Corte Costituzionale, Sentenza n.126 del 24/05/2022

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SENTENZA N. 126

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, 13, 17 e 25 della legge della Regione Lombardia 25 maggio 2021, n. 8 (Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27 luglio 2021, depositato in cancelleria il 29 luglio 2021, iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2021 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia;

udito nell’udienza pubblica del 6 aprile 2022 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

uditi l’avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Maria Lucia Tamborino per la Regione Lombardia;

deliberato nella camera di consiglio del 6 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso iscritto al n. 41 del reg. ric. 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, 13, 17 e 25 della legge della Regione Lombardia 25 maggio 2021, n. 8 (Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021), deducendo la violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettere d) e s), della Costituzione.

1.1.– La prima questione ha ad oggetto l’art. 5 della predetta legge regionale, che dispone una modifica del comma 4 dell’art. 23 della legge della Regione Lombardia 1° aprile 2015, n. 6 (Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana). La modifica consiste nell’aggiunta delle parole «, guanti tattici imbottiti antitaglio, dissuasori di stordimento a contatto, pistole al peperoncino, termoscanner portatili, mefisti, mascherine, previa adeguata formazione», sicché il testo del citato art. 23, comma 4, come modificato, risulta essere il seguente: «[i] corpi e i servizi di polizia locale possono altresì dotarsi di manette, giubbotti antitaglio, giubbotti antiproiettile, cuscini per il trattamento sanitario obbligatorio (TSO), caschi di protezione, guanti tattici imbottiti antitaglio, dissuasori di stordimento a contatto, pistole al peperoncino, termoscanner portatili, mefisti, mascherine, previa adeguata formazione, e altri dispositivi utili alla tutela dell'integrità fisica degli operatori».

La modifica legislativa, secondo il ricorrente, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost., che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di armi. Il legislatore statale, attraverso le previsioni degli artt. 5 e 6 della legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), avrebbe operato «una summa divisio tra “armamento” vero e proprio ed altri “mezzi e strumenti operativi” di cui la polizia locale può essere provvista». Da un lato, dunque, il comma 5 dell’art. 5 della legge n. 65 del 1986 ha stabilito – anche tramite rinvio ad un regolamento, poi approvato con decreto del Ministro dell’interno 4 marzo 1987, n. 145 (Norme concernenti l’armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza) – la tipologia e il numero delle armi in dotazione a tale personale, nonché le condizioni che legittimano il porto delle stesse. Dall’altro lato, l’art. 6, comma 2, numero 5), della legge n. 65 del 1986 ha rimesso alle Regioni la disciplina riguardante gli «altri strumenti operativi» in dotazione ai Corpi o ai servizi, diversi da quelli la cui destinazione naturale sia l’offesa alla persona. Simile riparto di competenza, peraltro, avrebbe trovato conferma nella sentenza di questa Corte n. 167 del 2010.

Secondo il ricorrente, pertanto, «alcune» delle previsioni introdotte dalla disposizione impugnata invaderebbero la competenza statale così indicata: si tratterebbe, segnatamente, di quella che prevede la possibilità di dotare la polizia locale di «dissuasori di stordimento a contatto». Simile espressione, infatti, farebbe riferimento «a dispositivi rientranti nella categoria delle “armi comuni ad impulso elettrico”», quali menzionate dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132.

Del resto, anche secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, lo «storditore elettrico» andrebbe considerato, a tutti gli effetti, come arma comune, trattandosi di «strumento naturalmente destinato ad offendere l’eventuale aggressore». È pur vero – osserva il ricorrente – che l’art. 19 del d.l. n. 113 del 2018 ha previsto la possibilità di una sperimentazione, da avviare presso la Polizia locale, avente ad oggetto le armi comuni ad impulso elettrico, ma ciò sulla base di condizioni predefinite e all’esito di una procedura che vede coinvolta la Conferenza unificata (ossia la Conferenza Stato-città ed autonomie locali e la Conferenza Stato-Regioni) e l’adozione di un apposito decreto ministeriale. Al di fuori di tale procedura, per converso, gli operatori della Polizia locale non avrebbero la possibilità di utilizzare i dispositivi in questione.

Il ricorrente richiama l’art. 4, primo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), che proibisce il porto degli strumenti di dissuasione mediante stordimento. Con questa norma il legislatore statale avrebbe esercitato la propria competenza legislativa esclusiva nella materia de qua, entro un perimetro non valicabile dal legislatore regionale. Del resto – osserva il ricorrente – anche a voler sostenere che i «dissuasori di stordimento a contatto» non siano qualificabili come arma ad impulso elettrico (giacché inidonei al lancio di dardi o freccette), «essi non sarebbero comunque annoverabili nella categoria degli “strumenti di tutela”, ma piuttosto in quella delle armi proprie», loro destinazione primaria essendo quella dell’offesa alla persona (ancorché a scopo difensivo).

1.2. – Con il secondo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, che modifica l’art. 22 della legge della Regione Lombardia 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria). La modifica consiste nell’aggiunta delle parole «dopo gli abbattimenti o l’avvenuto recupero» nel testo del comma 7 del citato art. 22, il quale, come integrato dalla novella, così adesso dispone: «[i] capi di selvaggina migratoria vanno annotati sul tesserino venatorio, in modo indelebile, sul posto di caccia dopo gli abbattimenti o l’avvenuto recupero».

Il ricorrente deduce la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto la disposizione impugnata, nel subordinare le annotazioni sul tesserino venatorio al preventivo recupero dell’animale, abbasserebbe la soglia di protezione stabilita dalla legislazione statale. Viene fatto riferimento all’art. 12, comma 12-bis, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), che così dispone: «[l]a fauna selvatica stanziale e migratoria abbattuta deve essere annotata sul tesserino venatorio di cui al comma 12 subito dopo l’abbattimento».

Il ricorrente ricorda che, con sentenza n. 291 del 2019, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della previgente formulazione dell’art. 22, comma 7, della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993, limitatamente alle parole «dopo gli abbattimenti e l’avvenuto recupero». La motivazione di tale decisione aveva posto l’accento sulla tempestività dell’annotazione degli abbattimenti, precisando che essa deve avvenire subito dopo l’abbattimento. Secondo il ricorrente, la ratio dell’art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157 del 1992 sarebbe da rinvenire nella necessità di “chiudere” una procedura di infrazione avviata nei confronti dell’Italia (caso EU Pilot 6955/14/ENVI) in merito all’attività di monitoraggio del prelievo venatorio, «in relazione al quale era stata riscontrata l’esistenza di una variegata legislazione regionale, che consentiva di differire, con riferimento alle sole specie migratorie, l’annotazione degli abbattimenti al termine della giornata di caccia». Secondo la Commissione europea, l’assenza di una regolamentazione omogenea comportava difficoltà nei controlli da parte delle autorità competenti, rendendo inattendibili i dati raccolti a causa del tempo che trascorreva tra l’abbattimento e l’annotazione. La norma statale richiamata, pertanto, andrebbe considerata come una soglia minima di protezione ambientale, non derogabile dalle Regioni neppure nell’esercizio della loro competenza legislativa in materia di caccia, salva la possibilità di prescrivere livelli di tutela ambientale più elevati (è citata, tra le altre, la sentenza di questa Corte n. 249 del 2019).

1.3.– Con il terzo motivo di ricorso viene impugnato l’art. 17, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, che aggiunge le parole «in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo» nel testo del comma 1 dell’art. 26 della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993. Il testo di risulta è il seguente: «[a]cquisito il parere dell’istituto nazionale per la fauna selvatica, con regolamento adottato secondo le competenze stabilite dallo Statuto sono disciplinate, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, l’allevamento, la vendita e la detenzione di uccelli allevati appartenenti alle specie cacciabili muniti di anellini inamovibili in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo rilasciati dalla Regione o dalla provincia di Sondrio per il relativo territorio anche avvalendosi di associazioni, enti ed istituti ornitologici legalmente riconosciuti a livello regionale, nazionale e internazionale, nonché il loro uso in funzione di richiami per la caccia da appostamento».

Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto la novella regionale sarebbe in contrasto con l’art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992, che – nello stabilire che «[è] vietato l’uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia» – fisserebbe standard minimi e uniformi di tutela della fauna.

La disposizione censurata consentirebbe, infatti, l’impiego di una fascetta inamovibile «per l’identificazione dei richiami vivi», realizzata con materiale plastico, o altro materiale «idoneo», al posto dell’unico contrassegno ammesso dalla normativa statale (ossia, l’anello inamovibile numerato).

Il ricorso richiama la ratio della previsione statale, che impone l’anello inamovibile numerato al fine di distinguere i legittimi richiami vivi da allevamento rispetto alle marcature apposte, in maniera fraudolenta, su esemplari catturati illecitamente in natura. L’anello – precisa il ricorrente – è apponibile «solo nei primi giorni di vita degli esemplari, rimanendo inamovibile alla crescita dell’animale nei giorni successivi».

Ciò premesso, il ricorrente contesta specificamente sia la previsione che si riferisce ad «ogni altro materiale idoneo», di per sé atta a consentire alla Regione di «determinare la sussistenza di una non meglio identificata idoneità dei materiali», sia la previsione che si riferisce specificamente al materiale in plastica il quale, a differenza del metallo, «potrebbe […] essere allargato e modificato facilmente, consentendo di applicare al tarso di un soggetto di cattura anellini deformati e utilizzabili in modo illegale». Del resto – si legge nel ricorso – «la plastica non offre le garanzie del metallo in quanto è soggetta a deformarsi nel tempo, consentendo anche la modifica della stampigliatura dei dati dell’allevatore, dell’anno di nascita, del soggetto e numero progressivo».

Con sentenza n. 441 del 2006 questa Corte avrebbe ribadito sia «[l]a tassatività dell’utilizzo dell’anello identificativo inamovibile», sia «la esclusività in capo allo Stato» del potere di determinare gli «“standard minimi e uniformi” in materia di tutela della fauna». Il ricorrente aggiunge che gli anelli in metallo, del resto, «non sono ammessi dai regolamenti internazionali e dalla Confederazione Ornitologica Mondiale per mostre e fiere ornitologiche».

1.4.– Con ulteriore e separato motivo, viene impugnata anche la lettera b) del comma 1 dell’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, che ha disposto l’abrogazione dei commi 5-bis e 5-quater dell’art. 26 della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993.

Il ricorrente osserva che, mediante tale abrogazione, il legislatore regionale ha soppresso la banca dati regionale dei richiami vivi di cattura e di allevamento, appartenenti alle specie di cui all’art. 4 della legge n. 157 del 1992, detenuti dai cacciatori per la caccia da appostamento.

Viene lamentata la violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost., in quanto la Regione avrebbe contravvenuto «al formale impegno a suo tempo assunto al fine di ottenere l’archiviazione della citata procedura PILOT». Il riferimento è alla procedura di infrazione EU Pilot 1611/10/ENVI, avviata nei confronti dell’Italia dalla Commissione europea «per non corretta applicazione della Direttiva Uccelli» (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 30 novembre 2009, n. 2009/147/CE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici), con la quale era stata contestata all’Italia la violazione dell’art. 8, in combinato disposto con l’Allegato IV, della menzionata direttiva, «che prescrive agli Stati membri di vietare il ricorso a qualsiasi mezzo, impianto o metodo di cattura o di uccisione di massa o non selettiva o che possa portare localmente all’estinzione di una specie, in particolare di quelli elencati all’allegato IV, lettera a)».

Il legislatore lombardo, mediante le previsioni inserite dall’art. 14 della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2014, n. 14, recante «Modifiche alla legge regionale 21 novembre 2011, n. 17 (Partecipazione della Regione Lombardia alla formazione e attuazione del diritto dell’Unione europea). Legge comunitaria regionale 2014 (Legge europea regionale 2014) – Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Lombardia derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea: attuazione della Direttiva 2005/36/CE, della Direttiva 2006/123/CE, della Direttiva 2011/92/UE, della Direttiva 2009/147/CE, della Direttiva 2011/36/UE e della Direttiva 2011/93/UE», aveva per l’appunto introdotto la banca dati regionale dei richiami vivi proprio al fine – come si legge nel ricorso – «di garantire le condizioni previste dall’articolo 9, comma 1, lettera c) della Direttiva» n. 2009/47/CE. L’abrogazione di quelle previsioni, disposta dalla norma impugnata, violerebbe pertanto sia il primo comma dell’art. 117 Cost., sia il secondo comma, lettera s).

1.5.– Con l’ultimo motivo viene impugnato l’art. 25 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, che modifica l’art. 48, comma 6-bis, della legge regionale n. 26 del 1993 mediante la sostituzione di alcune parole con le seguenti: «[l]’attività di vigilanza e controllo sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo di cui ai commi 1, 1-bis e 3 dell’articolo 26 è svolta verificando unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare e deve essere effettuata».

Viene dedotta la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto il legislatore regionale avrebbe in tal modo modificato in peius il livello di tutela della fauna selvatica, stabilito dalla fonte nazionale attraverso gli artt. 5, comma 7, 27 e 28 della legge n. 157 del 1992. In particolare, per effetto della novella introdotta, risulterebbe limitata «la funzione dell’agente accertatore», il quale sarebbe costretto «a verificare “unicamente la presenza dell’anellino”», senza cioè alcuna possibilità «di maneggiare l’animale». Gli sarebbe pertanto impedito «di verificare sia la sussistenza del requisito della inamovibilità dell’anello, sia la numerazione che sullo stesso deve essere indicata».

A giudizio del ricorrente, risulterebbe così pregiudicato «l’ambito della funzione di vigilanza e controllo in materia faunistico-venatoria, svolta dagli agenti di vigilanza sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo». L’assunto è che, a seguito della modifica introdotta, le attività di controllo e di vigilanza sarebbero destinate a verificare «unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare di uccello da richiamo», con conseguente «oggettiva limitazione alla possibilità, per il personale di vigilanza, di espletare compiutamente la propria attività di pubblico interesse». Quanto precede finirebbe per favorire «comportamenti idonei a rendere non identificabili i richiami vivi». Il ricorrente richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di reato di uso di mezzi di caccia vietati, «nel caso di richiami vivi non identificabili tramite anello inamovibile» (fattispecie, a suo dire, riconducibile alla previsione di cui all’art. 30, lettera h, della legge n. 157 del 1992), nonché in tema di contraffazione degli anelli identificativi (riconducibile alla previsione di cui all’art. 468, numero 2, del codice penale).

2.– Si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, chiedendo che il ricorso statale sia dichiarato inammissibile o non fondato.

2.1.– Quanto alla prima questione, concernente la legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, la resistente osserva preliminarmente che il ricorso statale limita espressamente la richiesta di declaratoria di illegittimità alla sola parte della norma che si riferisce ai dissuasori di stordimento a contatto: pertanto, precisa la resistente, «alcune argomentazioni svolte dal Governo sul testo della disposizione regionale non possono trovare ingresso laddove non riguardino i dissuasori di stordimento a contatto».

Ciò premesso, a parere della resistente sarebbe «facile una diversa interpretazione» della disposizione impugnata, il cui «evidente» scopo consisterebbe «nell’ampliamento del novero degli strumenti di autotutela impiegabili dagli appartenenti alla polizia locale». La norma, in sostanza, si occuperebbe non di armi, ma solo di strumenti di autotutela, giusta anche la rubrica dell’articolo che essa va a modificare (l’art. 23 della legge reg. Lombardia n. 6 del 2015 è, infatti, rubricato «Strumenti di autotutela»).

Con la locuzione «dissuasori di stordimento a contatto», invero, il legislatore regionale avrebbe inteso riferirsi alla cosiddetta “stungun”, ossia ad un dispositivo che, a differenza del “taser” (classificato come arma), è caratterizzato dalla mancanza di una forza propulsiva ed esplosiva di dardi che colpiscano a distanza. Viene richiamata, a sostegno della sostenuta differenza tra stungun e taser, la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 6 febbraio 2019, n. 5830.

Come emergerebbe dalla relazione illustrativa dell’emendamento di iniziativa consiliare (depositato in giudizio), i dissuasori di stordimento a contatto «sono dunque strumenti nominalmente e sostanzialmente (anche nelle modalità d’uso) diversi dai taser e il loro uso sarà consentito solo qualora siano utilizzati dispositivi idonei a non recare un danno o offesa alla persona», senza che ciò possa, in alcun modo, avallare l’uso di dispostivi assimilabili alle armi. La Regione fa peraltro notare che la stessa legge regionale oggetto di impugnativa prevede, per gli agenti di polizia locale, lo svolgimento di apposita formazione obbligatoria «propedeutica alla concessione in uso di tutti gli strumenti introdotti con la disposizione in esame, compresi i dissuasori di stordimento a contatto».

Pur rimarcando che la norma impugnata si inserisce in un composito quadro normativo, che favorisce scelte rimesse all’autonomia comunale (è richiamato l’art. 19 del d.l. n. 113 del 2018) e che, al contempo, richiede un previo accordo generale sancito in sede di Conferenza unificata ai sensi dell’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali), la resistente osserva che, in ogni caso, quello stesso quadro normativo si riferirebbe solo alle «armi» e non anche a strumenti di natura diversa.

2.2.– In ordine, poi, alla seconda questione, concernente l’impugnazione dell’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, la Regione resistente richiama l’evoluzione normativa che ha introdotto, nel tempo, molteplici modifiche all’originario testo dell’art. 22, comma 7, della legge regionale n. 26 del 1993. Viene ricordato che, prima ancora della disposizione impugnata, la precedente formulazione della norma – quale introdotta dall’art. 15, comma 1, lettera j), della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17 (Legge di revisione normativa e di semplificazione 2018) – disponeva che le annotazioni dei capi di selvaggina dovessero essere compiute «dopo gli abbattimenti e l’avvenuto recupero». La sentenza n. 291 del 2019 di questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale inciso, non accogliendo le difese regionali in quella sede spiegate, le quali avevano propugnato un’interpretazione della norma nel senso che essa «si limitava a prevedere che l’annotazione dovesse essere apposta sul libretto dopo l’abbattimento per i capi effettivamente abbattuti ovvero dopo il recupero nei casi dubbi, ossia nei casi in cui il cacciatore avesse rinvenuto un capo che non era sicuro di avere abbattuto al momento dello sparo o che fosse stato abbattuto da altri»). Nella menzionata decisione – fa notare la resistente – questa Corte ha ritenuto non fondata l’opzione interpretativa suggerita dalla Regione, perché essa trovava «ostacolo nel dato letterale della norma, che utilizza la congiunzione “e” e non la disgiunzione “o”, per precisare che l’annotazione va effettuata dopo l’abbattimento e l’avvenuto recupero».

Proprio al fine di recepire le indicazioni di questa Corte, il legislatore regionale del 2021 – a fronte «dell’impossibile reviviscenza della disposizione precedente», e quindi della necessità di colmare una lacuna che era stata determinata proprio dalla declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 291 del 2019 – ha introdotto un testo che utilizza la disgiunzione «o», in modo da consentire al cacciatore «di procedere ad una più corretta annotazione, anche rispetto a quei capi che lo stesso, per le più diverse ragioni, ritenga di non aver abbattuto»; ciò, «fermo restando comunque il rispetto del requisito dell’immediatezza, nei limitati casi in cui non vi sia certezza relativa all’effettivo abbattimento o al cacciatore che ha abbattuto il capo di selvaggina».

In definitiva, la norma impugnata realizzerebbe «un innalzamento del livello di tutela imposto dalla l. 157/1992, in quanto estende l’obbligo di annotazione anche ai casi – non previsti dalla legge statale – in cui non vi è certezza circa il soggetto o il “tempo” dell’abbattimento».

2.3.– In ordine alla terza questione, concernente l’impugnazione dell’art. 17, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, la difesa regionale osserva che la norma statale invocata come parametro interposto – ossia, l’art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992 – stabilisce, bensì, il requisito dell’inamovibilità dell’anello, «ma nulla prescrive sul materiale». Le considerazioni svolte dal ricorrente avrebbero un «mero contenuto tecnico e non giuridico», e rimarrebbero del tutto generiche e apodittiche, anche laddove è invocata la sentenza di questa Corte n. 441 del 2006 (la quale, si sostiene, «non riguarda specificamente la fattispecie in giudizio»).

Non potrebbero, del resto, considerarsi alla stregua di prove né «l’opinione delle associazioni ornitologiche» né i regolamenti della Confederazione ornitologica mondiale (che, peraltro, sarebbero richiamati in modo del tutto generico dal ricorso e, comunque, «non ascrivibili al novero delle fonti normative idonee a vincolare il legislatore regionale»).

In definitiva, posto che la fonte statale «non pone alcun limite alla tipologia di materiali utilizzabili», ma si limita ad imporre la caratteristica della inamovibilità, sarebbe di conseguenza rimessa alle valutazioni regionali la disciplina sia della loro numerazione sia della «procedura in materia». In tal senso, dunque, la disposizione impugnata, assicurando la caratteristica della inamovibilità, non violerebbe alcun limite imposto dal legislatore statale.

2.4.– In ordine, poi, al motivo con cui è stata impugnata la lettera b) dell’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, concernente la soppressione della banca dati regionale dei richiami vivi, la difesa regionale osserva che la legge n. 157 del 1992 «non prevede in alcun modo la necessità che le Regioni si debbano dotare di uno strumento quale la banca dati in questione».

Rientrerebbe, pertanto, nella competenza regionale la disciplina dei controlli sull’utilizzo dei richiami vivi.

La resistente richiama la deliberazione della Giunta della Regione Lombardia 2 agosto 2013, n. 10/564 (Determinazioni in merito alla Banca dati regionale dei richiami vivi di cattura e di allevamento, appartenenti alle specie di cui all’art. 4 della legge n. 157/1992, detenuti dai cacciatori per la caccia da appostamento e in merito alle modalità di identificazione dei richiami vivi di cattura previste all’art. 5 della legge n. 157/1992), adottata un anno prima dell’entrata in vigore delle disposizioni oggi abrogate dalla norma impugnata, la quale non avrebbe «dato in pratica riscontri positivi». La resistente, inoltre, aggiunge che «dal 2014 non si catturano più richiami vivi».

2.5.– Infine, quanto all’impugnazione dell’art. 25 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, la resistente osserva che dalla lettura integrale del comma 6-bis dell’art. 48 della legge regionale n. 26 del 1993, come modificato dalla novella del 2021, emergerebbe che la norma si riferisca all’attività di vigilanza e di controllo avente ad oggetto gli «anellini inamovibili».

Ne deriverebbe che la verifica circa la «presenza», sull’animale, dell’anellino non dovrebbe essere intesa «come mera attività di osservazione finalizzata ad accertare che il tarso del richiamo vivo sia munito di un generico anello», ma che, al contrario, essa ricomprenderebbe «tutte le attività, anche manuali, necessarie ad accertare non solo che l’anellino sia “presente”, ma che sia anche effettivamente “inamovibile”».

In definitiva, l’operatore sarebbe chiamato a verificare, oltre alla presenza, anche l’inamovibilità dell’anellino, «potendo a tal fine svolgere tutte le attività necessarie, compresa la manipolazione del volatile». In tal modo, la disposizione impugnata si manterrebbe in linea con la disciplina in materia di vigilanza e controllo dettata dalla legge n. 157 del 1992, non potendosi neanche revocare in dubbio l’applicabilità delle fattispecie sanzionatorie.

Considerato in diritto

1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse disposizioni della legge della Regione Lombardia 25 maggio 2021, n. 8 (Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021), in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettere d) e s), della Costituzione.

2. – La prima questione ha ad oggetto l’art. 5 della richiamata legge regionale, che amplia il catalogo degli strumenti in dotazione ai corpi e ai servizi di polizia locale, includendovi, in particolare, i «dissuasori di stordimento a contatto», mediante la modifica dell’art. 23, comma 4, della legge della Regione Lombardia 1° aprile 2015, n. 6 (Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana). Il testo di risulta recita come di seguito: «[i] corpi e i servizi di polizia locale possono altresì dotarsi di manette, giubbotti antitaglio, giubbotti antiproiettile, cuscini per il trattamento sanitario obbligatorio (TSO), caschi di protezione, guanti tattici imbottiti antitaglio, dissuasori di stordimento a contatto, pistole al peperoncino, termoscanner portatili, mefisti, mascherine, previa adeguata formazione, e altri dispositivi utili alla tutela dell’integrità fisica degli operatori»; le parole aggiunte dalla disposizione impugnata sono quelle che vanno da «, guanti tattici» ad «adeguata formazione,».

La descritta modifica, a giudizio del ricorrente, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost., che riserva allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di armi.

2.1.– Preliminarmente, pur a fronte dell’impugnazione dell’intero art. 5 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, deve restringersi l’odierno thema decidendum in coerenza con la lesione effettivamente lamentata nel ricorso. La denunciata violazione del riparto costituzionale delle competenze legislative è invero riferita, dal ricorrente, unicamente all’introduzione, nel testo dell’art. 23, comma 4, della legge reg. Lombardia n. 6 del 2015, della previsione che concerne i «dissuasori di stordimento a contatto», i quali si assumono rientrare nella categoria delle «armi comuni ad impulso elettrico».

Come correttamente rilevato dalla difesa della Regione Lombardia, pertanto, l’odierna disamina deve essere limitata unicamente a tale previsione.

2.2.– Ancora in via preliminare, deve darsi conto di una modifica normativa che è sopravvenuta alla proposizione del ricorso. L’art. 21, comma 4, della legge della Regione Lombardia 16 dicembre 2021, n. 23 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2021), ha aggiunto, nel comma 4 dell’art. 23 della legge regionale n. 6 del 2015, le ulteriori, seguenti parole: «non qualificabili come armi ai sensi della normativa statale,», collocate dopo le parole «pistole al peperoncino».

La novità così introdotta, tuttavia, non determina alcun rilevante effetto sul sindacato domandato a questa Corte, né tantomeno essa può considerarsi satisfattiva, avuto riguardo all’odierno thema decidendum. L’inciso «non qualificabili come armi ai sensi della normativa statale,», per come è sintatticamente collocato nel testo di risulta della disposizione oggetto di odierno esame, si riferisce infatti, unicamente, alle «pistole al peperoncino», menzionate immediatamente prima, e non anche ai dissuasori di stordimento a contatto. Ne offrono conferma i lavori preparatori della legge regionale n. 23 del 2021, e in particolare la relazione al progetto di legge n. 195, di iniziativa del Presidente della Giunta regionale, in cui si legge che la modifica così introdotta mira a precisare «che le pistole al peperoncino sono quelle non qualificabili come armi ai sensi della normativa statale». Di conseguenza, nulla è stato innovato quanto alla specifica previsione dei dissuasori di stordimento a contatto, oggetto della presente disamina, e alla denunciata lesione in ordine al riparto costituzionale delle competenze legislative.

2.3.– Nel merito, al fine di intendere correttamente la disposizione impugnata, è necessario un breve inquadramento del panorama normativo in cui essa si inserisce.

Va anzitutto sottolineato, in punto di fatto, che l’espressione «a contatto», utilizzata dal legislatore regionale per precisare le modalità di funzionamento dei «dissuasori di stordimento», rende evidente che la disposizione medesima riguarda quei dispositivi dotati di carica elettrica che, nel linguaggio comune, sono conosciuti come “stungun”. La circostanza è confermata dalla lettura dei lavori preparatori della legge regionale n. 8 del 2021, e, in particolare, della relazione di accompagnamento al progetto di legge, nella quale si afferma che per «dissuasori di stordimento a contatto» si intendono, per l’appunto, gli apparecchi «comunemente chiamati “stungun”». Si tratta di quei dispositivi, sicuramente in grado di offendere l’incolumità delle persone, che funzionano mediante il rilascio di una scarica elettrica di stordimento nel momento in cui vengono a toccare fisicamente il corpo dell’offeso.

L’espressione così utilizzata non è esattamente corrispondente a quelle di recente adottate dal legislatore statale allorché, in più occasioni, e a diversi fini, esso ha inteso riferirsi a strumenti dotati di carica elettrica atti a determinare un effetto di stordimento nei confronti della persona contro cui sono diretti.

In ordine di tempo, viene anzitutto in considerazione l’art. 5, comma 1, lettera b), numero 1), del decreto legislativo 26 ottobre 2010, n. 204 (Attuazione della direttiva 2008/51/CE, che modifica la direttiva 91/477/CEE relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi), che ha aggiornato la fattispecie di divieto di porto d’armi di cui all’art. 4, primo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), inserendovi l’esplicito riferimento agli «storditori elettrici e altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione».

Successivamente, l’art. 8, comma 1-bis, del decreto-legge 22 agosto 2014, n. 119 (Disposizioni urgenti in materia di contrasto a fenomeni di illegalità e violenza in occasione di manifestazioni sportive, di riconoscimento della protezione internazionale, nonché per assicurare la funzionalità del Ministero dell’interno), nel testo originariamente inserito dalla legge di conversione 17 ottobre 2014, n. 146, nel dettare misure per l’ammodernamento di mezzi, attrezzature e strutture della Polizia di Stato, ha previsto l’avvio, «con le necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo princìpi di precauzione e previa intesa con il Ministro della salute», della sperimentazione «della pistola elettrica Taser». Veniva, qui, utilizzata la denominazione comune (“taser”) che – come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità – si riferisce ad un particolare dispositivo ad impulsi elettrici, funzionante (non direttamente a contatto con l’offeso, ma) mediante il lancio di «piccoli dardi che a contatto con l’offeso scaricano energia elettrica», con conseguente idoneità «a recare danno alla persona» (da ultimo, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 febbraio 2021, n. 4627; in precedenza, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 21 novembre 2016, n. 49325). Anche il Consiglio di Stato, in sede consultiva, ha precisato che il termine “taser”, utilizzato dall’originaria formulazione dell’art. 8, comma 1-bis, del d.l. n. 119 del 2014, come inserita dalla legge di conversione, si riferisce alla pistola, dotata di impulsi elettrici, che opera «con proiezione a corto raggio di due dardi che rimangono collegati all’arma per mezzo di fili conduttori» (Consiglio di Stato, sezione per gli atti normativi, parere 18 giugno 2020, n. 1198).

L’espressione «pistola elettrica Taser» è stata poi sostituita, dal legislatore statale, con le parole «arma comune ad impulsi elettrici». La novellazione si deve all’art. 19, comma 5, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132. Si tratta della medesima fonte che ha avviato, anche presso i corpi e i servizi di polizia locale, la «Sperimentazione di armi ad impulsi elettrici» (come si legge nella rubrica dell’art. 19 stesso), prevedendo la possibilità, presso i soli Comuni di maggiori dimensioni, di «dotare di armi comuni ad impulso elettrico, quale dotazione di reparto, in via sperimentale, per il periodo di sei mesi, due unità di personale, munito della qualifica di agente di pubblica sicurezza, individuato fra gli appartenenti ai dipendenti Corpi e Servizi di polizia locale» (comma 1). Siffatta dotazione, peraltro, è assistita da particolari cautele, richiedendosi la previa adozione di un regolamento comunale, «emanato in conformità alle linee generali adottate in materia di formazione del personale e di tutela della salute, con accordo sancito in sede di Conferenza unificata» (comma 1 dell’art. 19). Tale regolamento ha il compito di definire, «nel rispetto dei principi di precauzione e di salvaguardia dell’incolumità pubblica», le modalità della sperimentazione, che dovrà comunque svolgersi previo «periodo di adeguato addestramento del personale interessato» e «d’intesa con le aziende sanitarie locali competenti per territorio» (comma 2 dell’art. 19).

La normativa statale, dunque, non utilizza il termine «dissuasori», tantomeno «a contatto», ma impiega l’espressione omnicomprensiva di «armi comuni ad impulsi elettrici» (laddove prevede la sperimentazione, sia presso la Polizia di Stato, sia presso i corpi di polizia locale), ovvero di «storditori elettrici», affiancati però dalla locuzione, più generale, di «altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione» (laddove è stata aggiornata la fattispecie di divieto di porto d’armi).

Appare evidente che simili espressioni mirano a ricomprendere nella nozione di arma comune tutti i dispositivi ad impulso elettrico che siano in grado di determinare un effetto di stordimento nella persona contro la quale sono diretti, che funzionino o meno a contatto con la medesima. Particolarmente significativa, nel quadro evolutivo appena tracciato, è la sostituzione – nell’ambito della disciplina sulla sperimentazione di tali dispositivi presso la Polizia di Stato, di cui all’art. 19, comma 5, del d.l. n. 113 del 2018, come convertito – del previgente riferimento alla «pistola elettrica Taser» con l’attuale locuzione, certamente più estesa, di «arma comune ad impulsi elettrici» (tale, dunque, da abbracciare, oltre al “taser”, anche il diverso dispositivo conosciuto come “stungun”).

2.4.– Nel dettare le norme appena menzionate, il legislatore statale si è mosso nell’ambito della propria competenza legislativa esclusiva nella materia «armi», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost.

Tale ambito, peraltro, è strettamente connesso con quello dell’ordine pubblico e della sicurezza, pure appartenente alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Il legislatore nazionale, dunque, per un verso è titolare della competenza esclusiva a stabilire cosa debba intendersi per «armi», quali dispositivi possano essere ricompresi nella relativa disciplina e quali siano i limiti entro i quali se ne possa ammettere l’uso; e, per altro verso, è altresì esclusivo titolare della potestà di disciplinare i casi e i modi dell’uso delle armi da parte delle forze di polizia, anche locale (sentenza n. 167 del 2010), delineandosi un’oggettiva attinenza con la funzione, parimenti rimessa allo Stato, diretta a prevenire e a reprimere reati, in vista della tutela di «interessi fondamentali, quali l’integrità fisica e psichica delle persone, o la sicurezza dei beni» (così, da ultimo, sentenza n. 116 del 2019; nello stesso senso, ex plurimis, anche sentenze n. 285 del 2019, n. 208 e n. 148 del 2018).

2.5.– Alla luce di quanto precede, la questione è fondata.

Il legislatore statale, nelle richiamate occasioni in cui li ha considerati, ha mostrato di intendere tutti i dispositivi in grado di erogare una elettrocuzione come strumenti atti ad offendere le persone, espressamente qualificandoli come «armi» ovvero, comunque, affiancandoli alle armi tradizionali. Ciò è accaduto, come già visto, sia in sede di sperimentazione degli stessi (presso i corpi e i servizi di polizia locale ovvero presso la Polizia di Stato, con le norme dettate, rispettivamente, dal d.l. n. 113 del 2018 e dal d.l. n. 119 del 2014), sia in sede di riformulazione della fattispecie di divieto di porto d’armi (oggi “aggiornata” con l’esplicita menzione degli «storditori» e, soprattutto, degli «altri apparecchi analoghi in grado di erogare una elettrocuzione»: così il nuovo testo dell’art. 4, primo comma, della legge n. 110 del 1975). In particolare, avendo sostituito la precedente espressione «pistola elettrica Taser» con le parole «arma comune ad impulsi elettrici» (così il già richiamato testo dell’art. 8, comma 1-bis, del d.l. n. 119 del 2014, come convertito), il legislatore nazionale ha fatto chiaramente intendere di considerare in modo unitario i dispositivi in questione, valorizzandone l’idoneità ad arrecare offesa alle persone, senza distinguerli in ragione delle modalità di funzionamento.

Al tempo stesso, pur avendo qualificato questi dispositivi come «armi», il legislatore statale non ha ancora ritenuto di includerli, in modo definitivo, nella dotazione di armamento delle forze di polizia, salvo solo prevedere appositi percorsi di sperimentazione. Per quanto concerne il servizio di polizia municipale, in particolare, la vigente legge quadro statale ha stabilito che gli addetti a tale servizio, in possesso della qualità di agente di pubblica sicurezza, possono portare le armi senza licenza (previa deliberazione in tal senso del Consiglio comunale) e ha rimesso a un regolamento approvato dal Ministro dell’interno, sentita l’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia, il compito di stabilire la tipologia e il numero delle armi in dotazione (art. 5, comma 5, della legge 7 marzo 1986, n. 65, recante «Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale»). Tale regolamento, adottato con decreto del Ministro dell’interno 4 marzo 1987, n. 145 (Norme concernenti l’armamento degli appartenenti alla polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza), ha quindi stabilito, oltre al numero, anche la tipologia delle armi in dotazione, precisando che esse sono unicamente «la pistola semi-automatica o la pistola a rotazione i cui modelli devono essere scelti fra quelli iscritti nel catalogo nazionale delle armi comuni da sparo di cui all’art. 7 della legge 18 aprile 1975, n. 110, e successive modificazioni» (art. 4, comma 1) e rimandando, quanto alla scelta del tipo e del calibro delle armi così individuate, ai singoli regolamenti comunali.

Da quanto precede emerge che il legislatore statale, nell’esercizio della propria competenza esclusiva in materia di armi, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost., ha finora escluso – salva la sperimentazione, con le cautele di volta in volta indicate – che gli agenti di polizia (sia locale, sia di Stato) possano portare, tra le armi di servizio, anche i dispositivi ad impulso elettrico, pur avendo dimostrato di considerare questi ultimi, a tutti gli effetti, come «armi comuni».

La Regione Lombardia, stabilendo che le forze di polizia locale possono dotarsi di tali dispositivi (sia pure limitatamente a quelli funzionanti «a contatto»), per un verso ha superato gli attuali limiti e condizioni che il legislatore statale ha individuato per la sperimentazione degli stessi (avendo previsto solo genericamente lo svolgimento di una «previa formazione»); per altro verso, e più in radice, ha ampliato il novero delle «armi» in dotazione ai corpi di polizia municipale al di là delle previsioni di cui all’art. 5, comma 5, della legge n. 65 del 1986. Così facendo, essa ha violato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di armi, prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost.

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, limitatamente alle parole «dissuasori di stordimento a contatto,».

3.– La seconda questione, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, attiene alla dedotta illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., «anche in relazione» all’art. 12, comma 12-bis, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio).

La disposizione impugnata modifica l’art. 22 della legge della Regione Lombardia 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria), aggiungendo le parole «dopo gli abbattimenti o l’avvenuto recupero» alla fine del comma 7. Quest’ultimo, così come integrato dalla novella, dispone adesso come segue: «I capi di selvaggina migratoria vanno annotati sul tesserino venatorio, in modo indelebile, sul posto di caccia dopo gli abbattimenti o l’avvenuto recupero».

Il ricorrente lamenta la violazione di «prescrizioni statali costituenti soglie minime di protezione ambientale», non derogabili nemmeno nell’esercizio della potestà legislativa regionale in materia di caccia, avuto riguardo alla previsione di cui all’invocato art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157 del 1992, che così dispone: «La fauna selvatica stanziale e migratoria abbattuta deve essere annotata sul tesserino venatorio di cui al comma 12 subito dopo l’abbattimento». La norma impugnata subordinerebbe le annotazioni sul tesserino venatorio al preventivo recupero dell’animale, contravvenendo alla ratio della richiamata disposizione statale, che impone l’immediata annotazione, con conseguente abbassamento della soglia di protezione ambientale imposta dalla fonte nazionale.

3.1.– La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

Come questa Corte ha affermato, nella sentenza n. 291 del 2019, in riferimento alla precedente formulazione della disposizione regionale oggetto di censura, la norma di cui al comma 12-bis dell’art. 12 della legge n. 157 del 1992 (introdotta dall’art. 31, comma 1, della legge 7 luglio 2016, n. 122, recante «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2015-2016») è volta a «garantire una raccolta più puntuale delle informazioni, derivante dalla contestualità dell’annotazione, in funzione dell’efficace programmazione del prelievo faunistico». Essa va dunque inclusa tra le «prescrizioni statali costituenti soglie minime di protezione ambientale (sentenza n. 249 del 2019), non derogabili neppure nell’esercizio della competenza regionale in materia di caccia, salva la possibilità di prescrivere livelli di tutela ambientale più elevati di quelli previsti dallo Stato (sentenze n. 174 e n. 74 del 2017, n. 278 del 2012, n. 104 del 2008 e n. 378 del 2007)» (punto 4 del Considerato in diritto; più di recente, nello stesso senso, anche sentenza n. 40 del 2020).

Con la citata sentenza è stata, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera j), della legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2018, n. 17 (Legge di revisione normativa e di semplificazione 2018), nella parte in cui aveva sostituito, nel testo dell’art. 22, comma 7, della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993, le parole «dopo gli abbattimenti accertati» con le parole «dopo gli abbattimenti e l’avvenuto recupero». Quest’ultima formulazione, invero, nell’utilizzare la congiunzione «e», rendeva chiara l’intenzione del legislatore regionale di posticipare l’annotazione all’effettivo recupero dell’animale. La sentenza, peraltro, nello smentire la tesi interpretativa della Regione, volta a ricavare da tale formulazione un significato conforme all’esigenza di immediata annotazione imposta dall’art. 12, comma 12-bis, della legge n. 157 del 1992, ha avuto cura di affermare quanto segue: «La criticità non è superabile accedendo alla tesi della difesa regionale, che ritiene di aver esteso l’adempimento ai casi di recupero di abbattimenti effettuati da terzi, poiché l’interpretazione offerta trova ostacolo nel dato letterale della norma, che utilizza la congiunzione “e” e non la disgiunzione “o”, per precisare che l’annotazione va effettuata dopo l’abbattimento e l’avvenuto recupero».

L’espressione che si legge nella disposizione all’esame odierno di questa Corte è stata, dunque, adottata proprio in ossequio ai rilievi formulati con la sentenza n. 291 del 2019, e va correttamente intesa nel senso che l’annotazione deve essere sempre effettuata subito dopo l’abbattimento, salvi i casi in cui la contezza dell’abbattimento stesso, anche ad opera di terzi, avvenga solo al momento del recupero.

Così interpretata, la disposizione impugnata non riduce lo standard di tutela della fauna selvatica introdotto dalla legge statale (sentenza n. 249 del 2019), e non si pone, dunque, in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, poi, l’art. 17, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021.

La disposizione impugnata aggiunge le parole «in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo» nel testo del comma 1 dell’art. 26 della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993, in modo tale che il testo di risulta è il seguente: «[a]cquisito il parere dell’istituto nazionale per la fauna selvatica, con regolamento adottato secondo le competenze stabilite dallo Statuto sono disciplinate, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, l’allevamento, la vendita e la detenzione di uccelli allevati appartenenti alle specie cacciabili muniti di anellini inamovibili in materiale metallico, plastico o altro materiale idoneo rilasciati dalla Regione o dalla provincia di Sondrio per il relativo territorio anche avvalendosi di associazioni, enti ed istituti ornitologici legalmente riconosciuti a livello regionale, nazionale e internazionale, nonché il loro uso in funzione di richiami per la caccia da appostamento».

Viene denunciata la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per contrasto con gli standard minimi e uniformi di tutela della fauna quali stabiliti dall’art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992, che dispone quanto segue: «È vietato l’uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile, numerato secondo le norme regionali che disciplinano anche la procedura in materia».

In particolare, secondo il ricorrente, la Regione non potrebbe riservare a sé la possibilità di determinare una «non meglio identificata idoneità dei materiali», senza al contempo precisare i contorni della procedura a ciò diretta e senza indicarne i parametri e i criteri di riferimento. Non sarebbero, in tal modo, offerte garanzie circa la caratteristica della «inamovibilità» dell’anellino e, di conseguenza, circa la «verifica della liceità della nascita del soggetto in ambiente controllato». La previsione del materiale plastico, oltretutto, non offrirebbe le garanzie – tipiche del metallo – di non deformabilità nel tempo e di non modificabilità della stampigliatura (che reca i dati dell’allevatore, dell’anno di nascita, del soggetto e del numero progressivo).

4.1.– In chiave di inammissibilità, la Regione resistente ha eccepito la «genericità del motivo» e la «apoditticità delle considerazioni erariali», in quanto «limitate ai profili tecnici» ed aventi «contenuto meramente speculativo», non risultando «avvalorate dalla produzione di prove».

L’eccezione, così formulata, non è fondata.

Le richiamate affermazioni del ricorso – e, in particolare, quelle che, per argomentare la maggiore idoneità degli anelli in metallo rispetto a quelli in plastica, fanno leva sui «regolamenti internazionali» e sulle prescrizioni che risulterebbero adottate «dalla Confederazione Ornitologica Mondiale per mostre e fiere ornitologiche» – non sono decisive ai fini di ricostruire, nei suoi tratti essenziali, la censura proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri. Si tratta, al più, di semplici osservazioni di sostegno rispetto alla sostanza della censura, che è chiaramente diretta a contestare la non idoneità del materiale plastico ad assicurare la caratteristica dell’inamovibilità dell’anellino, in quanto, come si accenna nel ricorso, la plastica può allargarsi e modificarsi facilmente ed è soggetta a deformarsi nel tempo.

4.2.– Nel merito, la questione non è fondata.

Questa Corte ha avuto occasione di chiarire che l’art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992 «fissa standard minimi e uniformi di tutela della fauna la cui determinazione appartiene in via esclusiva alla competenza del legislatore statale ex art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione» (sentenza n. 441 del 2006). La richiamata disposizione della legge n. 157 del 2002 non prescrive il tipo di materiale con cui deve essere confezionato l’anellino, limitandosi a indicare due requisiti dello stesso, e cioè l’inamovibilità e la numerazione. Essa rimette, quindi, alle norme regionali la procedura da adottare per assicurare il rispetto di tali requisiti.

In siffatto contesto, la norma impugnata ha previsto, indifferentemente, la possibilità dell’uso della plastica o del metallo, con la significativa precisazione, tuttavia, della necessaria idoneità del materiale da utilizzare per confezionare l’anellino. Anche gli anellini in plastica, dunque, dovranno comunque assicurare le medesime caratteristiche sostanziali (inamovibilità e stampigliatura della numerazione) che sono imposte dalla norma statale, con ciò risultando già garantiti gli standard di tutela ambientale che sono stabiliti – in modo vincolante per le Regioni – dal richiamato art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992.

Le paventate situazioni di non conformità dell’anellino in plastica rispetto ai dettami della fonte statale di riferimento potrebbero pertanto derivare non dalla formulazione della norma regionale, che impone il requisito della idoneità, ma, eventualmente, dalle modalità con le quali essa dovesse ricevere concreta applicazione.

5.– È poi impugnato l’art. 17, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, che ha disposto l’abrogazione dei commi 5-bis e 5-quater dell’art. 26 della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993.

L’effetto di tale abrogazione è la definitiva soppressione, nella Regione Lombardia, della banca dati regionale dei richiami vivi, che era stata istituita dall’art. 14 della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2014, n. 14, recante «Modifiche alla legge regionale 21 novembre 2011, n. 17 (Partecipazione della Regione Lombardia alla formazione e attuazione del diritto dell’Unione europea). Legge comunitaria regionale 2014 (Legge europea regionale 2014) – Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Lombardia derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea: attuazione della Direttiva 2005/36/CE, della Direttiva 2006/123/CE, della Direttiva 2011/92/UE, della Direttiva 2009/147/CE, della Direttiva 2011/36/UE e della Direttiva 2011/93/UE».

A giudizio del ricorrente, la soppressione della banca dati contrasterebbe con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost., in quanto, disponendola, il legislatore lombardo sarebbe venuto meno ad un «formale impegno», a «suo tempo» assunto dalla Regione, connesso all’archiviazione, da parte della Commissione europea, della procedura EU Pilot 1611/10/ENVI, avviata nel 2010 nei confronti dell’Italia per non corretta applicazione della direttiva 2009/147/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2009, concernente la conservazione degli uccelli selvatici. L’introduzione della banca dati, avvenuta nel 2014, avrebbe avuto lo scopo «di garantire le condizioni previste dall’articolo 9, comma 1, lettera c) della Direttiva» 2009/47/CE, ossia di consentire la cattura in modo selettivo di piccole quantità di richiami vivi, secondo condizioni rigidamente controllate.

5.1.– Preliminarmente, deve darsi conto della circostanza che il ricorso ha indicato, tra i parametri di legittimità costituzionale della presente questione, anche l’art. 117, primo comma, Cost. Tale parametro non è, tuttavia, esplicitamente richiamato dalla delibera della Presidenza del Consiglio dei ministri di autorizzazione al ricorso, in data 22 luglio 2021, la quale si riferisce solo all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Non può, tuttavia, ritenersi che da tale discordanza possa discendere l’inammissibilità della questione argomentata sull’art. 117, primo comma, Cost. L’argomento sostanziale che è stato sostenuto nella richiamata deliberazione consiliare consiste nella violazione di parametri desunti dal diritto UE e, in particolare, dalla direttiva 2009/147/CE, rispetto ai quali sarebbe apprezzabile – in tesi – il venir meno della Regione Lombardia ai “patti” precedentemente assunti in sede europea. Benché, dunque, l’art. 117, primo comma, Cost. non sia espressamente menzionato, non può revocarsi in dubbio la volontà dell’organo politico, titolare del potere di impugnativa, di sollevare, a mezzo dell’intermediazione tecnica dell’Avvocatura generale, la questione di legittimità costituzionale concernente la violazione delle norme UE prima richiamate.

Come questa Corte ha più volte affermato, a fronte di simile volontà, «spetta alla parte ricorrente “la più puntuale indicazione dei parametri del giudizio”, giacché la discrezionalità della difesa tecnica ben può integrare una solo parziale individuazione dei motivi di censura» (così, da ultimo, sentenze n. 272 del 2020 e n. 128 del 2018). Con specifico riferimento al parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., del resto, va rilevato che esso è stato in passato ritenuto inammissibile da questa Corte, in quanto non indicato nella delibera di autorizzazione al ricorso, solo nelle ipotesi in cui i parametri comunitari interposti non fossero identificabili alla luce delle ragioni espresse (in tal senso, ex plurimis, sentenze n. 83 del 2018 e n. 265 del 2016): circostanza che – come detto – non è ravvisabile nella presente fattispecie. Può conclusivamente ritenersi che la chiarezza e l’univocità delle ragioni espresse nella delibera di impugnazione consentono una sufficiente identificazione dei parametri costituzionali senza sconfinare nella mutatio libelli (sentenza n. 228 del 2017).

5.2.– Venendo al merito, la questione promossa in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. è fondata.

Come già accennato, la banca dati regionale dei richiami vivi, di cattura e di allevamento, era stata introdotta in Lombardia dall’art. 14 della legge regionale n. 14 del 2014, che aveva aggiunto i commi da 5-bis a 5-quater dell’art. 26 della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993.

In particolare, il comma 5-bis, nel riferire espressamente l’istituzione della banca dati «[a]l fine di garantire le condizioni rigidamente controllate previste dall’articolo 9, comma 1, lettera c) della Direttiva 2009/147/CE», aveva previsto la registrazione delle seguenti informazioni: «a) i dati anagrafici relativi ai cacciatori che utilizzano, ai fini del prelievo venatorio, richiami vivi provenienti da cattura e da allevamento; b) i dati relativi alla specie e al codice identificativo riportato sul contrassegno inamovibile posto su ciascun esemplare di cattura, utilizzato da ciascuno dei soggetti di cui alla lettera a), ai fini del prelievo venatorio; b-bis le quantità di richiami di allevamento distinti per specie utilizzati ai fini del prelievo venatorio» (quest’ultima previsione era stata successivamente aggiunta dall’art. 3, comma 1, lettera g, della legge della Regione Lombardia 10 novembre 2015, n. 38, recante «Legge di semplificazione 2015 - Ambiti economico, sociale e territoriale»). L’uso dei richiami vivi, ai fini del prelievo venatorio, era conseguentemente ammesso solo se l’esemplare fosse stato registrato nella banca dati e dotato dell’apposito anellino inamovibile (così il comma 5-ter). Infine si prevedeva una sanzione amministrativa pecuniaria per l’ipotesi di mancato inserimento, in banca dati, delle informazioni richieste (comma 5-quater).

È quindi intervenuto l’art. 3, comma 1, lettera h), della legge reg. Lombardia n. 38 del 2015, che ha abrogato il comma 5-ter, rendendo così nuovamente possibile l’uso dei richiami vivi pur se non registrati nella banca dati.

Successivamente, l’art. 2, comma 1, lettera b), numero 60), della legge della Regione Lombardia 25 gennaio 2018, n. 5 (Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge), ha disposto l’abrogazione, tra gli altri, dell’art. 14 della legge reg. Lombardia n. 14 del 2014, e per tale effetto, anche delle disposizioni istitutive della banca dati, introdotte dal quest’ultimo articolo ma, al contempo, l’art. 4, comma 1, primo periodo, della stessa legge regionale n. 5 del 2018 (rubricato «Salvaguardia degli effetti»), ha stabilito la perdurante vigenza della normativa di risulta e, quindi, dei commi 5-bis e 5-quater dell’art. 26 della legge regionale n. 26 del 1993.

È in tale contesto normativo che si colloca l’abrogazione dei commi 5-bis e 5-quater, disposta dall’art. 17 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021. In tal modo, il legislatore lombardo ha portato a compimento l’opera di soppressione della banca dati regionale, già iniziata, come chiarito, con l’abrogazione del comma 5-ter ad opera della legge regionale n. 38 del 2015.

Tale definitiva soppressione si pone in contrasto proprio con la normativa UE interposta, invocata dal ricorrente, con conseguente violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

È la stessa disciplina abrogata che aveva chiarito la propria ratio, consistente – come già visto – nell’obiettivo di «garantire le condizioni rigidamente controllate previste dall’articolo 9, comma 1, lettera c) della Direttiva 2009/147/CE» (così l’incipit dell’abrogato comma 5-bis dell’art. 26 della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993). Ne deriva che l’opposta operazione di soppressione della banca dati costituisce un tentativo di restaurare il regime previgente, improntato all’illegittima pretermissione del requisito imposto dalla normativa UE, consistente nella garanzia di un rigido controllo delle condizioni per la cattura dei richiami vivi.

Del resto, non può revocarsi in dubbio che l’istituzione della banca dati regionale potesse considerarsi uno strumento idoneo a realizzare tale controllo nei sensi auspicati dall’art. 9 della direttiva 2009/147/UE. Essa, infatti, per come era stata concepita, consentiva di far luce sulle dimensioni numeriche del fenomeno della cattura indiscriminata di esemplari da utilizzare appunto come richiami vivi, e così di adeguarsi, quantomeno nel territorio regionale della Lombardia, ai rilievi mossi dalla Commissione europea sin dall’apertura della ricordata procedura Pilot.

Nella lettera di messa in mora del 21 febbraio 2014 della Commissione europea, con la quale, a seguito degli esiti non soddisfacenti dell’indagine Pilot, veniva aperta la procedura di infrazione n. 2014/2006 nei confronti del nostro Paese (per violazione degli artt. 8 e 9 della direttiva 2009/147/CE), si rilevava che «non ci sono dati precisi sul numero di richiami vivi in possesso dei cacciatori, derivanti sia dalla cattura in natura sia da impianti di allevamento né sul reale “fabbisogno” di richiami da parte dei cacciatori». Pertanto la Commissione riteneva che i provvedimenti amministrativi e legislativi, fino a quel momento adottati dalle varie Regioni italiane coinvolte (tra cui la Lombardia), «non [fossero] basati su l’analisi puntuale necessaria per l’adozione della deroga». Proprio con riferimento alla Regione Lombardia, la Commissione rilevava che essa «si è attivata solo nel 2013 per la creazione di una banca dati, tramite l’adozione della Deliberazione Giunta regionale della Regione Lombardia del 6 settembre 2013 – n. X/620, lasciando ragionevolmente presumere che tali dati non siano ancora disponibili».

Appare dunque evidente che, a giudizio della Commissione, l’istituzione di una banca dati regionale dei richiami vivi potesse risultare utile a consentire – per il tramite dei dati da far in essa confluire – più penetranti controlli sul numero degli esemplari detenuti dai cacciatori, sulle dimensioni complessive del fenomeno e, quindi, anche sul rispetto delle rigide condizioni cui l’art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva n. 2009/147/CE subordina la cattura, in deroga, di esemplari.

In senso analogo, del resto, si è pronunciata la Corte di giustizia della Comunità europea, sezione seconda, sentenza 8 giugno 2006, in causa C-60/05, WWF Italia, evidenziando la necessità che i singoli Stati membri approntino gli strumenti atti a realizzare un «controllo efficace effettuato tempestivamente», così da garantire le condizioni menzionate dall’art. 9 della direttiva 2009/147/CE.

Nella prospettiva interna, peraltro, anche la giurisprudenza amministrativa – con particolare riferimento proprio alla situazione che si registrava nella Regione Lombardia – ha sottolineato l’importanza di un «censimento dei richiami vivi (da cattura o da allevamento) posseduti dai cacciatori», considerato come una possibile, prima soluzione alle conclamate violazioni dell’art. 9 della direttiva 2009/147/CE (Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, sezione seconda, sentenza 19 luglio 2012, n. 1391).

Il legislatore lombardo, eliminando, con la norma impugnata, la banca dati regionale dei richiami vivi, ha svuotato «il contenuto di tutela» che aveva in precedenza scelto di adottare nella materia de qua al fine di porre rimedio alle violazioni della normativa UE sui controlli cui vanno sottoposte le catture dei richiami vivi (per un’applicazione di tali rilievi ad una diversa fattispecie sentenza n. 141 del 2021, punto 7.1.2 del Considerato in diritto). La soppressione di quello strumento di tutela, non accompagnata, dalla sua sostituzione con altro idoneo, ha comportato la violazione della normativa europea che quella tutela imponeva (art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2009/147/CE) e, quindi, il vulnus all’art. 117, primo comma, Cost.

Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, con conseguente reviviscenza – trattandosi di disposizione meramente abrogatrice (ex plurimis, sentenze n. 9 del 2022 e n. 255 del 2019) – dei commi 5-bis e 5-quater della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993.

Resta assorbito l’ulteriore parametro dedotto dal ricorrente.

6.– È impugnato, infine, l’art. 25 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, che, alla lettera a) del comma 1, modifica alcune parole nel testo iniziale dell’art. 48, comma 6-bis, della legge regionale n. 26 del 1993. Il testo di risulta è il seguente: «L’attività di vigilanza e controllo sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo di cui ai commi 1, 1-bis e 3 dell’articolo 26 è svolta verificando unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare e deve essere effettuata nel massimo rispetto del benessere animale e senza pratiche invasive o manipolazioni che possano arrecare danni alla salute dei volatili» (dove la novella ha introdotto le parole iniziali, fino al termine «effettuata»).

Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbe violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., a causa della modifica in peius del livello di tutela della fauna selvatica, quale stabilito dalle norme interposte di cui agli artt. 5, comma 7, 27 e 28 della legge n. 157 del 1992. Risulterebbe infatti limitata «la funzione dell’agente accertatore», la cui attività di controllo sarebbe così ridotta alla sola verifica circa la presenza dell’anellino sul tarso dell’esemplare, senza alcuna possibilità di maneggiarlo. Ciò impedirebbe di controllare che l’anellino rispetti il requisito della inamovibilità e che lo stesso sia dotato della numerazione, come prescritto dalle richiamate disposizioni statali.

In definitiva, secondo il ricorrente, risulterebbe pregiudicato «l’ambito della funzione di vigilanza e controllo in materia faunistico-venatoria, svolta dagli agenti di vigilanza sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo».

6.1.– La questione è fondata nei limiti di seguito precisati.

La legge n. 157 del 1992, pur non dettando specifiche regole sul controllo da effettuarsi sugli anellini dei volatili, pone la norma generale secondo cui i richiami vivi non provvisti di anello inamovibile e numerato non possono essere utilizzati per l’attività venatoria (art. 5, comma 7). In senso analogo si muove l’art. 21, comma 1, lettera p), della stessa legge n. 157 del 1992, che fa divieto a chiunque di usare richiami vivi, al di fuori dei casi previsti dall’art. 5.

La facoltà dell’organo accertatore di controllare, specificamente, la presenza dell’anellino sul richiamo vivo e la sussistenza delle due condizioni di inamovibilità e di numerazione discende, dunque, da quanto prevedono sia le norme che fissano i requisiti sostanziali dell’anellino (art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992: inamovibilità e stampigliatura del numero), sia quelle che conferiscono e regolano i poteri di accertamento, funzionali alla vigilanza venatoria (combinato disposto degli artt. 27 e 28 della legge n. 157 del 1992). In particolare, l’art. 28, nell’indicare i poteri e i compiti degli addetti alla vigilanza venatoria, richiama esplicitamente il successivo art. 30, che, al comma 1, lettera h), pone tra le fattispecie sanzionate penalmente anche quella della caccia con mezzi vietati.

Si tratta, del resto, di previsioni che assicurano uno standard di tutela ambientale minima, in quanto preordinate alla salvaguardia delle specie animali (da ultimo, sentenza n. 69 del 2022, punto 6.2 del Considerato in diritto). Come tali, esse non sono derogabili dalle Regioni nemmeno nell’esercizio della propria competenza esclusiva nella materia della caccia, essendo volte ad assicurare, attraverso l’attività di vigilanza e di controllo, le prescrizioni sostanziali dettate dalla stessa legge e dirette al medesimo obiettivo di tutela.

La prescrizione, introdotta dalla norma regionale impugnata, che limita l’attività dell’organo accertatore alla sola verifica della presenza dell’anellino sull’esemplare si colloca ad un livello di tutela ambientale nettamente inferiore rispetto a quello che deriva dalle prescrizioni nazionali. Essa impedisce, infatti, all’organo accertatore di verificare che l’anellino sia inamovibile e abbia la stampigliatura del numero, con ciò ponendosi in contrasto con lo stesso art. 5, comma 7, della legge n. 157 del 1992.

Né può ritenersi – come suggerito dalla difesa della Regione Lombardia – che la disposizione impugnata vada intesa nel senso non già di limitare l’attività dell’organo accertatore alla mera osservazione dell’anellino, ma di imporre comunque il controllo di tutte le sue caratteristiche necessarie. Osta a simile interpretazione la dizione letterale dell’art. 48, comma 6-bis, della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993, come emendato dalla disposizione impugnata, che richiede «unicamente» di verificare «la presenza» dell’anellino sull’esemplare.

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, nella parte in cui limita il controllo sull’anellino alla sola presenza dello stesso. Il vulnus alla Costituzione non si estende alla parte della disposizione emendata (l’art. 48, comma 6-bis, della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993) che impone il controllo sull’anellino, trattandosi di una funzione, rimessa all’organo accertatore, che non può certo dirsi in contrasto con le invocate previsioni della legge-quadro statale. Di conseguenza, la declaratoria di illegittimità costituzionale va limitata alle sole parole «è svolta verificando unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare e», in modo da ottenersi il seguente testo di risulta dell’art. 48, comma 6-bis, della legge reg. Lombardia n. 26 del 1993: «L’attività di vigilanza e controllo sugli anellini inamovibili da utilizzare per gli uccelli da richiamo di cui ai commi 1, 1-bis e 3 dell’articolo 26 deve essere effettuata nel massimo rispetto del benessere animale e senza pratiche invasive o manipolazioni che possano arrecare danni alla salute dei volatili».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Lombardia 25 maggio 2021, n. 8 (Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2021), limitatamente alle parole «dissuasori di stordimento a contatto,»;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, limitatamente alle parole «è svolta verificando unicamente la presenza dell’anellino sull’esemplare e»;

4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;

5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 8 del 2021, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 24 maggio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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