L'istituto della illegittimità costituzionale conseguenziale ex art. 27 della legge n. 87 del 1953 ha limiti ristretti di utilizzo nel giudizio di legittimità costituzionale promosso in via principale, potendo operare nelle ipotesi del tutto particolari in cui la dichiarazione d'illegittimità costituzionale dovrebbe conseguenzialmente estendersi a disposizioni non impugnate ma avvinte da stretta ed esclusiva dipendenza funzionale con quella (sola) censurata, oppure a norme accessorie, prive di autonomo rilievo. (Precedenti: S. 77/2021 - mass. 43787; S. 245/2017 - mass. 40036; S. 36/2017 - mass. 39371).
Sono dichiarate inammissibili, per contraddittorietà e inidoneità dell'intervento invocato, le questioni di legittimità costituzionale, promosse dal Governo in riferimento all'art. 43, secondo comma, dello statuto speciale, dell'art. 6 della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, che, nell'ambito di una più ampia disciplina avente ad oggetto il riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna, prevede che i Comuni afferenti alle due Città metropolitane di Sassari e Cagliari e alle Province oggetto di riforma possano accertare le volontà dei territori interessati tramite referendum solo successivamente all'entrata in vigore della riforma e quando una delibera consiliare sia intervenuta, ma non abbia raggiunto l'unanimità, oppure, a richiesta, quando la delibera consiliare sia stata adottata all'unanimità o quando il Consiglio comunale non si sia espresso entro il termine indicato. Ogni considerazione di merito è preclusa dalla circostanza che il ricorso ha omesso di estendere la censura all'intera legge regionale, approvata in asserita lesione del procedimento rinforzato, limitandosi in modo contraddittorio a impugnare il solo art. 6. Tale intervento, infatti, non potrebbe ripristinare la tutela dei principi statutari asseritamente lesi, cosicché deve dirsi carente lo stesso interesse all'impugnazione, per come è stata coltivata dallo Stato. (Precedenti: S. 22/2022 - mass. 44582; S. 21/2020 - mass. 41451; S. 210/2015 - mass. 38574; S. 199/2014 - mass. 38075; S. 205/2011 - mass. 35727; S. 468/1994 - mass. 21197).
SENTENZA N. 68
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge della Regione autonoma Sardegna 12 aprile 2021, n. 7 (Riforma dell’assetto territoriale della Regione. Modifiche alla legge regionale n. 2 del 2016, alla legge regionale n. 9 del 2006 in materia di demanio marittimo e disposizioni urgenti in materia di svolgimento delle elezioni comunali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 14 giugno 2021, depositato in cancelleria il 23 giugno 2021, iscritto al n. 31 del registro ricorsi 2021 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 30, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Sardegna;
udito nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2022 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Mattia Pani per la Regione autonoma Sardegna;
deliberato nella camera di consiglio del 24 febbraio 2022.
Ritenuto in fatto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 14 giugno 2021 e depositato il 23 giugno 2021 (reg. ric. n. 31 del 2021), ha impugnato l’art. 6 della legge della Regione autonoma Sardegna 12 aprile 2021, n. 7 (Riforma dell’assetto territoriale della Regione. Modifiche alla legge regionale n. 2 del 2016, alla legge regionale n. 9 del 2006 in materia di demanio marittimo e disposizioni urgenti in materia di svolgimento delle elezioni comunali), in riferimento all’art. 43, secondo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna).
2.– Il ricorrente premette che con la legge della Regione Sardegna 4 febbraio 2016, n. 2 (Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna) il legislatore regionale aveva istituito la Città metropolitana di Cagliari (art. 17) e definito le circoscrizioni territoriali delle Province (art. 25), che, «fino alla loro definitiva soppressione», venivano fatte corrispondere, con alcune variazioni, a quelle antecedenti all’entrata in vigore della legge della Regione Sardegna 12 luglio 2001, n. 9 (Istituzione delle province di Carbonia-Iglesias, del Medio Campidano, dell’Ogliastra e di Olbia-Tempio).
Sottolinea l’Avvocatura generale come la legge reg. Sardegna n. 2 del 2016 avesse previsto direttamente numero, nome e circoscrizioni delle Province e della Città metropolitana, demandando al contempo alla Giunta regionale l’adozione di un atto amministrativo ricognitivo denominato «schema di assetto delle province», che – effettivamente approvato con successiva delibera n. 23/5 del 20 aprile 2016 (L.R. 4 febbraio 2016, n. 2 «Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna». Art. 25 «Circoscrizioni provinciali», Schema assetto province e città metropolitane) – aveva articolato il territorio regionale, in ossequio alla legge regionale indicata, nella Città metropolitana di Cagliari e nelle Province di Sassari, Nuoro, Oristano e Sud Sardegna.
3.– L’articolazione territoriale delineata da questa disciplina normativa è stata modificata dalla legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, il cui art. 2, comma 1, stabilisce che «[d]alla data di entrata in vigore della presente legge è riformato l’assetto territoriale complessivo definito ai sensi dell’articolo 25 della legge regionale 4 febbraio 2016, n. 2». Più precisamente, la nuova legge regionale ha provveduto alla istituzione della Città metropolitana di Sassari, alla modifica della circoscrizione territoriale della Città metropolitana di Cagliari, alla istituzione delle Province del Nord-Est Sardegna, dell’Ogliastra, del Sulcis Iglesiente e del Medio Campidano, alla modifica della circoscrizione territoriale della Provincia di Nuoro, e, infine, alla soppressione delle Province di Sassari e del Sud Sardegna.
Il comma 3 del medesimo art. 2 stabilisce, inoltre, che la Giunta regionale, entro trenta giorni dall’entrata in vigore della legge regionale, «aggiorna lo schema di riforma dell’assetto territoriale della Regione». Tale schema, che deve essere pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS), illustra l’articolazione del territorio regionale nelle Città metropolitane e nelle Province sopra individuate, attenendosi anche a quanto statuito nei successivi artt. 3, 4 e 5 della medesima legge regionale, norme, queste, che elencano i Comuni afferenti a ciascuno di tali enti.
4.– In tale contesto, si inserisce l’impugnato art. 6, rubricato «Accertamento della volontà dei territori interessati». Sottolinea l’Avvocatura generale come, in forza di tale disposizione, che si compone di sei commi, i Comuni contrari alle modifiche delle circoscrizioni territoriali previste dalla legge regionale n. 7 del 2021, e che intendano confluire in una Città metropolitana o Provincia limitrofa diversa, non possano esprimersi direttamente in relazione alle norme che tali modifiche hanno introdotto (artt. 3, 4 e 5), ma in relazione allo schema approvato dalla Giunta. Inoltre, questa volontà deve in primo luogo essere manifestata con delibere consiliari adottate all’unanimità (comma 1). Quando tale unanimità non sia raggiunta, si procede all’indizione di un referendum «consultivo» (comma 2), che, «in ogni caso», può essere indetto alla condizione che a richiederlo sia almeno un terzo degli elettori del Comune interessato (comma 3). Rileva l’Avvocatura dello Stato come tali atti di manifestazione della volontà dei territori incontrino termini perentori (trenta giorni per le delibere consiliari, novanta per il referendum richiesto da un terzo degli elettori del Comune), «tutti decorrenti dalla pubblicazione nel BURAS dello “schema di riforma dell’assetto territoriale”».
Decorsi inutilmente tali termini o in caso di delibere consiliari o referendum di segno modificativo rispetto allo schema, la Giunta deve, entro i successivi trenta giorni, nel primo caso confermare e nel secondo modificare lo schema stesso in conformità alle volontà espresse dai Consigli comunali o dal corpo elettorale.
5.– Chiarito il contenuto della disposizione impugnata, il ricorrente afferma che la stessa si porrebbe in contrasto con l’art. 43, secondo comma, dello statuto della Regione autonoma Sardegna, ove è stabilito che «[c]on legge regionale possono essere modificate le circoscrizioni e le funzioni delle province, in conformità alla volontà delle popolazioni di ciascuna delle province interessate espressa con referendum».
Secondo l’Avvocatura generale, la disposizione statutaria richiederebbe che la volontà popolare sulle variazioni delle circoscrizioni «provinciali (e metropolitane)» si manifesti «direttamente in relazione alle disposizioni di legge regionale che hanno stabilito la modifica» e che tale volontà si esprima attraverso l’istituto del referendum. Ciò premesso, passa ad articolare e illustrare le proprie censure.
5.1.– In primo luogo, afferma il ricorrente, il censurato art. 6 confliggerebbe con l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale, poiché non prevede, come vorrebbe quest’ultima norma, che, approvata dal Consiglio regionale la legge di variazione territoriale, il corpo elettorale sia chiamato, nell’ambito di un «tipico procedimento legislativo “rinforzato”», a manifestare il proprio assenso o dissenso rispetto alle «modifiche proposte»; e poiché non prevede, inoltre, che la legge regionale «possa entrare in vigore» solo se abbia ottenuto la maggioranza dei consensi al referendum.
«[B]en diversamente», la disciplina impugnata stabilisce, non già che le popolazioni interessate possano semplicemente assentire o dissentire rispetto alle modifiche proposte dalla legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, ma che debbano esprimere «una ben determinata volontà positiva diversa da quella contenuta nella legge regionale»; ciò che si tradurrebbe, sia nella richiesta di distacco dalla Città metropolitana o Provincia in cui il Comune è stato inserito ai sensi dello schema approvato dalla Giunta, sia nella contestuale opzione per l’accorpamento a diversa Città metropolitana o Provincia limitrofa. Un adempimento gravoso, sottolinea l’Avvocatura generale, che imporrebbe di raccogliere consenso anche sul passaggio delle popolazioni interessate ad una diversa circoscrizione, rendendo dunque vana la possibilità per le stesse di esprimersi sulla legge regionale di modifica.
5.2.– In secondo luogo, «e in subordine», la disposizione violerebbe l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale perché la volontà popolare verrebbe riferita non già alle previsioni contenute nella legge regionale, fonte cui l’art. 3, lettera b), dello statuto speciale demanda la competenza ad istituire e modificare Province e Città metropolitane, ma allo schema di riforma dell’assetto territoriale, atto amministrativo sostanzialmente «inutile», perché meramente ricognitivo della determinazione delle circoscrizioni «già direttamente operata dalla legge regionale». Tale atto frapporrebbe, secondo l’Avvocatura, «uno schermo tra la volontà popolare e il suo oggetto costituzionalmente determinato», ovverosia, appunto, la legge regionale, mentre il referendum, istituto di democrazia diretta e forma di «concorso diretto del corpo elettorale all’attività legislativa», non potrebbe essere indirizzato verso «un oggetto di rango non legislativo». Peraltro, poiché non potrebbe escludersi l’evenienza che la Giunta si discosti dalla legge, la disposizione impugnata potrebbe impedire il pieno dispiegarsi della volontà referendaria.
L’obiettivo di «derubricare» il referendum, «espungendolo dal procedimento legislativo», sarebbe poi fatto palese da ulteriori circostanze.
Il ricorrente si riferisce alla scelta del legislatore regionale di definirlo «consultivo», mentre si tratterebbe di referendum «necessariamente legislativo». Lo confermerebbe la sentenza n. 256 del 1989 di questa Corte, che ha qualificato quello relativo alle modifiche delle circoscrizioni territoriali delle Province come «referendum interno al procedimento legislativo regionale».
La finalità reale, prosegue l’Avvocatura, sarebbe quella di rendere la partecipazione popolare solo eventuale, subordinandola ad altri atti (la delibera non unanime del Consiglio comunale o la richiesta di un terzo degli elettori) e a termini perentori; mentre lo statuto disegnerebbe tali referendum come «parti integranti del procedimento legislativo “rinforzato”», da indire dunque d’ufficio dalla Regione una volta approvata la legge regionale di variazione dei territori.
Inoltre, secondo il ricorrente, la Giunta non sarebbe tenuta a rispettare un termine perentorio per l’adozione dello schema, e potrebbe pertanto differire sine die la consultazione popolare.
5.3.– In terzo luogo, l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale sarebbe violato perché l’impugnato art. 6 non contempla il referendum quale unico mezzo di manifestazione della volontà dei territori interessati. Le delibere consiliari, infatti, provengono da organi rappresentativi, e non potrebbero mai considerarsi equivalenti ad un istituto di democrazia diretta.
Né potrebbe consentire di superare la censura la circostanza che si possa «in ogni caso» procedere a referendum laddove lo richieda almeno un terzo degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune. Per essere autentico strumento di democrazia diretta, infatti, il referendum dovrebbe essere «incondizionato». La delibera unanime del Consiglio comunale – in quanto «fatto politico importante» – sarebbe invece capace di condizionare i cittadini nella scelta stessa di richiedere un referendum.
Analoghe considerazioni varrebbero per la delibera del Consiglio comunale che sia stata assunta senza l’unanimità. Anch’essa costituirebbe infatti un aggravio della procedura idoneo a influenzare gli elettori.
Conclude il ricorrente affermando come si sarebbe allora in presenza di «un classico caso in cui la democrazia rappresentativa ostacola la democrazia diretta».
5.4.– Da ultimo, oggetto di specifica censura è la prevista necessità, ai fini dello svolgimento del referendum di cui al comma 3, che vi sia la richiesta di almeno un terzo degli elettori del Comune. Si tratterebbe di un numero di proponenti molto alto, considerato anche che si tratta di adempimento da assolvere in tempi brevi. La norma contrasterebbe peraltro con quanto disposto dall’art. 20, comma terzo, della legge della Regione Sardegna 17 maggio 1957, n. 20 (Norme in materia di referendum popolare regionale), qualificata dal ricorrente come norma «attuativa dell’art. 43 Statuto». Secondo tale previsione, qualora non partecipi al referendum almeno un terzo degli aventi diritto, la proposta si intende respinta. A detta dell’Avvocatura generale, «la garanzia referendaria che l’art. 43 Statuto prevede» sarebbe allora vanificata dalla scelta della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 di far coincidere il numero minimo di elettori proponenti con il quorum partecipativo previsto dalla legge reg. Sardegna n. 20 del 1957 per tale tipologia di referendum.
Alla luce di tale ultimo rilievo, sarebbe specificamente viziato anche il comma 6 della norma impugnata, giacché, richiamando i soli artt. 4, 6 e 7 della legge reg. Sardegna n. 20 del 1957, e non l’art. 20 del medesimo atto normativo, il legislatore regionale avrebbe inteso escludere proprio l’applicabilità di quest’ultimo, che, come visto, prevede solo un quorum partecipativo e non un requisito minimo per l’indizione del referendum.
6.– Con atto depositato il 20 luglio 2021, si è costituita in giudizio la Regione autonoma Sardegna, chiedendo che il ricorso sia dichiarato improcedibile, inammissibile o, comunque, non fondato.
7.– In via preliminare, sottolinea la resistente come la legge reg. Sardegna n. 7 del 2016, in cui si inserisce la disposizione impugnata, non rappresenterebbe un intervento settoriale e parziale, riferito solo ad alcune porzioni del territorio, ma una «profonda e complessiva riforma» del sistema provinciale sardo, connessa anche all’istituzione di nuove Città metropolitane, livello di governo, del resto, non certamente esistente all’epoca di approvazione dello statuto speciale.
Ciò escluderebbe qualsivoglia violazione dell’art. 43 del medesimo statuto di autonomia, considerato che, in primo luogo, l’impugnato art. 6 non escluderebbe e anzi contemplerebbe la possibilità di ricorrere a referendum. Inoltre, l’impugnativa statale non si sarebbe preoccupata di indicare le modalità di referendum da utilizzare in relazione alle Città metropolitane, neppure evocate nel parametro statutario. Infine, l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale, facendo richiamo alla volontà espressa dalle popolazioni di «ciascuna delle province interessate», si riferirebbe a modifiche territoriali circoscritte (relative, peraltro, alle province indicate al primo comma: Cagliari, Nuoro e Sassari) e non, per l’appunto, a riforme complessive del territorio.
8.– Ciò premesso, la Regione autonoma Sardegna eccepisce in primo luogo l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse a ricorrere del Governo.
Il ricorrente non avrebbe infatti indicato, con adeguata argomentazione, di quale interesse sarebbe portatore nel contestare la legittimità costituzionale di una disposizione contenuta nella legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, tanto più perché ad essere evocata è solo la violazione di una norma statutaria.
Ulteriore ragione di inammissibilità deriverebbe dalla circostanza che lo Stato non avrebbe considerato quanto disposto dall’art. 3, lettera b), dello statuto speciale, introdotto nel corpo dello statuto medesimo con legge costituzionale 23 settembre 1993, n. 2 (Modifiche ed integrazioni agli statuti speciali per la Valle d’Aosta, per la Sardegna, per il Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-Alto Adige).
Secondo la difesa regionale, per effetto di tale novella, che ha previsto la potestà legislativa regionale primaria in materia di «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni», l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale sarebbe da considerare «superato». Ciò troverebbe conferma nella sentenza n. 230 del 2001 di questa Corte, secondo cui, «dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1993, in ambedue le Regioni ad autonomia differenziata in cui concretamente era prospettabile un problema di rideterminazione numerica delle articolazioni provinciali – vale a dire il Friuli-Venezia Giulia e, per l’appunto, la Sardegna […] – è stata affrontata la questione sul piano normativo, dando per scontata la portata più pregnante dell’innovazione statutaria derivante dalla previsione della legge costituzionale».
Concludendo sul punto, la resistente afferma allora che l’art. 3, lettera b), dello statuto legittimerebbe il legislatore regionale a istituire Città metropolitane e Province (modificando anche quelle «storiche» di Cagliari, Nuoro e Sassari) e a variare le relative circoscrizioni territoriali.
9.– Nel merito, per le medesime ragioni, la Regione autonoma Sardegna ritiene le censure del Governo non fondate, proprio alla luce dell’appena evocato art. 3, lettera b), dello statuto speciale.
Premette la resistente che, in forza di tale previsione statutaria, l’istituzione e la modifica delle Province incontrerebbe i limiti derivanti dalla necessaria armonia con le norme della Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica. Tra questi rientrerebbe senz’altro il principio del necessario coinvolgimento delle popolazioni interessate. Tuttavia, a differenza di quanto asserisce il ricorrente, il referendum non dovrebbe necessariamente inserirsi nel procedimento legislativo di istituzione e modifica delle Province.
A tal proposito viene richiamato un passo della già citata sentenza n. 230 del 2001 di questa Corte, dove si afferma, riferendosi alla normativa allora prevista, che «la legge regionale n. 4 del 1997 ha dettato una disciplina volta a ridefinire l’ordinamento provinciale nel suo territorio, in attuazione dell’art. 3, lettera b), dello statuto, nella formulazione risultante dalla legge costituzionale n. 2 del 1993. Questa legge della Regione, all’art. 1, comma 2, prevede che “l’istituzione di nuove province e la modifica delle circoscrizioni provinciali sono stabilite con legge regionale, su iniziativa dei comuni”, secondo vari procedimenti, aperti alla necessaria partecipazione delle comunità locali interessate, previsti dagli articoli successivi della legge». Tra questi, aggiunge la difesa regionale, il referendum, anch’esso definito dall’art. 7 della medesima legge regionale «consultivo» e anch’esso indetto in via eventuale.
Che il referendum non sia forma di consultazione necessaria sarebbe ulteriormente confermato dalla legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), che nemmeno contempla tale istituto.
9.1.– La Regione si sofferma ad ogni modo anche sul preteso contrasto tra la previsione impugnata e l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale.
9.1.1.– Anche in questa prospettiva, il ricorso dovrebbe essere considerato, in primo luogo, inammissibile, a causa di una carente motivazione delle censure e della oscurità dell’argomentazione (sono richiamate, tra le altre, le sentenze di questa Corte n. 88 e n. 52 del 2021, n. 180 e n. 106 del 2020, n. 286 e n. 232 del 2019, n. 161 e n. 114 del 2017 e n. 40 del 2016). In particolare, il ricorrente non avrebbe spiegato in che modo l’impugnata disposizione inciderebbe negativamente sulla articolazione organizzativa della Regione o arrecherebbe pregiudizio all’interesse delle comunità interessate allo svolgimento del referendum. A quest’ultimo proposito, si sottolinea infatti come la consultazione referendaria non sarebbe affatto esclusa dalla disciplina impugnata.
9.1.2.– Quanto al merito delle censure, che evocherebbero la violazione di un obbligo generalizzato alla consultazione popolare «preventiva e/o rafforzativa dell’iter di approvazione della legge», si tratterebbe di doglianze prive di fondamento. L’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale contemplerebbe, infatti, unicamente l’ipotesi di riforme territoriali settoriali e parziali, in questa prospettiva dovendosi intendere il riferimento alla volontà delle popolazioni di «ciascuna delle province interessate».
Il riassetto territoriale disposto dalla legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 non presenterebbe invece queste caratteristiche, trattandosi di riforma complessiva.
Non condivisibile sarebbe, dunque, la tesi propugnata dal ricorrente, che, basandosi apoditticamente sul «testo storico» dell’art. 43, secondo comma, asserisce l’esistenza della obbligatorietà preventiva e generalizzata del referendum.
Questa stessa Corte, aggiunge la resistente, avrebbe considerato la distinzione tra le due ipotesi, ovverosia della modifica di singole circoscrizioni, da una parte, e delle riforme generali, dall’altra.
Con la sentenza n. 220 del 2013, è stato infatti affermato che «la modificazione delle singole circoscrizioni provinciali richiede, a norma dell’art. 133, primo comma, Cost., l’iniziativa dei Comuni interessati». Secondo la Regione, in una fattispecie diversa dalla ipotesi di riforma complessiva del territorio di cui qui si discute, l’istituto della «iniziativa comunale parcellizzata» previsto dall’art. 133 Cost. sarebbe da considerarsi alla stregua del referendum previsto dall’art. 43, secondo comma, dello statuto regionale.
A ragionare diversamente, ne risulterebbe frustrata la stessa potestà legislativa regionale in materia di assetto organizzativo del territorio, posto che «sarebbe sufficiente la valutazione di segno contrario resa dalla maggioranza di una delle popolazioni interessate dalla riforma […] per rimettere complessivamente in discussione quanto invece condiviso da tutte le altre circoscrizioni territoriali presenti e favorevoli alla riorganizzazione generale».
La Regione resistente richiama, a sostegno delle proprie argomentazioni, la sentenza n. 50 del 2015 di questa Corte, che, pronunciandosi sulla legge n. 56 del 2014, (disciplina statale che aveva dato avvio ad una nuova articolazione degli enti territoriali), avrebbe giustificato la mancata applicazione delle regole procedurali dettate dall’art. 133 Cost. proprio in quanto «riferibili solo ad interventi singolari, una volta rispettato il principio, espresso da quelle regole, del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate, anche se con forme diverse e successive, al fine di consentire il predetto avvio in condizioni di omogeneità sull’intero territorio nazionale».
Secondo la difesa regionale, la «omogeneità» tra l’art. 133 Cost. e l’art. 43, secondo comma, dello statuto della Regione autonoma Sardegna consentirebbe di estendere alla legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 e alla disposizione statutaria asseritamente violata il ragionamento svolto da questa Corte nella citata sentenza. D’altro canto, il referendum preventivo applicato ad una riforma complessiva, conclude la Regione, la renderebbe irrealizzabile, potendo le volontà dei diversi territori interessati entrare in conflitto tra loro.
Peraltro, il legislatore regionale sarebbe intervenuto in materia anche in forza di quanto stabilisce l’art. 1, comma 145, della legge n. 56 del 2014, ai cui sensi le Regioni a statuto speciale «adeguano i propri ordinamenti interni ai principi della medesima legge». Infatti, la legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 avrebbe correttamente previsto la partecipazione popolare anche in favore delle popolazioni interessate dalle modifiche concernenti le Città metropolitane. A fronte di ciò, invece, un’interpretazione letterale e rigida dell’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale – quale appunto quella assunta dal ricorrente – imporrebbe di prevedere il referendum solo per le popolazioni incluse nelle Province, con un «effetto di irrealizzabilità sostanziale».
10.– La Regione contesta altresì la tesi dell’Avvocatura generale secondo cui illegittimamente il legislatore regionale avrebbe riferito la manifestazione di volontà dei Comuni interessati allo schema della Giunta anziché alle disposizioni legislative.
La censura – anzitutto inammissibile per il suo carattere ipotetico, laddove si fa riferimento all’evenienza che lo schema non corrisponda alla legge – sarebbe altresì non fondata. Il ricorrente assumerebbe erroneamente che lo schema in questione abbia portata «costitutiva», mentre la legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 – sottolinea la difesa della Regione – avrebbe disciplinato il nuovo assetto territoriale «con validità immediata», demandando poi alla Giunta l’adozione dello schema solo per non dover, nell’eventualità sia necessario recepire i risultati dei referendum, intervenire sul testo della legge per la nuova elencazione dei Comuni facenti parte delle circoscrizioni territoriali.
Per questa ragione, conclude la resistente, il referendum previsto dalla disposizione impugnata avrebbe per oggetto proprio la legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 e non lo schema di riforma approvato dalla Giunta.
11.– Da ultimo, la resistente asserisce l’inammissibilità della censura relativa al mancato richiamo – ad opera dell’art. 6, comma 6, della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 – all’art. 20 della legge reg. Sardegna n. 20 del 1957, in quanto, in tal modo, il ricorso eccepirebbe la violazione di una legge ordinaria, e non di una norma di rango costituzionale. Nel merito, la censura sarebbe comunque non fondata, in ragione del fatto che il referendum disciplinato dalla disposizione impugnata, come in precedenza la difesa regionale avrebbe dimostrato, costituirebbe attuazione dell’art. 3, lettera b), dello statuto regionale, e non dell’art. 43, secondo comma, del medesimo.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, in riferimento all’art. 43, secondo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), l’art. 6 della legge della Regione autonoma Sardegna 12 aprile 2021, n. 7 (Riforma dell’assetto territoriale della Regione. Modifiche alla legge regionale n. 2 del 2016, alla legge regionale n. 9 del 2006 in materia di demanio marittimo e disposizioni urgenti in materia di svolgimento delle elezioni comunali).
1.1.– L’articolo in esame è l’unica disposizione impugnata di una più ampia disciplina attraverso cui la Regione autonoma Sardegna, modificando l’articolazione territoriale oggetto di precedente normativa (legge della Regione autonoma Sardegna 4 febbraio 2016, n. 2, recante «Riordino del sistema delle autonomie locali della Sardegna»), ha complessivamente ridefinito l’assetto degli enti di area vasta (Città metropolitane e Province), istituendone e sopprimendone taluni e modificando le relative circoscrizioni.
La riorganizzazione in parola è sancita all’art. 2, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, che chiarisce come «[d]alla data di entrata in vigore della presente legge è riformato l’assetto territoriale complessivo» precedentemente in vigore.
Quanto alle Città metropolitane, la disposizione citata prevede che sia «istituita» la Città metropolitana di Sassari e introduce una modifica della circoscrizione territoriale della già esistente Città metropolitana di Cagliari. Quanto alle Province, «sono istituite» quelle del Nord-Est Sardegna, dell’Ogliastra, del Sulcis Iglesiente e del Medio Campidano, che si aggiungono alle già esistenti Province di Oristano e di Nuoro, quest’ultima interessata anche da una variazione territoriale.
Infine, in conseguenza di tali mutamenti, l’art. 2, comma 2, della indicata legge regionale dispone la soppressione delle esistenti Province di Sassari e del Sud Sardegna.
L’art. 2, comma 3, stabilisce poi che, entro trenta giorni dall’entrata in vigore della legge regionale, la Giunta «aggiorna lo schema di riforma dell’assetto territoriale della Regione». Tale schema, atto amministrativo che si affianca alla legge regionale (in funzione, peraltro non chiara, sia ricognitiva che “integrativa” di essa), deve così suddividere il territorio della Sardegna nelle due Città metropolitane di Cagliari e Sassari e nelle sei Province di Nuoro, Oristano, Nord-Est Sardegna, Ogliastra, Sulcis Iglesiente e Medio Campidano; deve inoltre conformarsi a quanto disposto dai successivi artt. 3, 4 e 5 della legge, che individuano ed elencano puntualmente i Comuni afferenti alle due Città metropolitane di Sassari e Cagliari e alle Province oggetto di riforma.
In questo complessivo quadro si inserisce, dunque, l’unica disposizione impugnata, ovverosia l’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, rubricato «Accertamento della volontà dei territori interessati».
Il comma 1 di tale articolo prevede che, con una deliberazione del Consiglio comunale, adottata «all’unanimità» entro trenta giorni dalla data di pubblicazione sul Bollettino ufficiale della Regione autonoma della Sardegna (BURAS) dello schema approvato dalla Giunta regionale, i Comuni indicati negli artt. 3, 4 e 5 della legge stessa possono esercitare l’«iniziativa per il distacco», rispettivamente, dalla Città metropolitana o dalla Provincia in cui sono stati inclusi e «optare per l’accorpamento» in altra Città metropolitana o Provincia limitrofa.
Al comma 2 è stabilito che, se l’unanimità non sia stata raggiunta, «[s]i procede a referendum consultivo delle popolazioni dei comuni che hanno esercitato l’iniziativa per il distacco», da svolgersi in un’unica tornata per tutti i Comuni interessati.
«[I]n ogni caso», è precisato al comma 3, si procede a referendum consultivo quando ne faccia richiesta almeno un terzo degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune, entro novanta giorni dalla scadenza del termine di cui al comma 1, cioè del termine previsto per l’approvazione delle delibere consiliari. Anche in questo caso il Presidente della Regione indice i referendum in un’unica tornata.
Secondo il comma 4, il quesito referendario è definito nella deliberazione consiliare (laddove intervenuta) oppure nella richiesta di referendum (quando il Consiglio comunale non si sia pronunciato entro il termine previsto). La proposta sottoposta a referendum si intende approvata «se partecipa al voto la metà più uno degli aventi diritto e se ottiene la risposta affermativa della maggioranza dei voti validi».
Entro trenta giorni dallo svolgimento del referendum o dalla scadenza del termine per la richiesta referendaria, a tenore del comma 5, la Giunta «conferma lo schema di riforma […] o lo approva con le modifiche derivanti dalle volontà espresse dei consigli comunali o del corpo elettorale». Il nuovo «definitivo» schema deve essere pubblicato sul BURAS entro cinque giorni dalla sua approvazione.
Al comma 6, infine, è stabilito che il referendum si svolge secondo alcune delle disposizioni, puntualmente richiamate, della legge Regione Sardegna 17 maggio 1957, n. 20 (Norme in materia di referendum popolare regionale) e della legge della Regione Sardegna 30 ottobre 1986, n. 58 (Norme per l’istituzione di nuovi comuni, per la modifica delle circoscrizioni comunali e della denominazione dei comuni e delle frazioni). Tra queste, ed è oggetto di contestazione da parte dello Stato, non è richiamato l’art. 20 della legge reg. Sardegna n. 20 del 1957, ai cui sensi «[q]ualora al referendum non partecipi almeno un terzo degli elettori, la proposta sottoposta a referendum si intende respinta».
1.2.– Come si vede, il procedimento disciplinato dall’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 per l’«accertamento delle volontà dei territori interessati» prevede, sia iniziative dei singoli Comuni, che devono assumere la forma di delibere dei rispettivi Consigli, sia l’intervento delle popolazioni interessate tramite referendum.
Quanto a quest’ultimo, esso è obbligatorio se la delibera consiliare non abbia raggiunto l’unanimità. In questo caso, infatti, il comma 2 dell’art. 6 dispone che la deliberazione consiliare sia trasmessa alla Giunta e che «il Presidente della Regione con proprio decreto indice […] i referendum».
In tutti gli altri casi («in ogni caso») lo svolgimento del referendum è eventuale, perché, ai sensi del comma 3, è condizionato alla circostanza che ne «faccia richiesta almeno un terzo degli elettori».
Dal tenore complessivo dell’art. 6 della legge regionale risulta, insomma, che il corpo elettorale deve essere interpellato se una delibera consiliare sia intervenuta, ma non abbia raggiunto l’unanimità; può invece esserlo, a richiesta, quando la delibera consiliare sia stata adottata all’unanimità o quando il Consiglio comunale non si sia espresso entro il termine indicato.
È inoltre previsto che, all’esito della fase deputata all’accertamento della volontà dei territori interessati dalla riforma, la Giunta riapprovi lo schema di riforma dell’assetto territoriale, cioè l’atto amministrativo che ha la ricordata funzione “ricognitivo-integrativa” della legge regionale, già adottato ai sensi dell’art. 2, comma 3: confermandone o modificandone l’originaria formulazione, a seconda della volontà espressa dai territori interessati. Lo schema «definitivo», infine, dovrà essere pubblicato sul BURAS entro cinque giorni dalla sua approvazione.
2.– Secondo il ricorrente, l’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 sarebbe lesivo dell’art. 43, secondo comma, dello statuto di autonomia della Regione Sardegna, ai cui sensi «[c]on legge regionale possono essere modificate le circoscrizioni e le funzioni delle province, in conformità alla volontà delle popolazioni di ciascuna delle province interessate espressa con referendum».
Sebbene affiancata e, a tratti, intrecciata con rilievi critici ulteriori, come si dirà, una censura, in particolare, ha un’evidente precedenza logica rispetto a ogni altra, fondandosi su una precisa interpretazione della disposizione statutaria appena ricordata. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, infatti, per qualunque intervento sull’assetto degli enti territoriali che implichi modifica delle circoscrizioni provinciali, l’art. 43, secondo comma, dello statuto speciale prescriverebbe un «tipico procedimento legislativo “rinforzato”», di cui il referendum costituirebbe fase necessaria.
Ciò implica che, approvata dal Consiglio regionale una delibera legislativa di modifica delle circoscrizioni provinciali (o metropolitane), il corpo elettorale dovrebbe essere necessariamente chiamato a pronunciarsi in merito, e la legge regionale potrebbe entrare in vigore solo laddove abbia ottenuto il favore della maggioranza dei votanti al referendum.
Anche se non trae a chiare lettere questa conclusione, il ricorso implicitamente indica che, invece, il procedimento delineato dall’art. 6 della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 si discosta da quello disegnato, in tesi, dalla norma statutaria, poiché prevedrebbe che le popolazioni interessate dalle modifiche territoriali siano coinvolte solo successivamente all’entrata in vigore della riforma dell’assetto territoriale complessivo.
In effetti, secondo il ricordato art. 2 della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, la riforma in parola è ormai entrata in vigore, essendo stati istituiti e analiticamente composti (ai sensi dei successivi artt. 3, 4 e 5) i nuovi enti territoriali. L’art. 6, per parte sua, consente l’avvio di iniziative di distacco dei territori interessati solo «[e]ntro trenta giorni dalla data di pubblicazione sul BURAS dello schema di riforma dell’assetto territoriale»; ma, a sua volta, tale atto amministrativo, che assume (come già ricordato) una (sia pur non chiara) funzione “ricognitivo-integrativa” della legge di modifica, è aggiornato «entro trenta giorni dall’entrata in vigore» della legge stessa.
In tal modo, in asserito contrasto con lo statuto speciale, il referendum verrebbe espunto dal procedimento di formazione della legge regionale di modifica dell’assetto territoriale degli enti in questione, potendosi svolgere solo a valle di esso.
Ciò sarebbe reso palese – questo è espressamente sottolineato dal ricorrente – anche dalla scelta del legislatore regionale di qualificarlo come «consultivo» e di renderlo eventuale, subordinandolo, cioè, all’eventualità di una delibera non unanime del Consiglio comunale o alla richiesta di un terzo degli elettori. Ciò a dispetto, ancora una volta, del carattere invece «interno al procedimento legislativo» di tale referendum (il ricorrente trae l’espressione dalla sentenza n. 256 del 1989 di questa Corte).
2.1.– L’Avvocatura dello Stato affianca a questa prima censura una serie di ulteriori rilievi, che attengono non già al momento in cui il referendum deve o può essere attivato (in relazione al procedimento di formazione della legge regionale), bensì al concreto atteggiarsi delle condizioni e delle modalità attraverso le quali le popolazioni interessate sono o possono essere chiamate a pronunciarsi.
Così, osserva che l’art. 6, anziché consentire alle popolazioni interessate di esprimersi con un semplice assenso o dissenso rispetto al contenuto della modifica territoriale, le obbligherebbe a «manifestare una ben determinata volontà positiva diversa da quella contenuta nella legge regionale». Chiederebbe infatti loro di esprimersi, oltre che per il distacco dalla Città metropolitana o Provincia cui siano state assegnate, anche in favore dell’assegnazione del territorio ad un’altra Città metropolitana o Provincia limitrofa: un adempimento complesso, che costringerebbe a raccogliere un consenso anche sulla destinazione ad una diversa circoscrizione, ciò che rischierebbe di vanificare la reale possibilità, per le comunità territoriali, di pronunciarsi sulle variazioni previste dal legislatore.
Inoltre, l’art. 6 manifesterebbe l’intento di svilire («derubricare») il significato del referendum, perché le popolazioni interessate non vengono chiamate a pronunciarsi direttamente sulle disposizioni legislative che hanno introdotto le variazioni territoriali (gli artt. 3, 4 e 5 della legge regionale in esame), ma sullo «schema di riforma dell’assetto territoriale» adottato dalla Giunta: come si è visto, atto amministrativo successivo che frapporrebbe «uno schermo tra la volontà popolare e il suo oggetto costituzionalmente determinato», cioè, appunto, la legge regionale. Non potendosi peraltro escludere, aggiunge il ricorrente, che la Giunta si discosti dal dato legislativo, adottando uno schema illegittimo, oppure che disattenda il termine indicato dalla legge regionale per la sua approvazione.
Ancora, lamenta l’Avvocatura generale dello Stato che l’art. 6 non prevede il referendum quale unico e incondizionato mezzo di accertamento della volontà delle popolazioni interessate. La disposizione stabilisce infatti che a potersi esprimere sia, in primo luogo, il Comune, mediante una deliberazione unanime del Consiglio. Sebbene anche in questo caso il referendum non sia inibito, non sarebbe affatto irrilevante la circostanza che, dati i lunghi tempi necessari alla raccolta delle firme, lo stesso sia preceduto dalla decisione del Consiglio comunale. Quest’ultima deliberazione costituirebbe «un fatto politico importante», capace di limitare la stessa determinazione degli elettori ad attivarsi per richiedere il referendum.
Analogamente, anche la delibera non unanime del Consiglio sarebbe idonea a condizionare gli elettori, costituendo peraltro un inutile aggravio procedurale.
In definitiva, il ricorso si duole, in tal caso, della indebita interferenza di istituti propri della democrazia “rappresentativa” (l’intervento della delibera consiliare) sulla manifestazione tipica di democrazia diretta (il referendum).
Ad ostacolare decisivamente il ricorso al referendum (nelle ipotesi in cui non previsto d’ufficio) sarebbe, poi, la pretesa della necessaria iniziativa di almeno un terzo degli elettori, cioè di un numero di firme ritenuto molto alto, anche perché da raccogliere in tempi brevi.
Da ultimo, la previsione contrasterebbe anche con quanto disposto dall’art. 20, comma 3, della legge reg. Sardegna n. 20 del 1957, che il ricorrente considera norma «attuativa dell’art. 43 Statuto». Tale ultima disposizione stabilisce che il referendum si intende respinto qualora non vi prenda parte almeno un terzo degli aventi diritto. La circostanza che l’art. 20 non sia richiamato dalla disposizione impugnata attesterebbe la volontà di escluderne l’applicazione. Il legislatore regionale avrebbe così previsto non già che per la validità del referendum sia necessaria la partecipazione al voto di un terzo degli elettori, ma, in spregio alla «garanzia referendaria» prevista dall’art. 43 dello statuto, che il referendum non possa nemmeno essere indetto senza la sottoscrizione di un terzo degli elettori.
3.– Tutto ciò premesso, il ricorso va dichiarato inammissibile per una ragione decisiva, ulteriore e logicamente preliminare rispetto a quelle poste a fondamento delle molteplici eccezioni di inammissibilità dedotte dalla Regione. Essa attiene al confronto tra le motivazioni poste a base della censura principale sviluppata nel ricorso stesso (esposta al precedente punto 2) e l’oggetto cui l’impugnazione ha scelto di limitarsi.
Nella censura che, dal punto di vista logico, assorbe tutte le altre, lamenta il ricorrente che la legge reg. Sardegna n. 7 del 2021, di riforma dell’assetto degli enti territoriali regionali, non abbia rispettato l’art. 43, secondo comma, dello statuto sardo, il quale prescriverebbe, per qualunque modifica di tale assetto implichi variazioni delle circoscrizioni provinciali, un «tipico procedimento legislativo “rinforzato”», di cui il referendum costituirebbe fase necessaria.
Il ricorrente è ben consapevole, inoltre, della circostanza che la legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 non configura affatto il referendum come fase necessaria del procedimento legislativo volto alla realizzazione delle variazioni territoriali, ma, assai diversamente, lo conforma, nell’art. 6, come referendum successivo all’entrata in vigore della riforma, assoggettandolo altresì a varie condizioni e limiti.
Tuttavia, contraddittoriamente, lo stesso ricorrente limita l’oggetto della propria impugnativa allo stesso art. 6, senza estendere la censura all’intera legge, o quanto meno alle disposizioni di essa che hanno definito le variazioni territoriali, pur partendo dalla premessa che tale normativa sia stata approvata in lesione di una fase procedimentale essenziale, statutariamente prevista.
In simili condizioni, questa Corte può esimersi dall’affrontare, non solo le specifiche eccezioni di inammissibilità avanzate dalla Regione resistente, ma anche i vari argomenti di merito, sui quali tanto il ricorrente che la stessa Regione hanno ampiamente disputato: il significato originario e quello attuale dell’art. 43 dello statuto regionale, anche in rapporto al novellato art. 3 del medesimo statuto, che attribuisce alla Regione potestà legislativa primaria quanto all’ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni; se il procedimento ex art. 43, secondo comma, dello statuto, debba applicarsi a qualunque variazione, anche complessiva, delle circoscrizioni territoriali (come asserisce il ricorrente), oppure solo a quelle di limitata estensione (come obietta la Regione); quale rapporto intercorra tra delibere di iniziativa dei Consigli comunali e indizione del referendum, ai sensi dell’art. 6 della legge regionale; quale realmente sia l’“oggetto” del referendum, se la legge regionale di modifica oppure lo schema di riforma approvato dalla Giunta; quale sia, infine, la relazione tra questi due atti.
Ogni considerazione di merito su tutti questi aspetti e profili è preclusa proprio dalla circostanza che il ricorso si è limitato ad impugnare l’indicato art. 6, che disciplina la procedura di accertamento della volontà dei territori interessati, ed ha omesso di estendere la censura all’intera legge regionale, approvata in asserita lesione del procedimento rinforzato, in tesi previsto dallo statuto, o quanto meno non vi ha coinvolto le disposizioni di essa che hanno definito le variazioni territoriali (un caso analogo, sia pur in un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, nella sentenza n. 468 del 1994).
In tal modo, il ricorso si appalesa inammissibile per contraddittorietà e inidoneità dell’intervento invocato «a garantire la realizzazione del risultato avuto di mira» dal ricorrente (così la sentenza n. 210 del 2015, sia pur nell’ambito di un giudizio in via incidentale e, similmente, le sentenze n. 22 del 2022 e n. 21 del 2020). Tale intervento, infatti, non potrebbe ripristinare la tutela dei principi statutari asseritamente lesi, cosicché, in ultima analisi, deve dirsi carente lo stesso interesse all’impugnazione, per come è stata coltivata dallo Stato (nel giudizio in via principale, sulla carenza di interesse all’impugnazione per la inutilità della declaratoria di illegittimità costituzionale richiesta, sentenze n. 199 del 2014 e n. 205 del 2011).
Infatti, anche nell’ipotesi di accoglimento delle ragioni del ricorrente, la sola caducazione dell’intero art. 6 impugnato, o di parti di esso – i cui contenuti normativi, peraltro, non hanno valenza generale, ma sono strettamente legati alla specifica variazione territoriale introdotta dalla legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 – non potrebbe di certo restaurare il principio affermato nell’atto di impugnazione, cioè la partecipazione necessaria delle popolazioni interessate, attraverso il referendum, al procedimento di formazione della legge regionale. La legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 resterebbe complessivamente in vigore, immune da ogni censura, con le sue variazioni territoriali ormai produttive di effetti giuridici, circostanza, quest’ultima, confermata dalla stessa difesa regionale, quando asserisce che la legge n. 7 del 2021 ha disposto il nuovo assetto territoriale «con validità immediata». Ed anzi, il risultato finale cui l’accoglimento del ricorso condurrebbe sarebbe, paradossalmente, l’espunzione totale o parziale, dalla legge regionale stessa, delle procedure dirette ad assicurare, comunque sia, la possibilità di un accertamento della volontà delle popolazioni interessate dalle variazioni in discussione.
Del resto, nell’eventualità dell’accoglimento della questione, promossa con riferimento al solo art. 6, non sarebbe ipotizzabile – e, peraltro, l’Avvocatura generale dello Stato non l’ha chiesto – il ricorso all’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ai fini della declaratoria d’illegittimità costituzionale conseguenziale delle disposizioni della legge reg. Sardegna n. 7 del 2021 che hanno stabilito le variazioni territoriali in oggetto.
Occorre anzitutto considerare i limiti ristretti di utilizzo di questo istituto in un giudizio di legittimità costituzionale promosso in via principale. Nel caso di specie non si verserebbe nelle ipotesi del tutto particolari in cui la dichiarazione d'illegittimità costituzionale dovrebbe conseguenzialmente estendersi a disposizioni non impugnate ma avvinte da «stretta ed esclusiva dipendenza funzionale» con quella (sola) censurata, oppure a norme accessorie, prive di autonomo rilievo (sentenze n. 77 del 2021, n. 245 e 36 del 2017). Si presenterebbe, invece, una situazione del tutto opposta, in cui l’illegittimità costituzionale della norma che disciplina le modalità di svolgimento del referendum – in tal senso “accessoria” rispetto alle scelte fondamentali circa le variazioni territoriali – dovrebbe comportare anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni, non impugnate, che tali variazioni hanno introdotto e che costituiscono pertanto presupposto della sola disposizione impugnata: ma, all’evidenza, non appartiene ai compiti di questa Corte né “completare” l’oggetto di un ricorso in via principale, né, in un caso del genere, estendere l’impugnativa o integrarla al di là dei termini in cui essa è proposta.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6 della legge della Regione Sardegna 12 aprile 2021, n. 7 (Riforma dell’assetto territoriale della Regione. Modifiche alla legge regionale n. 2 del 2016, alla legge regionale n. 9 del 2006 in materia di demanio marittimo e disposizioni urgenti in materia di svolgimento delle elezioni comunali), promosse, in riferimento all’art. 43, secondo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2022.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA