n. 16 del 2020). Rientrano, infatti, nella materia «ordinamento civile» gli interventi legislativi che dettano misure relative a rapporti lavorativi già in essere e che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità (vedi, da ultimo, sentenza n. 9 del 2022).

La disposizione censurata, tuttavia, non invade la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, in quanto non regola – né direttamente, né indirettamente – i rapporti di lavoro già in essere tra le strutture sanitarie e i propri addetti, né estende ad essi l’applicazione di determinati contratti collettivi, bensì si limita a contemplare un requisito per il raggiungimento da parte delle strutture sanitarie degli standard organizzativi necessari a conseguire o a conservare l’accreditamento.

Essa «non definisce diritti e obblighi di un rapporto di lavoro già sorto, ma si colloca in una fase organizzativa, antecedente allo stesso» (sentenza n. 241 del 2021; in senso conforme, sentenze n. 36 del 2021, n. 77 del 2020 e n. 20 del 2020).

Si tratta, dunque, di una previsione incidente sull’organizzazione sanitaria, che è parte integrante della materia costituita dalla «tutela della salute», riconducibile alla competenza concorrente di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost., «costituendo le modalità di organizzazione del servizio sanitario la cornice funzionale ed operativa che garantisce la qualità e l’adeguatezza delle prestazioni erogate» (sentenza n. 9 del 2022).

Non rientra, pertanto, nella competenza statale esclusiva nella materia «ordinamento civile» e deve essere piuttosto ricondotta a quella concorrente «tutela della salute» una misura, come quella recata dalla disposizione censurata, che pone un requisito ulteriore per l’accreditamento delle strutture sanitarie nel contesto dell’organizzazione del servizio sanitario regionale.

6.2.– Né può ritenersi che la Regione abbia superato i limiti della propria competenza concorrente in materia di «tutela della salute», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., stabilendo detto ulteriore requisito per l’accreditamento.

È la stessa legislazione statale a prevedere, infatti, che la Regione, quale soggetto deputato al rilascio del provvedimento di accreditamento delle strutture sanitarie, possa introdurre requisiti di qualificazione ulteriori rispetto a quelli a tal fine contemplati dall’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992.

Come è stato più volte sottolineato da questa Corte, l’individuazione di detti requisiti deve avvenire nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato (sentenze n. 195 e n. 36 del 2021 e n. 161 del 2016).

Costituiscono in particolare principi fondamentali in materia di tutela della salute le disposizioni dettate dagli artt. 8-ter, 8-quater e 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992 in tema di autorizzazioni e accreditamenti, con le quali il legislatore statale ha inteso vincolare le strutture socio-sanitarie private all’osservanza di requisiti essenziali, dai quali far dipendere l’erogazione di prestazioni riferite alla garanzia di un diritto fondamentale come quello alla salute (sentenza n. 106 del 2020).

Alla stregua di quanto già evidenziato, l’art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992 demanda proprio alle Regioni l’individuazione di requisiti ulteriori, sia sul piano tecnico che su quello organizzativo, modulati anche secondo la tipologia delle prestazioni erogate dalle singole strutture.

È quindi la stessa normativa statale a limitarsi a dettare i principi generali, consentendo per il resto l’autonomo esplicarsi delle competenze normative regionali negli aspetti di dettaglio riguardanti (anche) l’organizzazione del servizio.

In particolare sono organizzativi, e nel loro ambito si colloca quello prescritto della disposizione censurata, anche i requisiti che attengono al personale delle strutture sanitarie, i quali – come riconosciuto dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 12 ottobre 2020, n. 6102) – devono garantire adeguate condizioni di organizzazione interna, con riferimento alla dotazione quantitativa e alla qualificazione professionale del personale effettivamente impiegato.

6.3.– Neppure vi è stato sconfinamento nell’esercizio della potestà legislativa riconosciuta alla Regione dall’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di «tutela e sicurezza del lavoro», avendo la disposizione censurata un contenuto e una finalità di promozione attiva dell’occupazione e non già di regolamentazione del rapporto.

Il prescritto requisito per l’accreditamento, pur avendo ad oggetto la tipologia del rapporto di lavoro del personale che opera nelle strutture sanitarie, è volto a garantire la maggiore idoneità di queste ultime ad erogare prestazioni di cura della persona e solo indirettamente favorisce il rapporto di dipendenza, in sintonia peraltro con la disciplina statale, secondo cui il «contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro» (art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015).

La disposizione censurata rappresenta, quindi, una misura ascrivibile, seppur di riflesso, alle politiche attive del lavoro, non precluse al legislatore regionale nel rispetto dei princìpi fondamentali posti dalla legislazione dello Stato. Del resto, la stessa normativa statale (art. 11 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, recante «Disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e di politiche attive, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 10 dicembre 2014, n. 183») riconosce, al comma 2, alle Regioni le «competenze in materia di programmazione di politiche attive del lavoro», con particolare riferimento alla «identificazione della strategia regionale per l’occupazione».

Ciò però – com’è di tutta evidenza – non esonera il legislatore regionale dal rispetto di altri parametri non attinenti alla competenza, quali nella specie gli artt. 3 e 41 Cost., la cui violazione è parimenti denunciata nell’ordinanza di rimessione.

7.– Sono, invece, fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., le quali – per essere strettamente connesse – possono essere esaminate congiuntamente.

7.1.– L’iniziativa economica privata, come enuncia il primo comma dell’art. 41 Cost., è oggetto di una libertà garantita, nella cui protezione si esprime, quale principio generale di ispirazione liberista, la tutela costituzionale dell’attività d’impresa, pur nel rispetto dell’«utilità sociale» con cui non può essere in contrasto (secondo comma dell’art. 41).

In simmetria con il parametro interno, la libertà di impresa – da leggere oggi anche alla luce dei Trattati e, in generale, del diritto dell’Unione europea (sentenza n. 218 del 2021) – è riconosciuta, altresì, dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE).

Le possibili limitazioni di tale libertà devono, innanzi tutto, avere una base legale, stante «la regola della riserva di legge nel campo delle private libertà nella materia economica, comprensive della libertà di iniziativa» (sentenza n. 40 del 1964); regola per cui le «determinazioni della legge […] possono essere diverse anche di contenuto, a seconda della natura dell’attività economica e della utilità sociale da perseguire ma non possono mai mancare del tutto» (sentenza n. 388 del 1992).

Inoltre, il bilanciamento tra lo svolgimento dell’iniziativa economica privata e la salvaguardia dell’utilità sociale deve rispondere, in ogni caso, ai principi di ragionevolezza e proporzionalità (art. 3, primo comma, Cost.).

Si tratta di una «complessa operazione di bilanciamento» per la quale vengono in evidenza «il contesto sociale ed economico di riferimento», «le esigenze generali del mercato in cui si realizza la libertà di impresa», nonché «le legittime aspettative degli operatori» (sentenza n. 218 del 2021).

Nel rispetto di tali principi non è «configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale» (ancora, sentenza n. 218 del 2021).

Se è vero, quindi, che la libertà di impresa può essere limitata in ragione di tale bilanciamento, tuttavia, come ha più volte sottolineato questa Corte, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale non deve essere arbitraria e, per un altro, gli interventi del legislatore non possono perseguirla con misure palesemente incongrue (ex plurimis, sentenze n. 85 del 2020, n. 151 e n. 47 del 2018, n. 16 del 2017, n. 203 del 2016, n. 56 del 2015, n. 247 e n. 152 del 2010 e n. 167 del 2009).

Questi principi devono essere rispettati anche nella disciplina legislativa di un’attività economica privata integrata in un pubblico servizio. Essa, infatti, è pur sempre espressione della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost.

Peraltro, anche in tale evenienza, gli interventi del legislatore, pur potendo incidere sull’organizzazione dell’impresa privata, non possono perseguire l’utilità sociale con prescrizioni eccessive, tali da «condizionare le scelte imprenditoriali in grado così elevato da indurre sostanzialmente la funzionalizzazione dell’attività economica […], sacrificandone le opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio e l’oggetto delle stesse scelte organizzative» (sentenza n. 548 del 1990) o in maniera arbitraria e con misure palesemente incongrue (sentenza n. 56 del 2015).

7.2.– Nella fattispecie in esame, la disposizione censurata (art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018) costituisce una specificazione dei «requisiti ulteriori», necessari, oltre i «requisiti minimi», affinché le strutture sanitarie private possano conseguire l’accreditamento e quindi si lega, in linea di continuità, alla legge reg. Lazio n. 4 del 2003, la quale – come si è già sopra rilevato – rappresenta la cornice normativa in materia di autorizzazione alla realizzazione di strutture e all’esercizio di attività sanitarie e socio-sanitarie, di accreditamento istituzionale e di accordi contrattuali, quale specificazione di quella di principio posta dalla legislazione statale (artt. 8-bis, 8-ter e 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992).

I requisiti minimi e quelli ulteriori (previsti rispettivamente dell’art. 5 e dall’art. 13 della legge reg. Lazio n. 4 del 2003) costituiscono essi stessi elementi indicatori dell’idoneità all’attività di cura della salute della persona che la struttura intende svolgere e in relazione alla quale essa domanda l’accreditamento.

Quindi il fine di utilità sociale che viene in rilievo, come possibile limite della libertà di attività economica privata, è di tipo sanitario. Appartiene, come specificazione relativa all’accreditamento, alla più generale finalità che persegue il Servizio sanitario regionale, nel quale la struttura accreditata va a integrarsi una volta stipulato l’accordo contrattuale, di cui all’art. 18 della legge reg. Lazio n. 4 del 2003.

In quest’ottica si colloca anche la prescrizione posta dalla disposizione censurata che concerne sì il rapporto di lavoro del personale delle strutture accreditate, e quindi anche la tutela di quest’ultimo, ma pur sempre nella misura in cui ciò non pregiudica irragionevolmente la libertà di iniziativa economica privata e il fine stesso della cura della salute.

La competenza regionale, quantunque concorrente, in materia di tutela e sicurezza del lavoro legittima in linea di massima – come si è già detto – la previsione di un requisito ulteriore che attenga al rapporto di impiego del personale delle strutture accreditate, ma solo nella misura in cui ciò sia coerente con il perseguimento del fine sociale ultimo di una siffatta prescrizione.

L’art. 17-bis della legge reg. Lazio n. 4 del 2003, come visto, già prevede – in termini generali, ma proprio con riferimento all’autorizzazione alla realizzazione di strutture e all’esercizio di attività sanitarie e socio-sanitarie – specifiche norme di tutela dell’occupazione, stabilendo in particolare che nell’ambito dei processi di accreditamento istituzionale la Giunta regionale opera per salvaguardare i livelli occupazionali del settore. Anche sotto questo profilo è già previsto che, al fine (pur indiretto) della tutela del lavoro, l’attività regolatoria della Regione possa esplicarsi, in modo più mirato e flessibile, con atti di natura amministrativa.

Viceversa, la disposizione censurata detta una prescrizione di normazione primaria, molto puntuale e rigida, quella appunto che richiede che il « personale sanitario dedicato ai servizi alla persona» – ossia tutto tale personale, senza né eccezioni né graduazione in relazione alle varie figure professionali e alle relative mansioni e funzioni – abbia con la struttura un «rapporto di lavoro di dipendenza», connotato quindi dalla subordinazione, per di più regolato da una determinata contrattazione collettiva (quella posta dal CCNL sottoscritto dalle associazioni maggiormente rappresentative nel settore sanitario).

Una così penetrante limitazione del potere organizzativo dell’imprenditore, titolare della struttura che ambisce all’accreditamento, risulta anche non coerente con il fine sociale della tutela della salute e non proporzionata al suo perseguimento. Sono infatti ipotizzabili, come idonei a tal fine, soprattutto per alcune figure professionali di alta qualificazione nel settore sanitario, rapporti di lavoro autonomo di cui al Titolo III del Libro V del codice civile (art. 1 della legge 22 maggio 2017, n. 81, recante «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato»), né possono escludersi rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente (art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015).

Nel quadro delle tipologie di rapporto di impiego privato, infatti, il lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la «forma comune» di rapporto di lavoro (art. 1 del d.lgs. n. 81 del 2015), ma non già quella esclusiva, come invece richiede la disposizione censurata.

A ciò si aggiunge che, nella particolare fattispecie dell’accreditamento delle strutture sanitarie private, un requisito ulteriore, attinente alla tipologia del rapporto di lavoro del personale impiegato nella struttura, non può non richiedere comunque una qualche flessibilità per essere in sintonia e adattarsi all’atto programmatorio, adottato di volta in volta dalla Giunta regionale, nell’ambito del piano sanitario regionale (art. 2 della legge reg. Lazio n. 4 del 2003).

Del resto, finanche la stessa circolare, investita dall’impugnazione oggetto del giudizio principale, pur mirata a dare attuazione alla disposizione censurata, non arriva a farne una piena applicazione quanto, sia alle figure professionali interessate (perché essa riguarda soltanto operatori sanitari con qualifica di infermiere, terapista della riabilitazione, ostetrica e altra equivalente o similare), sia alla percentuale complessiva di tale personale (perché concerne non già la totalità, ma fino all’80 per cento, dell’organico necessario), sia alla contrattazione collettiva richiamata (perché si fa riferimento, in alternativa, alla garanzia di condizioni economiche e giuridiche non inferiori).

La tutela del lavoro può anche essere perseguita nel contesto dell’organizzazione del servizio sanitario regionale, ma pur sempre nel bilanciamento tra la libertà di iniziativa privata e il fine sociale della tutela della salute. Viceversa, con la disposizione censurata il legislatore regionale ha introdotto, con una prescrizione rigida e generalizzata, un requisito ulteriore per l’accreditamento, senza alcuna graduazione risultante dal bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco. E anzi, una siffatta previsione finisce finanche per escludere la possibilità degli stessi operatori sanitari di prestare la propria attività con contratto di collaborazione o di lavoro autonomo presso strutture accreditate.

Emerge così il difetto di ragionevolezza e proporzionalità, rispetto al fine sociale ultimo della tutela della salute, di un siffatto rigido requisito ulteriore, quale previsto dalla disposizione censurata come condizione per l’accreditamento di strutture operanti nel contesto del piano sanitario regionale. Ciò si traduce in un limite irragionevole alla libertà di iniziativa economica privata.

7.3.– In definitiva, la disposizione censurata, ponendo una regola non già tendenziale e modulabile, bensì rigida e assoluta, risulta essere in contrasto con il canone della ragionevolezza e proporzionalità dell’intervento normativo rispetto al fine sociale perseguito (art. 3 Cost.) e limita eccessivamente la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.).

8.– Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018.

Rimane comunque per la Regione – nell’ambito delle sue competenze in tema di accreditamento delle strutture sanitarie, esercitate mediante un equilibrato bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica privata e i fini sociali, in particolare quello della tutela della salute – la possibilità di fissare, quale requisito ulteriore per l’accreditamento, standard organizzativi più idonei anche quanto al rapporto di impiego del personale necessario per l’erogazione delle prestazioni sanitarie.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della Regione Lazio 28 dicembre 2018, n. 13 (Legge di stabilità regionale 2019);

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge della reg. Lazio n 13 del 2018 – sollevata, con riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione al «principio di ragionevolezza e proporzionalità» della normativa dell’Unione europea – dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione terza, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, della legge reg. Lazio n. 13 del 2018, sollevate, in relazione agli artt. 117, commi secondo, lettera l), e terzo, Cost., dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione terza, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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