Il differimento del pagamento del Trattamento di Fine Servizio (T.F.S.) ai dipendenti pubblici cessati dall'impiego per raggiunti limiti di età o di servizio, contrasta con il principio costituzionale della giusta retribuzione.
È quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 130 depositata il 23 giugno 2023.
La pronuncia dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997 e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni. Le questioni erano state sollevate dal Tribunale amministrativo per il Lazio, sezione terza quater, in riferimento all’art. 36 della Costituzione.
La Consulta ha precisato che il principio della giusta retribuzione comprende non solo la congruità dell'ammontare corrisposto, ma anche la tempestività della erogazione.
Il TFS costituisce una componente essenziale della retribuzione dei lavoratori che ha lo scopo di sopperire alle particolari esigenze del lavoratore in una fase più vulnerabile della sua vita.
La Corte ha concluso che questa normativa, che era stata introdotta per esigenze contingenti di consolidamento dei conti pubblici, finisce per aggravare ulteriormente il vulnus causato dalla ritardata erogazione del TFS.
Per la UIL la sentenza costituisce "un risarcimento per le migliaia di lavoratrici e lavoratori pubblici che ancora, a distanza variabile dai 2 ai 7 anni, stanno aspettando di ricevere il loro salario differito”. Il sindacato chiede un intervento immediato al Parlamento e al Governo per superare il differimento del T.F.S., che rappresenta "una grave penalizzazione per i dipendenti pubblici e un’appropriazione indebita da parte dello Stato”.
SENTENZA N. 130
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, nel procedimento vertente tra A. R., il Ministero dell’interno e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visti gli atti di costituzione di A. R. e dell’INPS, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, di E. M. e della Federazione Confsal-Unsa;
udito nell’udienza pubblica del 9 maggio 2023 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;
uditi gli avvocati Massimo Zhara Buda per A. R., Piera Messina e Gino Madonia per l’INPS, Antonio Mirra per E. M. e per la Federazione Confsal-Unsa, e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, ha sollevato, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122.
1.1.– Il rimettente riferisce di essere investito della decisione sul ricorso con il quale A. R., dirigente della Polizia di Stato cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, ha chiesto il pagamento del trattamento di fine servizio senza il differimento e la rateizzazione previsti dalle disposizioni censurate.
In punto di rilevanza, il giudice a quo assume che l’applicazione delle norme in scrutinio, la cui chiarezza testuale preclude una interpretazione adeguatrice, condurrebbe al rigetto del ricorso, con conseguente dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al ricorrente per effetto della cessazione dal rapporto di servizio.
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente deduce che il dubbio di legittimità costituzionale «è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riguardo alla sentenza n. 159 del 25 giugno 2019», la quale, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle stesse norme qui censurate, sia pure nella parte in cui si riferiscono ai lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, ha affermato che la disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di impiego «ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata».
Il TAR Lazio ricorda, altresì, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le indennità di fine servizio costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita al momento della cessazione dall’impiego, al fine di agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.
Il rimettente argomenta che «una retribuzione corrisposta con ampio ritardo ha per il lavoratore una utilità inferiore a quella corrisposta tempestivamente».
Il carattere di retribuzione differita riconosciuto alle indennità di fine rapporto comporterebbe che anche queste ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e che non possano essere scaglionate nel tempo «strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del lavoro». Ciò, specie ove si consideri che, di norma, con il trattamento economico in questione il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in età avanzata, si propone di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di far fronte ad impegni finanziari già assunti.
Il giudice a quo ricorda, quindi, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una normativa come quella in esame può superare lo scrutinio di legittimità costituzionale solo se opera in un tempo definito e se è giustificata da una crisi contingente.
In ultimo, illustrati gli interventi normativi che hanno modificato le disposizioni censurate in senso progressivamente peggiorativo per il lavoratore pubblico, il rimettente conclude che la previsione di un pagamento rateizzato comprime in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., «non essendo sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere strutturale».
2.– Nel giudizio si è costituito A. R., ricorrente nel giudizio principale, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.
La parte richiama, a sua volta, la sentenza n. 159 del 2019 di questa Corte per evidenziare come la stessa abbia lasciato impregiudicate le questioni di legittimità costituzionale della normativa all’odierno esame, nella parte in si riferisce ai dipendenti cessati dall’impiego per raggiungimento dei limiti di età e di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.
Il pagamento ritardato dei trattamenti di fine servizio – i quali costituiscono retribuzione differita – si porrebbe, pertanto, in contrasto con il principio di proporzionalità della retribuzione, espresso dall’art. 36 Cost., e, al contempo, attesa la sua natura previdenziale, con il principio di adeguatezza dei mezzi per la vecchiaia dettato dall’art. 38 Cost.
La parte privata deduce che soltanto nei primi anni di vigenza delle misure oggetto di censura il legislatore ha conseguito l’obiettivo di contenimento della dinamica della spesa corrente e di riequilibrio della finanza pubblica, mentre, una volta che le stesse misure sono entrate a regime, l’effetto positivo è cessato, «perché l’indebitamento è stato semplicemente reso strutturale, senza alcun vantaggio economico nella gestione corrente».
3.– Nel giudizio si è costituito anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte resistente nel processo a quo, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni sollevate.
3.1.– L’INPS rileva, anzitutto, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente, secondo il quale la prestazione che viene nella specie in rilievo costituirebbe un trattamento di fine rapporto, inteso come «mera retribuzione differita», anziché un trattamento di fine servizio.
La prestazione in scrutinio – si osserva – coincide, per contro, con l’indennità di buonuscita istituita dal decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), la cui speciale disciplina ne impedisce l’assimilazione al trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 del codice civile. Ciò in quanto, a differenza di quest’ultimo, la prestazione in esame è erogata da un ente previdenziale terzo e, dunque, da un soggetto distinto sia dal datore di lavoro, sia dal dipendente.
L’Istituto evidenzia, ancora, che il trattamento in esame è più vantaggioso di quello privatistico, perché viene parametrato all’ultima retribuzione spettante al dipendente prima del suo collocamento a riposo, che, di norma, è la più elevata.
Tale maggiore vantaggiosità si rivelerebbe anche sotto il profilo fiscale, posto che l’art. 24 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, ha introdotto una parziale detassazione del solo trattamento di fine servizio, «sotto forma di riduzione dell’aliquota determinata ai sensi dell’articolo 19 comma 2-bis del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), da applicarsi all’imponibile dei trattamenti di fine servizio (TFS) con importo fino a 50.00,00 euro».
Un ulteriore elemento di differenziazione andrebbe individuato nell’essere l’indennità di buonuscita alimentata da un contributo previdenziale obbligatorio, pari al 9,60 per cento della base contributiva, gravante sull’ente datore di lavoro, il quale si rivale sul dipendente in misura del 2,50 per cento della medesima base contributiva.
Argomenta, ancora, l’Istituto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, per l’indennità di buonuscita non è contemplato il diritto all’anticipazione della prestazione, né è stata mai prevista la possibilità di ottenerne una parte in busta paga, come invece disposto dalla legge di stabilità per l’anno 2015 per i lavoratori privati.
A dimostrazione che il trattamento di fine servizio non potrebbe essere assimilato al trattamento di fine rapporto e che, quindi, non avrebbe natura di retribuzione differita, l’INPS evoca la giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile alla fattispecie in scrutinio il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali.
Dalla mancata considerazione, da parte del rimettente, delle illustrate peculiarità dell’indennità di buonuscita deriverebbe l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
3.2.– Le questioni sarebbero, comunque, non fondate, in quanto la disciplina censurata sarebbe conforme al principio di solidarietà, specie ove si abbia riguardo alla grave crisi in cui verserebbe il sistema previdenziale.
Nel caso di specie dovrebbero, pertanto, trovare applicazione i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 173 del 2016 in tema di contributo di solidarietà sulle pensioni di importo più elevato, alla stregua dei quali la dilazione del pagamento introdotta dalle disposizioni censurate non contrasterebbe con i principi di ragionevolezza, di affidamento e di tutela previdenziale espressi dagli artt. 3 e 38 Cost.
D’altro canto, prosegue l’INPS, come confermato dalla citata sentenza n. 159 del 2019, questa Corte nello scrutinare le odierne questioni, non può non tenere conto delle esigenze della finanza pubblica e di razionale programmazione nell’impiego di risorse limitate.
L’INPS sottolinea, poi, che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni in tema di dilazione e di rateizzazione comporterebbe per l’Istituto un onere assai elevato, posto che, nel caso in cui entrambi i meccanismi dilatori previsti dalle norme censurate venissero eliminati, l’onere complessivo della spesa aggiuntiva sarebbe di 13,9 miliardi di euro per l’anno 2023.
In ultimo, l’Istituto si fa carico del monito espresso da questa Corte nella citata sentenza n. 159 del 2019, con la quale si è rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale, delle indennità di cui si tratta rischia di essere compromessa, in contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona. Evidenzia, tuttavia, l’Istituto che successivamente a tale pronuncia, sono stati adottati il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 22 aprile 2020, n. 51 (Regolamento in materia di anticipo del TFS/TFR, in attuazione dell’articolo 23, comma 7, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26), contenente le modalità di attuazione delle disposizioni di cui all’art. 23 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nonché il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 19 agosto 2020, relativo all’approvazione dell’accordo quadro per il finanziamento verso l’anticipo della liquidazione dell’indennità di fine servizio comunque determinata, secondo quanto previsto dall’art. 23, comma 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’Associazione bancaria italiana.
Espone, ancora, l’INPS che gli atti citati consentono ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – che cessano o sono cessati dal servizio con diritto a pensione per raggiungimento dei requisiti previsti dall’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, o con diritto a pensione al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” come previsto dall’art. 14 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito – di presentare a banche ed intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari all’importo dell’indennità di fine servizio maturata, nella misura massima di 45.000 euro ovvero all’importo spettante qualora la predetta indennità sia di importo inferiore.
In aggiunta, si sottolinea che, con deliberazione del consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219, è stata istituita una nuova prestazione a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, avente ad oggetto l’anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di fine rapporto.
L’Istituto precisa che si tratta di un finanziamento di importo pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse fisso pari all’1 per cento, e con spese di amministrazione a carico del finanziato in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, da erogarsi in un’unica soluzione, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.
4.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondate le odierne questioni di legittimità costituzionale.
Richiamati i passaggi salienti della ricordata sentenza n. 159 del 2019, l’interveniente sostiene che il differimento della corresponsione delle indennità di buonuscita e di altri analoghi trattamenti non pregiudica la garanzia sancita dall’art. 36 Cost., in quanto la disciplina censurata non ha negato o decurtato le indennità spettanti ai dipendenti pubblici, ma ne ha soltanto differito il versamento mediante un meccanismo che privilegia le ipotesi di cessazione per inabilità, derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente, nelle quali ha fissato un termine di tre mesi in luogo di quello di ventiquattro mesi previsto per i titolari di pensione di anzianità anticipata.
Sottolinea la difesa statale che i meccanismi oggetto di censura sono ispirati a esigenze di solidarietà sociale e sono intesi a fronteggiare la grave e perdurante situazione di crisi della finanza pubblica.
Il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici sarebbe, pertanto, improntato alla solidarietà previdenziale, in quanto concorrerebbe a finanziare gli oneri del sistema della previdenza, peraltro in un contesto di crisi dello stesso, e rispetterebbe il principio di proporzionalità, incidendo in special modo sui trattamenti più elevati.
In aggiunta, la difesa statale ricorda il monito contenuto nella citata sentenza n. 159 del 2019, per evidenziare che allo stesso il legislatore ha dato seguito mediante l’art. 23 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, avente ad oggetto la disciplina dell’anticipo agevolato di una quota del trattamento di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominato, per i dipendenti pubblici che abbiano avuto accesso al trattamento pensionistico nel regime ordinario, nonché di quello sperimentale previsto al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” e “quota 102”.
In ultimo, l’interveniente rimarca che la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate comporterebbe per l’INPS un onere oltremodo gravoso, posto che lo stesso Istituto dovrebbe farsi carico sia del pagamento immediato di tutti i trattamenti di fine servizio relativi a cessazioni per pensionamento di vecchiaia intervenute nell’ultimo anno, sia dell’integrazione degli importi relativi alle cessazioni avvenute negli anni precedenti, le cui rate non sono state ancora corrisposte in conformità ai termini previsti dalle disposizioni censurate.
5.– È, altresì, intervenuto ad adiuvandum E. M., svolgendo difese di segno adesivo alle deduzioni del rimettente.
L’interveniente, dipendente del Ministero dell’economia e delle finanze collocato in quiescenza per vecchiaia, espone di avere introdotto un giudizio davanti al Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, in cui ha chiesto accertarsi il proprio diritto alla corresponsione del trattamento di fine servizio senza dilazioni, deducendo l’illegittimità costituzionale delle norme che ne autorizzano il differimento e la rateizzazione, e che il giudice adito ha disposto il rinvio della causa in attesa dell’esito dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, in quanto vertente sulle medesime questioni.
E. M. assume di essere legittimato all’intervento sia in ragione dell’analogia della sua posizione giuridica rispetto a quella di A. R., ricorrente nel giudizio principale, sia in forza dell’identità tra le censure di illegittimità costituzionale svolte a sostegno dell’azione esperita e quelle qui in scrutinio.
6.– Ha, inoltre, spiegato intervento adesivo la Federazione Confsal-Unsa per chiedere l’accoglimento delle questioni sollevate.
La federazione deduce di essere legittimata all’intervento in quanto titolare di un interesse, «se pur collettivo e superindividuale», diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio principale.
7.– In ultimo, l’Associazione nazionale funzionari di polizia (ANFP) ha depositato un’opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure del giudice a quo.
A fondamento della propria legittimazione ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’associazione deduce di essere il sindacato maggiormente rappresentativo dei dirigenti della Polizia di Stato e di avere tra i suoi fini statutari prioritari la protezione degli interessi della collettività organizzata dei funzionari di polizia, sotto i profili giuridico, economico e pensionistico.
L’opinione è stata ammessa con decreto presidenziale del 24 marzo 2023.
8.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno depositato memorie sia la parte privata, sia l’INPS, sia l’Avvocatura generale dello Stato, insistendo nelle rispettive conclusioni.
Considerato in diritto
1.– Il TAR Lazio, sezione terza quater, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, in riferimento all’art. 36 Cost.
1.1.– Il rimettente, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che riconduce i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici nel paradigma della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, ritiene che le disposizioni censurate, nel prevedere rispettivamente il differimento e la rateizzazione del versamento di tali prestazioni, si pongano in contrasto con la garanzia costituzionale della giusta retribuzione.
La corresponsione differita e rateale dell’indennità di fine servizio arrecherebbe al beneficiario un’utilità inferiore rispetto a quella derivante da una liquidazione tempestiva, posto che «proprio attraverso l’integrale e immediata percezione» di tali spettanze il lavoratore si propone «di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari già assunti».
In linea con le enunciazioni espresse da questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, il giudice a quo sostiene che le disposizioni in scrutinio ledano in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., in quanto, pur essendo state introdotte per far fronte ad una situazione di crisi contingente, hanno ormai assunto carattere strutturale.
2.– In via preliminare, va ribadito quanto affermato nell’ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata al presente provvedimento, sull’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum.
2.1.– L’intervento di E. M. è inammissibile in quanto rinviene la sua ragione fondante nella semplice analogia della posizione sostanziale dell’interveniente rispetto a quella della parte ricorrente nel giudizio principale (sentenza n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021).
2.2.– Neanche la Federazione Confsal-Unsa, quale organismo rappresentativo di soggetti titolari di rapporti giuridici regolati dalle disposizioni censurate, può ritenersi portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale. Al contrario, essa persegue un «mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti» (sentenze n. 159 del 2019 e n. 77 del 2018).
3.– L’esame delle questioni sollevate richiede la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.
3.1.– La disciplina delle modalità di pagamento dell’indennità di buonuscita era originariamente contenuta nell’art. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 1032 del 1973, a mente del quale, in caso di cessazione dal servizio per limiti di età, l’amministrazione doveva predisporre gli atti tre mesi prima del raggiungimento del limite predetto e inviarli almeno un mese prima al Fondo di previdenza per il personale civile e militare dello Stato, il quale era tenuto ad emettere il mandato di pagamento in modo da rendere possibile l’effettiva corresponsione del trattamento «immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima».
Il termine per la effettiva corresponsione della prestazione in esame è stato successivamente elevato a novanta giorni dall’art. 7, terzo comma, della legge 20 marzo 1980, n. 75, recante «Proroga del termine previsto dall’articolo 1 della legge 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’articolo 6 della legge 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione».
In seguito, l’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, qui in scrutinio, ha rimodulato i tempi di erogazione dei «trattamenti di fine servizio, comunque denominati», spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (oggi definite dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001) o ai loro superstiti o aventi causa che ne hanno titolo, disponendo che alla liquidazione «l’ente erogatore provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro».
La citata disposizione prevede, altresì, che alla erogazione si dia corso «entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi».
3.2.– Nella versione originaria, l’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, stabiliva il termine di sei mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, e quello dei successivi tre mesi per la relativa corresponsione.
Tale previsione è stata modificata dapprima dall’art. 1, comma 22, lettera a), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, e in seguito dall’art. 1, comma 484, lettera b), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)».
La prima delle richiamate disposizioni ha innalzato da sei a ventiquattro mesi il termine per il versamento del trattamento di fine servizio, decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro, senza modificare il termine semestrale per la corresponsione dell’emolumento nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio.
Tale ultimo termine è stato elevato a dodici mesi dall’art. 1, comma 484, lettera b), della legge n. 147 del 2013.
3.3.– Al differimento, appena illustrato, delle liquidazioni di cui si tratta si affianca la disciplina introdotta dall’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, che ha previsto un regime di rateizzazione delle spettanze di fine servizio al dichiarato fine di concorrere «al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita».
Il testo originario della disposizione citata prevedeva che la corresponsione del trattamento avvenisse in un unico importo annuale per le indennità di fine servizio di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, pari o inferiore a 90.000 euro; in due importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, superiore a 90.000 euro, ma inferiore a 150.000 euro; in tre importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, uguale o superiore a 150.000 euro.
3.4.– A seguito delle modifiche apportate all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, dall’art. 1, comma 484, lettera a), della legge n. 147 del 2013, la scansione dei pagamenti è stata rimodulata.
L’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e «ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego» sono oggi riconosciuti «in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro» (art. 12, comma 7, lettera a); «in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo» (art. 12, comma 7, lettera b); «in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro, il secondo importo annuale è pari a 50.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo» (art. 12, comma 7, lettera c).
4.– In via preliminare si rileva che, come emerge dall’esame della ordinanza di rimessione, essendo il ricorrente nel giudizio a quo cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, l’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, trova applicazione nella parte in cui differisce la liquidazione del trattamento di fine servizio di dodici mesi dalla cessazione del rapporto.
Lo scrutinio di legittimità costituzionale relativamente alla predetta disposizione deve intendersi, pertanto, circoscritto alla parte di essa che si riferisce ai dipendenti cessati dal lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio.
5.– Sempre in via preliminare, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità per incompleta ricostruzione del quadro normativo formulata dall’INPS.
5.1.– Il giudice a quo, ripercorrendo la genesi delle disposizioni censurate e richiamando l’interpretazione che ne ha dato questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, ha esaustivamente ricomposto la cornice normativa e giurisprudenziale in cui si innesta la disciplina in scrutinio.
6.– Le questioni sono inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.
6.1.– L’evoluzione normativa, «stimolata dalla giurisprudenza costituzionale» (sentenza n. 243 del 1993, punto 4 del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine servizio erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (sentenze n. 258 del 2022, n. 159 del 2019 e n. 106 del 1996).
Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva (sentenza n. 159 del 2019).
Le indennità di fine servizio costituiscono una componente del compenso conquistato «attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa» (sentenza n. 106 del 1996) e, quindi, una parte integrante del patrimonio del beneficiario, il quale spetta ai superstiti in caso di decesso del lavoratore (sentenza n. 243 del 1993).
6.2.– La natura retributiva attira le prestazioni in esame nell’ambito applicativo dell’art. 36 Cost., essendo l’emolumento di cui si tratta volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una «particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana» (sentenza n. 159 del 2019).
La garanzia della giusta retribuzione, proprio perché attiene a principi fondamentali, «si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione» (sentenza n. 159 del 2019).
Il trattamento viene, infatti, corrisposto nel momento della cessazione dall’impiego al preciso fine di agevolare il dipendente nel far fronte alle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.
In ciò si realizza la funzione previdenziale, che, pure, vale a connotare le indennità in scrutinio, e che concorre con quella retributiva.
6.3.– Questa Corte deve farsi carico della considerazione che il trattamento di fine servizio costituisce un rilevante aggregato della spesa di parte corrente e, per tale ragione, incide significativamente sull’equilibrio del bilancio statale (sentenza n. 159 del 2019).
Non è da escludersi, pertanto, in assoluto che, in situazioni di grave difficoltà finanziaria, il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio. Tuttavia, un siffatto intervento è, anzitutto, vincolato al rispetto del criterio della ragionevolezza della misura prescelta e della sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito.
Un ulteriore limite riguarda la durata di simili misure.
La legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere «eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso» (ordinanza n. 299 del 1999).
6.4.– Ebbene, il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, e successive modificazioni, oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.
A differenza del pagamento differito dell’indennità di fine servizio in caso di cessazione anticipata dall’impiego – in cui il sacrificio inflitto dal meccanismo dilatorio trova giustificazione nella finalità di disincentivare i pensionamenti anticipati e di promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa (sentenza n. 159 del 2019) – il, sia pur più breve, differimento operante in caso di cessazione dal rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio non realizza un equilibrato componimento dei contrapposti interessi alla tempestività della liquidazione del trattamento, da un lato, e al pareggio di bilancio, dall’altro.
Ciò in quanto la previsione ora richiamata ha «smarrito un orizzonte temporale definito» (sentenza n. 159 del 2019), trasformandosi da intervento urgente di riequilibrio finanziario in misura a carattere strutturale, che ha gradualmente perso la sua originaria ragionevolezza.
6.5.– A ciò deve aggiungersi che la perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione previdenziale propria di tali prestazioni, in quanto contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa.
Non è, infatti, infrequente che l’emolumento in esame venga utilizzato per sopperire ad esigenze non ordinarie del beneficiario o dei suoi familiari, e la possibilità che tali necessità insorgano nelle more della liquidazione del trattamento espone l’avente diritto ad un pregiudizio che la immediata disponibilità dell’importo eviterebbe.
6.6.– Occorre, ancora, considerare che l’odierno scrutinio di legittimità costituzionale si innesta in un quadro macroeconomico in cui il sensibile incremento della pressione inflazionistica acuisce l’esigenza di salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita, posto che il rapporto di proporzionalità, garantito dall’art. 36 Cost., tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, richiede di essere riferito «ai valori reali di entrambi i suoi termini» (sentenza n. 243 del 1993).
Di conseguenza, la dilazione oggetto di censura, non essendo controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria, finisce per incidere sulla stessa consistenza economica delle prestazioni di cui si tratta, atteso che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, allo scadere del termine annuale in questione e di un ulteriore termine di tre mesi sono dovuti i soli interessi di mora.
6.7.– Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 159 del 2019, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro», nelle ipotesi diverse dalla cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, rilevando che, per costante giurisprudenza costituzionale, ben può il legislatore «disincentivare il conseguimento di una prestazione anticipata» (fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita» (sentenza n. 159 del 2019).
In tale occasione, è stata nondimeno segnalata, quanto alla medesima normativa, per l’effetto combinato del pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio, «l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare […]. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine servizio, conquistate “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana» (sentenza n.159 del 2019).
6.8.– A tale monito non ha, tuttavia, fatto seguito una riforma specificamente volta a porre rimedio al vulnus costituzionale riscontrato.
Non può, infatti, ritenersi tale la disciplina dell’anticipazione della prestazione dettata dall’art. 23 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale è possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000 euro, dell’indennità di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l’emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall’art. 4, comma 2, del d.m. 19 agosto 2020 in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) maggiorato dello 0,40 per cento.
Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere svolte in merito all’anticipazione istituita con la deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219. Essa è prevista a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali e consente di usufruire di un finanziamento pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse pari all’1 per cento fisso, unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.
Le normative richiamate investono solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio.
Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo.
Il legislatore non ha, infatti, espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996).
7.– Al vulnus costituzionale riscontrato con riferimento all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito, questa Corte non può, allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore. Deve, infatti, considerarsi il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato, ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri.
7.1.– La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata.
La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, infatti, un intervento riformatore prioritario, che contemperi l’indifferibilità della reductio ad legitimitatem con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.
7.2.– In proposito, questa Corte deve evidenziare, come in altre analoghe occasioni, «che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia» (da ultimo, sentenza n. 22 del 2022; si vedano anche sentenze n. 120 e n. 32 del 2021).
8.– Accertata la necessità della espunzione della disciplina concernente tale differimento, va rilevato, quanto alla previsione del pagamento rateale del trattamento di fine servizio di cui all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito – l’altra disposizione censurata – che il sistema cui essa ha dato luogo, essendo strutturato secondo una progressione graduale delle dilazioni, via via più ampie in proporzione all’incremento dell’ammontare della prestazione, da un lato, calibra il sacrificio economico derivante dalla percezione frazionata dell’indennità in modo tale da renderne esenti i beneficiari dei trattamenti più modesti; dall’altro, assicura ai titolari delle indennità ricadenti negli scaglioni via via più elevati la percezione immediata – rectius: che diverrà immediata solo all’esito della eliminazione del differimento previsto dall’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito – almeno di una parte della prestazione loro spettante.
8.1.– Tuttavia, questa Corte non può esimersi dal considerare che tale disciplina – peraltro connessa, per espressa previsione della stessa norma censurata, alle esigenze, necessariamente contingenti, di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il descritto differimento, finisce per aggravare il vulnus sopra evidenziato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2023.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA
Allegato:
Ordinanza letta all'udienza del 9 maggio 2023
ORDINANZA
Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze del 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2022.
Rilevato che, con distinti atti, sono intervenuti ad adiuvandum la Federazione Confsal-Unsa ed E. M. per chiedere l'accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale;
che gli intervenienti non rivestono la qualità di parti del giudizio principale;
che la Federazione Confsal-Unsa deduce di essere legittimata all'intervento in quanto titolare di un interesse, «se pur collettivo e superindividuale», diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio principale;
che E. M., dipendente del Ministero dell'economia e delle finanze collocato in quiescenza per vecchiaia, espone di avere introdotto un giudizio davanti al Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, onde ottenere l'accertamento del proprio diritto alla corresponsione del trattamento di fine servizio senza dilazioni, deducendo l'illegittimità costituzionale delle norme che ne autorizzano il differimento e la rateizzazione, e che il giudice adito ha disposto rinvio al fine di ottenere riscontro dell'esito dell'odierno giudizio di legittimità costituzionale, in quanto vertente sulle medesime questioni;
che E. M. fonda la legittimazione all'intervento sia sull'analogia della sua posizione giuridica rispetto a quella di A. R., ricorrente nel giudizio principale, sia sull'identità tra le censure di illegittimità costituzionale svolte a sostegno dell'azione esperita e quelle qui in scrutinio.
Considerato che l'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale stabilisce che, nei giudizi in via incidentale, «[p]ossono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio»;
che tale disposizione recepisce la costante giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche con riguardo alle richieste di intervento di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria (ex plurimis, sentenze n. 159 del 2019 e n. 237 del 2013; ordinanze allegate alle sentenze n. 158 del 2020, n. 206 del 2019, n. 16 del 2017), secondo cui la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative);
che a tale disciplina è possibile derogare ? senza contraddire il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale ? soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (fra le molte, sentenze n. 46 del 2021, n. 159 del 2019 e n. 153 del 2018);
che, pertanto, l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia di questa Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall'immediato effetto che detta pronuncia produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ex multis, sentenza n. 46 del 2021; ordinanze allegate alle sentenze n. 180 del 2021 e n. 194 del 2018);
che tale interesse qualificato sussiste, in particolare, allorché si configuri una «posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall'esito del giudizio incidentale» (sentenza n. 159 del 2019; ordinanze n. 191 del 2021, n. 271 del 2020);
che, pertanto, non è sufficiente, ai fini dell'ammissibilità dell'intervento, che il soggetto sia titolare di interessi simili a quelli dedotti nel giudizio principale, o che sia parte in un processo analogo, ma diverso dal giudizio a quo, sul quale la decisione di questa Corte possa influire;
che l'«intervento di un simile terzo, ove ammesso, contrasterebbe infatti con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto il suo accesso a tale giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale da parte del rispettivo giudice a quo (tra le altre, sentenza n. 106 del 2019 e ordinanza n. 202 del 2020)» (ordinanza n. 191 del 2021);
che, alla luce di tali premesse, la Federazione Confsal-Unsa, quale organismo rappresentativo di soggetti titolari di rapporti giuridici regolati dalle disposizioni censurate, non può ritenersi portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all'oggetto del giudizio principale, bensì di un «mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti» (sentenze n. 159 del 2019 e n. 77 del 2018; ordinanza allegata alla sentenza n. 248 del 2018);
che parimenti inammissibile è l'intervento di E. M., il quale rinviene la sua ragione fondante nella semplice analogia della posizione sostanziale dell'interveniente rispetto a quella della parte ricorrente nel giudizio principale (sentenza n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi della Federazione Confsal-Unsa e di E. M.
F.to: Silvana Sciarra, Presidente