Corte Costituzionale, Sentenza n.20 del 25/01/2022

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SENTENZA N. 20

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Padova, nel procedimento di sorveglianza ad istanza di M. C., con ordinanza del 12 aprile 2021, iscritta al n. 81 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione di M. C., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 30 novembre 2021 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi l’avvocato Fabio Corvaja per M. C. e l’avvocato dello Stato Ettore Figliola per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 30 novembre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 12 aprile 2021, iscritta al n. 81 del r.o. del 2021, il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che i permessi premio di cui all’art. 30-ter ordin. penit. possano essere concessi ai condannati «che abbiano ottenuto la collaborazione impossibile e inesigibile, ove accertata l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata».

2.– Il giudice rimettente riferisce, in fatto, che M. C. ha presentato istanza di concessione del beneficio di un permesso premio, al fine di poter incontrare i due figli minori, attualmente residenti con la madre in Germania.

Risulta dall’ordinanza di rimessione che l’istante sta espiando la pena di 14 anni e 20 giorni di reclusione (con scadenza attualmente fissata al 24 gennaio 2022), in conseguenza di una condanna per i reati di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis del codice penale), sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cod. pen.), usura (art. 644 cod. pen.) ed estorsione (art. 629 cod. pen.), tutti aggravati ai sensi dell’art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa), convertito, con modificazioni, in legge 12 luglio 1991, n. 203, vigente all’epoca dei fatti.

2.1.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, il rimettente ripercorre l’evoluzione normativa che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 4-bis ordin. penit., il cui comma 1 prevede, come regola generale applicabile ai detenuti per «reati di criminalità organizzata», che l’accesso ai benefici e alle misure previsti dal Capo VI della legge n. 354 del 1975 (tra i quali, fino alla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, anche i permessi premio) sia subordinato, con la sola eccezione della liberazione anticipata, alla collaborazione con l’autorità giudiziaria a norma dell’art. 58-ter ordin. penit., presumendosi, altrimenti, la persistenza di una pericolosità ostativa alla concessione del beneficio o della misura richiesti.

Ricorda, poi, che, ai sensi del comma 1-bis del medesimo art. 4-bis ordin. penit., benefici e misure di cui si è detto possono invece essere accordati nelle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile: si tratta dei casi in cui non risultano sussistere margini per un’utile collaborazione con la giustizia, ciò che si verifica nelle ipotesi in cui la sentenza di merito abbia già garantito una piena ricostruzione fattuale della vicenda criminosa oppure quando il patrimonio conoscitivo del condannato non gli consenta di collaborare. Al cospetto di tali situazioni, rammenta ancora il rimettente, è tuttavia necessaria l’acquisizione di elementi indicativi della assenza di un collegamento attuale con la criminalità organizzata.

La sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità di cui al comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit., ha ammesso la possibilità di concedere permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Ciò posto, secondo il giudice a quo, per il “diritto vivente” consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, la citata sentenza n. 253 del 2019, nella parte in cui avrebbe introdotto particolari «regole probatorie» – volte ad imporre l’acquisizione di elementi tali da escludere anche il pericolo del ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata – non riguarderebbe le «disposizioni in tema di collaborazione impossibile».

Si sarebbero, in sostanza, delineati due distinti «regimi di valutazione della pericolosità dei condannati per reati ex art. 4 bis o.p. che non abbiano collaborato con la giustizia»: a fronte della generale possibilità – riconosciuta dalla citata sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte al condannato per reati cosiddetti ostativi ex art. 4-bis ordin. penit. – di accedere al beneficio del permesso premio previa acquisizione di elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti, «per i collaboranti “impossibili” o “inesigibili”» il magistrato di sorveglianza dovrebbe limitarsi a valutare «la sola sussistenza di rapporti attuali con il contesto malavitoso», senza estendere la verifica «all’aspetto prognostico tipico della valutazione di pericolosità, ossia alla verifica del pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata».

Proprio per questa ragione, del resto, il già richiamato diritto vivente (vengono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima penale, 12 febbraio 2020, n. 5553; 6 novembre 2020, n. 31025 e n. 31017; 21 ottobre 2020, n. 29151) avrebbe sancito la persistenza dell’interesse all’accertamento della collaborazione impossibile o inesigibile.

Il rimettente riferisce che, nel dichiarare inammissibile il ricorso proposto dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Venezia contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia che ha riconosciuto l’impossibilità di utile collaborazione di M. C. con riferimento al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, la Corte di cassazione avrebbe «imposto» al giudice a quo di interpretare l’art. 4-bis ordin. penit., così come inciso dalla citata sentenza n. 253 del 2019, «nel senso di dare continuità alla portata precettiva della collaborazione impossibile e di applicare il regime probatorio “rafforzato” di cui al primo comma dell’art. 4-bis o.p. ai soli condannati che, pur potendo collaborare, scelgono di non farlo».

2.1.1.– Ciò posto, il rimettente ritiene che l’assetto duale appena descritto, caratterizzato dal «diversificato regime di valutazione della pericolosità, si traduca in una norma penale irragionevole e pertanto contrastante con l’art. 3 della Costituzione», risolvendosi «in lettura non costituzionalmente orientata del disposto introdotto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 253 del 2019».

Non vi sarebbe una base argomentativa razionale «per escludere un regime probatorio unitario»: l’accertamento della collaborazione impossibile nulla esprimerebbe in merito all’atteggiamento soggettivo del singolo condannato, tanto che, nel caso oggetto del giudizio a quo, sarebbe da escludere la possibilità di riconoscere in capo al richiedente il beneficio – ritenuto «non resipiscente e non penitente» – una effettiva volontà di collaborare. Più in generale, l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione non inciderebbe sul profilo di pericolosità concreta legata alla posizione apicale o marginale rivestita all’interno dell’organizzazione criminale: non vi sarebbe, dunque, alcuna ragione «per escludere il “collaboratore impossibile” (in particolare quello che continui a tenere un atteggiamento non penitente e che abbia rivestito nell’organizzazione criminale un ruolo apicale, come nel caso in esame) dal meccanismo probatorio delineato dalla Corte Costituzionale per quanti mantengano il silenzio c.d. qualificato», in quanto «può capitare che l’atteggiamento soggettivo delle due diverse figure di non collaboranti sia identico, perché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile può non voler collaborare (come nel caso di specie)».

Per il rimettente, anzi, una valutazione in concreto potrebbe rivelare «addirittura una minore pericolosità del soggetto che sceglie di non collaborare pur potendolo fare (ad esempio perché mosso dai timori per la propria e l’altrui incolumità), rispetto a quello che si trova nell’impossibilità di farlo ma che non lo avrebbe comunque fatto».

2.1.2.– Il giudice a quo, inoltre, ritiene che la limitazione irragionevolmente imposta al magistrato di sorveglianza, «impossibilitato ad effettuare una valutazione individualizzata e concreta della pericolosità del singolo condannato» che, per qualsiasi ragione, non collabori con la giustizia, sarebbe contrastante con il «principio di individualizzazione della fase esecutiva della pena (art. 27, co. 3, Cost.)», che dovrebbe invece consentire anche una valutazione dell’effettivo spessore criminale del singolo detenuto.

Nella prospettiva del rimettente, in sostanza, solo «l’eliminazione del regime differenziato imposto dal diritto vivente» potrebbe restituire al magistrato di sorveglianza, nei confronti di tutti i condannati per reati contemplati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. che intendano accedere al beneficio del permesso premio, il potere di effettuare una valutazione individualizzata della personalità, e quindi anche della pericolosità.

2.2.– Le argomentazioni esposte dal rimettente consentirebbero di apprezzare anche la rilevanza delle questioni sollevate.

A tal proposito, il giudice a quo evidenzia che l’istanza di concessione del permesso premio è «temporalmente ammissibile avendo il detenuto espiato ben oltre metà della pena di tutti i reati».

Inoltre, «il percorso carcerario nel corso del lungo periodo di detenzione» sarebbe sempre stato regolare e connotato dalla partecipazione alle attività trattamentali, «risultandosi così integrato il requisito della meritevolezza».

Quanto al profilo della pericolosità, dall’ordinanza di rimessione si apprende che, in base alle informazioni fornite dalle autorità competenti, l’istante avrebbe rivestito un ruolo dirigenziale all’interno del sodalizio criminoso di riferimento.

Ciò premesso, il Magistrato di sorveglianza di Padova, per le indicazioni impartite dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, come recepite dal diritto vivente di cui si è dato conto, ritiene di dover operare le valutazioni di propria competenza unicamente in relazione all’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, essendo stata accertata l’impossibilità di una collaborazione con la giustizia ex art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit. in relazione al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cod. pen.).

Quanto a quest’ultimo profilo, in particolare, il rimettente riferisce che, con ordinanza del 19 febbraio 2020 (definitiva in data 3 dicembre 2020), il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha riconosciuto l’impossibilità di utile collaborazione con riferimento al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 cod. pen.), il solo per il quale la pena è ancora in esecuzione.

Proprio in applicazione del diritto vivente rispetto al quale il rimettente sollecita lo scrutinio di legittimità costituzionale, il detenuto potrebbe avvalersi del regime probatorio più favorevole previsto dall’art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit., in luogo di quello più rigoroso disegnato dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, anche se «risultano in espiazione reati caratterizzati dalla stessa eguale connotazione ostativa e in cui si giustificherebbe il medesimo vaglio della sussistenza di un pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata».

2.3.– Quanto al petitum, il giudice a quo ritiene che, con la pronuncia della sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, si sarebbe determinata l’«abrogazione implicita in parte qua delle disposizioni in tema di collaborazione impossibile o inesigibile (che restano vigenti e continuano ad avere una portata percettiva [recte: precettiva] originaria con riferimento ai benefici diversi dal permesso premio)», così come affermato nelle prime pronunce della Corte di cassazione successive alla sentenza n. 253 del 2019 (con indirizzo poi abbandonato) secondo cui, a seguito della indicata pronuncia di questa Corte «doveva negarsi la persistenza dell’interesse alla collaborazione impossibile o inesigibile», istituto introdotto quale sorta di contraltare alla collaborazione effettiva con la giustizia nei casi in cui la stessa non fosse utilmente praticabile: «[u]na volta venuta meno l’assoluta necessità della sussistenza di quest’ultima per poter accedere al permesso premio viene a perdere giustificazione anche la prima» (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezione prima penale, 14 gennaio 2020, n. 3309, 16 gennaio 2020, n. 1636 e 27 febbraio 2020, n. 7931).

Ciò che appunto il rimettente chiede a questa Corte di dichiarare, in contrasto con il diritto vivente ormai stabilizzatosi nella giurisprudenza di legittimità (vengono richiamate le sentenze della Corte di Cassazione, sezione quinta penale, 21 dicembre 2020, n. 36887; sezione prima penale, 6 novembre 2020, n. 31025; 21 ottobre 2020, n. 29140, n. 29141, e n. 29151; 23 marzo 2020, n. 10551; 12 febbraio 2020, n. 5553, tutte concordi nel ritenere che «la decisione della Corte Costituzionale non riguarda [...] le disposizioni in tema di collaborazione impossibile o inesigibile»).

In questo quadro giurisprudenziale, il giudice a quo ritiene preclusa una diversa interpretazione che consenta di superare i dubbi di legittimità costituzionale esposti, anche perché ogni opzione ermeneutica alternativa sarebbe impedita dal recepimento dell’indirizzo privilegiato dal diritto vivente nell’ordinanza del 3 dicembre 2020, con la quale la Corte di cassazione «si è espressa nel presente procedimento dichiarando […] l’inammissibilità del reclamo della Procura Generale che aveva sostenuto l’orientamento contrario».

2.4. – Infine, il rimettente osserva che «l’odierna questione di legittimità è volta solo apparentemente a richiedere una pronuncia in malam partem […] nei confronti dei condannati non collaboranti».

A suo giudizio, l’eliminazione «del regime differenziato della valutazione della pericolosità ora legittimato dall’art. 4-bis co. 1bis o.p.» avrebbe l’effetto di restituire al magistrato di sorveglianza, nei confronti di tutti i condannati per reati cosiddetti ostativi che intendano accedere al permesso premio, «il potere di effettuare una valutazione omogenea e individualizzata della pericolosità del detenuto non collaborante (suo malgrado o comunque renitente), con la possibilità di indagare anche le ragioni che hanno indotto lo stesso a scegliere il silenzio». Il regime unitario, ancora, «consentirebbe una valutazione individualizzata volta anche [a] perimetrare la vigente “probatio diabolica”», richiesta ai fini della dimostrazione dell’assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata.

3.– Si è costituito in giudizio M. C., il quale preliminarmente ha ribadito che la parte residua della pena in esecuzione riguarda il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, per il quale il Tribunale di sorveglianza di Venezia, con ordinanza del 19 febbraio 2020, «ha riconosciuto l’ipotesi della c.d. collaborazione impossibile, essendo state acclarate tutte le circostanze di quell’episodio criminoso», con decisione «divenuta definitiva».

Dopo aver ripercorso i passaggi essenziali dell’ordinanza di rimessione, ha chiesto che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.

Il rimettente, infatti, chiederebbe a questa Corte «di avallare un primo indirizzo assunto dalla Corte di cassazione circa l’interpretazione dell’art. 4-bis, comma 1-bis, o.p. successivamente alla pronuncia della sentenza n. 253 del 2019», e poi «superato dalla stessa Cassazione penale». In particolare, «[s]otto le vesti di una questione di legittimità costituzionale appuntata sul diritto vivente», il giudice a quo starebbe cercando un avallo alla interpretazione dell’art. 4-bis ordin. penit. ritenuta preferibile.

Altra eccezione d’inammissibilità è proposta in relazione all’asserito difetto di motivazione sulla rilevanza della questione avente ad oggetto un petitum produttivo di effetti penali in malam partem: non sarebbero sufficientemente esposte le ragioni per le quali, il detenuto, pur avendo già ottenuto, successivamente alla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, l’accertamento della collaborazione impossibile proprio ai fini dell’applicabilità dell’art. 4-bis, comma 1-bis, ordin. penit., «potrebbe vedere tale applicazione sostituita da una norma meno favorevole, trattandosi (nel caso del permesso-premio) di norme penali di carattere sostanziale, come riconosciuto da codesta Corte nella sentenza n. 32 del 2020».

Nel merito, osserva che «la diversità di regole valevoli per coloro che non collaborano per propria scelta e coloro che non collaborano in quanto la loro collaborazione è impossibile o irrilevante» sarebbe il portato di precedenti pronunce di questa Corte (è citata la sentenza n. 68 del 1995).

In ogni caso, osserva ancora la parte costituita, la diversità di situazioni sarebbe «intimamente connessa alla presunzione che è alla base delle due norme», in quanto «se la collaborazione è naturalisticamente e giuridicamente possibile, la mancata collaborazione è di per sé sintomatica di una possibile pericolosità del detenuto, mentre ove tale collaborazione sia impossibile essa non è sintomatica di nulla», sicché fuori luogo sarebbe la considerazione del rimettente secondo cui «anche dietro il silenzio del “collaboratore possibile” [recte: impossibile] potrebbe nascondersi una volontà di non collaborare». Sarebbe perciò ragionevole la distinzione tra le due situazioni, mentre sarebbe «arbitraria la pretesa del giudice a quo di vederle assimilate».

La situazione non sarebbe affatto cambiata dopo la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, perché essa non avrebbe eliminato la presunzione di pericolosità a carico di chi non ha collaborato, ma si sarebbe limitata a trasformarla da presunzione assoluta in presunzione relativa. Una tale presunzione manterrebbe la propria ragionevolezza esclusivamente «ove la mancata collaborazione risponda ad una reale possibilità del detenuto e dunque ad una sua libera determinazione»: solo in tale ipotesi il condannato disporrebbe di mezzi di prova limitati per dimostrare l’assenza di pericolosità, «giacché egli ha a disposizione la “prova regina”, cioè la collaborazione attiva».

Per tale ragione la censura di violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. sarebbe non fondata.

Quanto alla questione incentrata sulla violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., la parte costituita osserva che la valutazione individualizzante della magistratura di sorveglianza non sarebbe affatto impedita dalla disposizione censurata, rimanendo anzi doverosa anche per la valutazione dei profili di pericolosità sociale ai fini della concessione dei permessi premio.

4.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.

Secondo l’Avvocatura, l’ordinanza di rimessione solleciterebbe «un’applicazione delle norme contestate in malam partem», prospettando, peraltro, una soluzione che «non appare obbligata».

Operata una ricostruzione dell’evoluzione del «“doppio regime penitenziario”» introdotto dall’art. 4-bis ordin. penit., e, in particolare, della disciplina della collaborazione cosiddetta impossibile, inesigibile o irrilevante di cui al comma 1-bis della medesima disposizione, l’interveniente illustra anche gli effetti della sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, rilevando che tale pronuncia «non coinvolge l’istituto della collaborazione impossibile», così come già ritenuto dal diritto vivente della Corte di cassazione.

A parere dell’Avvocatura, in ogni caso, il rimettente avrebbe indebitamente sottovalutato che, per la concessione del beneficio del permesso premio, devono sussistere le ulteriori condizioni di meritevolezza indicate dall’art. 30-ter ordin. penit., costituite dalla regolare condotta e soprattutto dall’assenza della pericolosità sociale.

A giudizio dell’interveniente, dunque, non si verificherebbe affatto la prospettata «irragionevole limitazione per il giudice di sorveglianza, impossibilitato ad effettuare una valutazione individualizzata e concreta della pericolosità del singolo condannato che non collabori con la giustizia», in contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost.

5.– In vista dell’udienza pubblica, la parte costituita in giudizio ha depositato memoria illustrativa, con la quale ha confermato gli argomenti esposti nell’atto di costituzione.

Ha in particolare ribadito che l’intervento sollecitato a questa Corte produrrebbe sicuramente effetti in malam partem nei suoi confronti, nulla valendo l’osservazione del rimettente secondo cui l’auspicato regime unitario produrrebbe invece effetti favorevoli per altri soggetti e, in particolare, per i non collaboranti “per scelta”, come conseguenza dell’attenuazione del carattere attualmente “diabolico” della probatio loro richiesta. In disparte l’opinabilità di tale valutazione, la parte rimarca come del tutto indimostrata sarebbe l’affermazione che esclude il verso in malam partem – per la vicenda oggetto del giudizio principale – del risultato avuto di mira dal rimettente.

M. C. ha, poi, rilevato come dalla stessa giurisprudenza costituzionale in tema di collaborazione impossibile o inesigibile si trarrebbe il principio della non assimilabilità della posizione dei non collaboranti «per libera scelta» e di «coloro che non collaborano perché impossibilitati a farlo», sicché equiparare le due figure nel senso richiesto dal giudice a quo «significherebbe reintrodurre nell’ordinamento la disparità di trattamento già espunta da codesta Corte proprio in ragione del riconoscimento della diversa categoria ontologica cui ricondurre le due fattispecie con riguardo a tale specifico profilo».

Considerato in diritto

1.– Il Magistrato di sorveglianza di Padova solleva, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che i permessi premio di cui all’art. 30-ter ordin. penit. possano essere concessi ai condannati «che abbiano ottenuto la collaborazione impossibile e inesigibile», ove sia accertata la sola assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.

Il rimettente è chiamato a decidere sull’istanza di concessione di un permesso premio avanzata da un detenuto che sta espiando una pena inflitta per reati tutti contemplati dal comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit. e, come tali, ostativi alla concessione dei benefici penitenziari e delle misure previste dalla medesima disposizione, ove non sia prestata la collaborazione con la giustizia di cui all’art. 58-ter ordin. penit.

Una deroga a questo meccanismo preclusivo, rammenta ancora il giudice a quo, è prevista dal successivo comma 1-bis, che consente la concessione di benefici e misure nelle ipotesi in cui sia accertata l’inesigibilità (a causa della limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso) o l’impossibilità (per l’accertamento integrale dei fatti conseguito aliunde) della collaborazione: in questi casi, non sussistendo margini per un’utile cooperazione con la giustizia, viene meno la preclusione assoluta stabilita dal comma 1, purché siano acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

In questo contesto, espone il rimettente, è intervenuta la sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, la quale, pronunciandosi sul comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit. limitatamente alla concessione dei permessi premio, ha inciso sulla presunzione di pericolosità del detenuto non collaborante, trasformandola da assoluta in relativa. Tuttavia, la sentenza citata ha richiesto l’esclusione non solo dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche del pericolo del ripristino di tali collegamenti.

2.– Ciò premesso, il rimettente ricorda come, secondo l’interpretazione affermatasi (dopo qualche incertezza iniziale) nella giurisprudenza di legittimità, tale più rigoroso regime probatorio non riguardi «le disposizioni in tema di collaborazione impossibile». A seguito della sentenza n. 253 del 2019, in riferimento alla sola concessione del permesso premio, si sarebbero infatti delineati due distinti «regimi di valutazione della pericolosità dei condannati per reati ex art. 4 bis o.p.» che tale beneficio richiedano: sono soggetti alla regola della necessaria acquisizione di elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti coloro che, pur potendo collaborare utilmente con la giustizia, abbiano scelto di serbare il silenzio; mentre il magistrato di sorveglianza dovrebbe limitarsi a valutare «la sola sussistenza di rapporti attuali con il contesto malavitoso» in riferimento a coloro che abbiano ottenuto l’accertamento dell’impossibilità o dell’inesigibilità della collaborazione.

Proprio questa differenza di regime è censurata dal rimettente, che ne ravvisa il contrasto con i parametri di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

Non condivide, infatti, il giudice a quo l’esistenza di una «differenza ontologica» tra «la posizione di chi può collaborare ma soggettivamente non vuole (silente per sua scelta)» e quella «di chi vuole collaborare ma oggettivamente non può (silente suo malgrado)»: a suo dire, l’accertamento della collaborazione impossibile nulla esprimerebbe, né in merito all’atteggiamento soggettivo del singolo condannato (che, anzi, potrebbe essere del tutto coincidente con quello di chi, potendo collaborare, scelga di rimanere silente), né, più in generale, in ordine al profilo di pericolosità concreta, ad esempio in rapporto al ruolo rivestito nella vicenda criminale.

Non sarebbe, di conseguenza, ragionevole la mancata applicazione del «meccanismo probatorio» disegnato dalla ricordata sentenza n. 253 del 2019 al «“collaboratore impossibile”», e in particolare a quello che continui a tenere «un atteggiamento non penitente e che abbia rivestito nell’organizzazione criminale un ruolo apicale».

Inoltre, in lesione del «principio di individualizzazione della fase esecutiva della pena (art. 27, co. 3, Cost.)», la differenza di regime impedirebbe di «effettuare una valutazione individualizzata e concreta della pericolosità del singolo condannato», parametrata all’effettivo spessore criminale del singolo detenuto.

3.– Va innanzitutto esaminata l’eccezione d’inammissibilità avanzata dalla parte costituita in giudizio, secondo cui il rimettente avrebbe chiesto a questa Corte un avallo alla interpretazione dell’art. 4-bis ordin. penit. ritenuta preferibile.

Tale eccezione non è fondata.

Il rimettente muove dal corretto presupposto che, in seguito alla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte, la giurisprudenza di legittimità abbia ormai riconosciuto, in tema di accesso al permesso premio, l’esistenza di un “doppio regime probatorio” riferito ai detenuti non collaboranti condannati per reati cosiddetti ostativi, differenziato a seconda che la mancata collaborazione dipenda da una scelta consapevole oppure dalla impossibilità o inesigibilità della cooperazione con la giustizia.

Proprio questa differenziazione costituisce oggetto delle censure del rimettente, il quale la ritiene in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

Al riguardo va ribadito che, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato sulla disposizione che censura di illegittimità costituzionale, il giudice a quo ha la facoltà di assumere tale interpretazione in termini di “diritto vivente” e di richiederne il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 180 del 2021), senza che gli si possa addebitare di non aver seguito altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi. È infatti possibile invocare l’intervento di questa Corte anche allorquando il rimettente abbia unicamente l’alternativa di adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata (da ultimo, sentenza n. 1 del 2021).

4.– La parte e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni, asserendo che esse sollecitano una pronuncia in malam partem, poiché una sentenza di accoglimento determinerebbe, a carico del detenuto cui sia riconosciuta la collaborazione impossibile o inesigibile, un inasprimento degli oneri dimostrativi ai fini dell’accesso al permesso premio.

4.1.– La decisione su tale eccezione richiede una sintetica ricostruzione della disciplina, quale risultante, in particolare, dalla sentenza n. 253 del 2019 di questa Corte.

Prima di quest’ultima pronuncia, il sistema disegnato dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. in relazione a reati particolarmente gravi – cosiddetti “di prima fascia” – condizionava l’accesso a tutti i benefici e alle misure ivi elencate – compreso il permesso premio – all’utile collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., assunta come unica condotta idonea a dimostrare l’intervenuta rescissione dei collegamenti del detenuto con la criminalità organizzata.

Con la sentenza citata, in relazione al solo permesso premio, la disciplina muta sensibilmente.

L’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. viene infatti dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti ricordati, possa essere concesso il beneficio in questione, anche in assenza di utile collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

La ragione essenziale della pronuncia di accoglimento risiede nella natura della presunzione contenuta nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. La mancata collaborazione del detenuto con la giustizia evidenzia che i suoi collegamenti con l’organizzazione criminale sono mantenuti ed attuali. Da ciò, la sua permanente pericolosità, e quindi l’impossibilità di accedere ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti. Nella logica della disposizione, la presunzione dell’attualità dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata è assoluta, nel senso che non può essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa.

Questa conclusione, in relazione al permesso premio, non è tuttavia consentita dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. La sentenza stabilisce, infatti, che «[n]on è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima», quanto, appunto, il suo carattere assoluto: da un lato, non è irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, dall’altro, i parametri costituzionali ricordati esigono che tale presunzione sia relativa e, quindi, possa essere vinta da prova contraria.

Ciò che maggiormente rileva, ai fini della decisione delle questioni all’odierno esame, è peraltro il contenuto degli oneri dimostrativi, indicati dalla sentenza n. 253 del 2019, utili a superare la presunzione.

La peculiare natura dei reati di criminalità organizzata, nonché la ribadita non irragionevolezza della presunzione di pericolosità, purché non assoluta, dei detenuti che decidono di non collaborare con la giustizia, inducono infatti la sentenza ricordata a ricavare dal sistema costituzionale e legislativo la necessità di uno specifico canone probatorio – governato da «criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo» – per la concessione, ai detenuti in questione, del permesso premio.

La sentenza in esame fa così riferimento all’acquisizione di «congrui e specifici elementi», sul modello del «regime di prova rafforzata» (sentenza n. 68 del 1995) richiesto, ai detenuti per reati di criminalità organizzata, per l’accesso ai benefici penitenziari prima dell’introduzione del requisito della collaborazione con la giustizia: un regime, appunto, incentrato sull’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

Si tratta della stessa disciplina che testualmente permane nel comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. con riferimento al differente caso della collaborazione impossibile o inesigibile (accanto all’ipotesi di quella «oggettivamente irrilevante»).

Tuttavia, per ragioni di necessità costituzionale ispirate all’interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, la disciplina viene resa vieppiù stringente proprio per i detenuti che abbiano scelto di non prestare una collaborazione ancora possibile.

Così, il «regime probatorio rafforzato» è esteso «all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali».

Infine, «l’onere di fare specifica allegazione» di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro rispristino – viene fatto gravare sullo stesso condannato che richiede il beneficio.

Come si vede, la disciplina applicabile al detenuto non collaborante per sua scelta diverge da quella che governa i casi di collaborazione impossibile o inesigibile.

Dal confronto tra le posizioni delle due figure di detenuti non collaboranti disciplinate dai commi 1 e 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., la giurisprudenza di legittimità ha così tratto la conclusione dell’esistenza di un doppio regime probatorio: nei confronti di coloro che si siano trovati nell’accertata impossibilità di collaborare – o per i quali la collaborazione risulti, comunque, inesigibile – è sufficiente acquisire elementi che escludano l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata; per coloro i quali abbiano scelto di non prestare una collaborazione ancora possibile ed esigibile è invece necessaria, sempre al fine di superare il meccanismo ostativo, l’acquisizione di ulteriori elementi, oggetto di onere di specifica allegazione e tali da escludere anche il pericolo di ripristino dei suddetti collegamenti.

4.2.– Così sinteticamente ricostruita la disciplina, non è dubbio che l’intervento richiesto a questa Corte renderebbe più gravosa la posizione del condannato che richieda (o che abbia addirittura già ottenuto) l’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione. Sarebbe a quest’ultimo esteso, infatti, lo standard probatorio introdotto dalla sentenza n. 253 del 2019, più rigoroso in punto di oneri di allegazione nonché riguardo ai temi di prova da approfondire per superare il meccanismo ostativo.

Tuttavia, non è fondata la conseguente eccezione d’inammissibilità delle questioni sollevata dalla parte costituita e dall’interveniente.

Essa, infatti, presuppone la natura sostanziale della disciplina censurata, con applicazione delle garanzie apprestate dall’art. 25 Cost., tra cui, in primo luogo, quella della riserva di legge. Se tale assunto fosse corretto, si ricadrebbe in un ambito in cui è inibito «alla Corte costituzionale sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque attinenti alla punibilità (di recente, ex multis, sentenza n. 37 del 2019; ordinanze n. 219 del 2020, n. 282 e n. 59 del 2019), salve specifiche eccezioni, che assicurano la dovuta ampiezza del controllo di legittimità costituzionale, ma non vulnerano il principio costituzionale della riserva di legge (tra le più recenti, sentenze n. 189 e n. 155 del 2019)» (sentenza n. 17 del 2021).

Ben vero che le più recenti pronunce di questa Corte (sentenze n. 17 del 2021 e n. 32 del 2020) hanno operato una revisione dei rapporti tra i principi stabiliti nel secondo comma dell’art. 25 Cost. e la disciplina delle misure concernenti l’esecuzione delle pene detentive.

Tuttavia, nelle sentenze appena ricordate, si è escluso che il divieto di applicazione retroattiva concerna anche i meri benefici penitenziari, quali appunto i permessi premio, sicché non sarebbe in principio inibito a questa Corte provvedere nel senso auspicato dal rimettente, ove fossero fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate.

5.– Sempre in via preliminare, deve invece essere rilevata l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.

A parere del rimettente, solo l’eliminazione «del regime differenziato della valutazione della pericolosità ora legittimato dall’art. 4-bis co. 1 bis o.p.» avrebbe l’effetto di restituire al magistrato di sorveglianza, nei confronti di tutti i condannati per reati cosiddetti ostativi che intendano accedere al permesso premio, «il potere di effettuare una valutazione individualizzata della personalità, e quindi anche della pericolosità, del singolo detenuto istante», con la possibilità «di indagare anche le ragioni che hanno indotto lo stesso a scegliere il silenzio».

La motivazione della censura risulta, tuttavia, oscura ed apodittica, oltre che intrinsecamente contraddittoria.

Da un lato, il giudice a quo non spiega adeguatamente perché l’auspicata valutazione individualizzata, in caso di accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione, sia oggi preclusa, alla luce dei margini di valutazione concessi al magistrato di sorveglianza nel giudizio sulla meritevolezza del beneficio: una valutazione che, in base al tenore testuale dell’art. 30-ter ordin. penit., riguarda anche e proprio la pericolosità sociale del richiedente.

Dall’altro lato, il rimettente individua il vulnus che questa Corte dovrebbe rimuovere nell’impossibilità «di indagare anche le ragioni che hanno indotto lo stesso [detenuto] a scegliere il silenzio». In tal modo, però, è illustrata una condizione riferibile solo a colui che abbia liberamente esercitato la facoltà di non collaborare, pur potendolo fare; mentre è evidente che, una volta accertata l’impossibilità (o l’inesigibilità) di una utile condotta collaborativa, nessuna diversa opzione risulta nella disponibilità del detenuto.

6.– Nel merito, non è fondata la questione residua, sollevata per asserita violazione dell’art. 3 Cost.

Il giudice rimettente sostiene che sarebbe del tutto irragionevole la mancata previsione di «un regime probatorio unitario» che accomuni le figure del detenuto non collaborante, rispettivamente, “per scelta” o perché a tanto “impossibilitato”, dal momento che il loro «atteggiamento soggettivo» potrebbe essere identico, nel senso che «anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile può non voler collaborare». Per il giudice a quo, anzi, in una situazione come quella ipotizzata, una valutazione in concreto potrebbe rivelare «addirittura una minore pericolosità» di colui che abbia scelto di serbare il silenzio solo «perché mosso dai timori per la propria e l’altrui incolumità».

Per quanto tale congettura possa trovare riscontro nella realtà, da essa non può trarsi la conseguenza asserita dal rimettente, cioè che la parificazione delle due situazioni messe a confronto costituisca un imperativo costituzionale.

Nella sentenza n. 253 del 2019 questa Corte ha rilevato come, in mancanza di collaborazione con la giustizia, la presunzione di pericolosità per mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata si basa su precisi dati di esperienza, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit: l’appartenenza ad una associazione di stampo mafioso, infatti, «implica un’adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo».

Tali dati di esperienza fanno ritenere non irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché, come si è già precisato, si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.

Del resto, la valutazione in concreto degli elementi idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata deve rispondere, in generale, a criteri «di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo».

È del tutto evidente, tuttavia, che il peso degli oneri dimostrativi da addossare al richiedente il permesso premio non può decisivamente basarsi sul suo atteggiamento soggettivo, ma deve dipendere dalla situazione oggettiva all’esame della magistratura di sorveglianza. È infatti a tale situazione che l’ordinamento non irragionevolmente è ancorato per stabilirne la forza presuntiva e, conseguentemente, per definire il regime probatorio necessario a superare quest’ultima.

Sotto questo aspetto, la situazione in parola risulta apprezzabilmente diversa nei due casi posti in comparazione dal rimettente: nel primo, la valutazione giudiziale deve tenere conto di una collaborazione oggettivamente ancora possibile, che viene tuttavia rifiutata. Nel secondo, il punto di partenza dell’esame giudiziale è costituito da una collaborazione oggettivamente impossibile o inesigibile.

La differenza è colta dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, ormai stabilizzata in termini di diritto vivente, che ne ha coerentemente tratto conseguenze in ordine ai diversi standard probatori da soddisfare per vincere la presunzione di pericolosità, oggi relativa, per la concessione del permesso premio.

E così, nei confronti del detenuto che, pur essendo nelle condizioni di farlo, scelga di non prestare un’utile collaborazione con la giustizia, si giustifica, rispetto a colui che abbia ottenuto l’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione, «uno svantaggio sul terreno degli oneri dimostrativi» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 10 settembre 2021, n. 33743).

Tra le due categorie di detenuti che le questioni sollevate dal rimettente impongono di confrontare emerge, infatti, una «differenza ontologica» (così, tra le tante, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 17 giugno 2021, n. 23862, n. 23859 e n. 23858; 21 gennaio 2021, n. 2593; 6 novembre 2020, n. 31025 e n. 31017; 21 ottobre 2020, n. 29151; 23 marzo 2020, n. 10551; 12 febbraio 2020, n. 5553), che conduce a distinguere «la posizione di chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole” (silente per sua scelta), da quella di chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado)» (in termini, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 21 dicembre 2020, n. 36887).

A ben vedere, la scelta di serbare il silenzio, nonostante una perdurante possibilità di collaborare, produce, come conseguenza di fatto, un effetto di favore per la consorteria criminale, ciò che giustifica una regola “probatoria” di maggiore rigore rispetto allo standard minimo – l’esclusione dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata – imposto, ai fini del superamento del regime ostativo, dai dati di esperienza che accomunano tutte le figure di detenuti non collaboranti.

Il carattere volontario della scelta di non collaborare, infatti, costituisce – secondo l’id quod plerumque accidit – un sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi (la cui allegazione spetta al richiedente) idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, e in mancanza dei quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità.

Quando invece la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, la giurisprudenza di legittimità ritiene che l’atteggiamento del detenuto assume un significato del tutto neutro, ciò che consente di circoscrivere il tema di prova – ai fini del superamento del regime ostativo – all’esclusione di attualità dei collegamenti.

Questa differenziazione non appare irragionevole, e tanto è sufficiente per rigettare la questione, senza dimenticare che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile.

Tutto questo non significa, naturalmente, che le motivazioni e le convinzioni soggettive di tutti i detenuti non collaboranti (per scelta o per impossibilità), su cui il giudice rimettente ha appuntato larga parte della sua attenzione, siano irrilevanti. Tuttavia, come già accennato, la loro valutazione potrà sempre avvenire, ed essere opportunamente valorizzata, nella fase dell’esame concernente la valutazione della “meritevolezza” del permesso premio richiesto.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Padova, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Magistrato di sorveglianza di Padova, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2022.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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