Corte Costituzionale, Sentenza n.175 del 27/07/2023

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Giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato - Fase di ammissibilità - Soggetti legittimati - Legittimazione attiva dei singoli organi giurisdizionali - Legittimazione passiva del Senato della Repubblica - Sussistenza (nel caso di specie: ammissibilità del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Tribunale di Catania nei confronti del Senato della Repubblica, in riferimento alla deliberazione di insindacabilità delle dichiarazioni del senatore M.M. G.). (Classif. 114001)

I singoli organi giurisdizionali sono legittimati a promuovere conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto competenti, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, a dichiarare definitivamente, nell’esercizio delle funzioni attribuitegli, la volontà del potere cui appartengono. (Precedenti: O. 34/2023 – mass. 45357, O. 35/2022 – mass. 44519, O. 148/2020 – mass. 43530). Il Senato della Repubblica è legittimato a essere parte del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all’applicazione dell’art. 68, primo comma, Cost. (Precedenti: O. 34/2023 – mass. 45357, O. 148/2020 – mass. 43530, O. 69/2020 – mass. 43150). (Nel caso di specie, è dichiarato ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge n. 87 del 1953, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Tribunale di Catania, sez. quarta penale, in composizione monocratica, in riferimento alla deliberazione del 16 febbraio 2022 – doc. IV-quater, n. 4 – con la quale il Senato della Repubblica ha affermato che quanto pubblicato dal senatore M.M. G. sulla propria pagina Facebook, in data 30 ottobre 2017 e 21 gennaio 2018, fosse stato espresso nell’esercizio delle funzioni parlamentari e, pertanto, fosse riconducibile alla garanzia di insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. Sussistono i requisiti soggettivo ed oggettivo per l’instaurazione del giudizio, in quanto, sotto il primo profilo, va riconosciuta la legittimazione dell’organo giurisdizionale a promuovere conflitto e quella del Senato della Repubblica a esserne parte e, sotto il secondo profilo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzioni, costituzionalmente garantite, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, per insussistenza dei relativi presupposti, del potere spettante al Senato della Repubblica di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse da un membro di quel ramo del Parlamento). (Precedenti: O. 34/2023 – mass. 45357, O. 35/2022 – mass. 44519, O. 148/2020 – mass. 43530).

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SENTENZA N. 170

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell’acquisizione di plurime comunicazioni del senatore Matteo Renzi, disposta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze nell’ambito del procedimento penale a carico dello stesso senatore e altri, in assenza di una previa autorizzazione da parte del Senato della Repubblica, promosso da quest’ultimo con ricorso notificato il 23 dicembre 2022, depositato in cancelleria il 10 gennaio 2023, iscritto al n. 10 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2022 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2023, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze;

udito nell’udienza pubblica del 7 giugno 2023 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Giuseppe Morbidelli e Vinicio Settimio Nardo per il Senato della Repubblica e Andrea Pertici per la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze;

deliberato nella camera di consiglio del 22 giugno 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso depositato l’11 maggio 2022 (reg. confl. poteri n. 10 del 2022), il Senato della Repubblica ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze, per avere quest’ultima acquisito agli atti del procedimento penale iscritto al n. 3745 del registro generale delle notizie di reato del 2019, pendente nei confronti del senatore Matteo Renzi e di altri soggetti, corrispondenza scritta riguardante il medesimo senatore Renzi senza previa autorizzazione del Senato (in quanto mai richiesta), menomando con ciò le attribuzioni garantite a quest’ultimo dall’art. 68, terzo comma, della Costituzione.

1.1.– Premesso che il senatore Renzi era in carica dal 9 marzo 2018, data della proclamazione, e che da tale data dunque fruiva della prerogativa di cui al citato art. 68, terzo comma, Cost., il ricorrente deduce che, nell’ambito dell’attività investigativa relativa al procedimento penale dianzi indicato, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze ha in particolare acquisito, attraverso il sequestro di dispositivi mobili di comunicazione appartenenti a terzi, messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp (d’ora in avanti, per brevità, anche: «messaggi WhatsApp»)tra il senatore Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il senatore Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché corrispondenza intercorsa tramite e-mail fra questi ultimi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018.

A mezzo di decreto di acquisizione, la Procura ha inoltre acquisito l’estratto del conto corrente bancario personale del senatore Renzi relativo al periodo 14 giugno 2018-13 marzo 2020. Tutto ciò emergerebbe dai documenti allegati alla relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del 14 dicembre 2021, doc. XVI, n. 9, approvata dall’Assemblea il 22 febbraio 2022, e prodotti unitamente al ricorso.

1.2.– Dopo aver rilevato come, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, debbano ritenersi sussistenti i requisiti, soggettivi e oggettivi, di ammissibilità del conflitto, il ricorrente assume che la Procura fiorentina, procedendo al sequestro del materiale dianzi indicato senza chiedere preventivamente l’autorizzazione del Senato ai sensi dell’art. 68, terzo comma, Cost. e dell’art. 4 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), avrebbe violato la sfera delle attribuzioni di quest’ultimo potere dello Stato.

La nozione di «corrispondenza», richiamata dalle disposizioni ora citate, si presterebbe infatti a ricomprendere, oltre alla tradizionale corrispondenza cartacea recapitata a mezzo del servizio postale e telegrafico (divenuta ormai «statisticamente minoritari[a]»), anche i messaggi scritti scambiati attraverso strumenti di tipo informatico e telematico: messaggi assistiti dalla medesima garanzia di segretezza, assicurata dalle credenziali di accesso riservate per la corrispondenza elettronica e dalla disponibilità esclusiva, in capo ai corrispondenti, dei dispositivi elettronici utilizzati per lo scambio dei messaggi di testo.

L’assimilabilità dei due strumenti, che assolvono alla medesima funzione comunicativa per iscritto, sarebbe stata, d’altro canto, costantemente riconosciuta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha sempre ritenuto riferibile la nozione di «corrispondenza», di cui all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, alla posta elettronica e ai messaggi scambiati via internet, così come ai dati memorizzati nei server informatici, negli hard disk e negli altri dispositivi di memorizzazione.

Nel diritto interno, inoltre, la legge 23 dicembre 1993, n. 547 (Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica), sostituendo il quarto comma dell’art. 616 del codice penale, ha espressamente equiparato la corrispondenza informatica o telematica alla corrispondenza epistolare e telegrafica: ciò, al fine di non sottrarre al sistema di tutela della legge ordinaria forme di comunicazione rientranti nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., che qualifica come inviolabili la libertà e la segretezza della corrispondenza.

La Costituzione non poteva occuparsi della corrispondenza informatica e telematica solo per ragioni di carattere storico, e non certo di differenziazione di disciplina. Sia nell’art. 15 Cost., sia nell’art. 68, terzo comma, Cost., il termine «corrispondenza» è peraltro utilizzato senza alcuna specificazione, prestandosi, quindi, ad essere riferito ad ogni forma di comunicazione divenuta praticabile a seguito dell’evoluzione tecnologica.

1.3.– La giurisprudenza di legittimità ha, d’altro canto, chiarito quale sia l’elemento che, con riguardo alla trasmissione di dati e informazioni tramite canali elettronici, distingue la presa di cognizione della corrispondenza dall’intercettazione. Nel delineare i rapporti tra il delitto di cui all’art. 616 cod. pen. (che punisce l’acquisizione illecita del contenuto della corrispondenza, anche informatica e telematica) e quello di cui al successivo art. 617-quater (che sanziona l’intercettazione delle comunicazioni informatiche o telematiche), la Corte di cassazione ha, infatti, affermato che quest’ultima figura criminosa è riferibile alla comunicazione nel suo momento “dinamico”, ossia in fase di transizione, mentre la prima concerne la comunicazione nel suo profilo “statico”, ossia il pensiero già comunicato o da comunicare fissato su supporto fisico o altrimenti rappresentato in forma materiale.

Tale considerazione renderebbe palese come non siano idonei a porre in discussione la ricostruzione dianzi prospettata gli argomenti addotti dalla giurisprudenza di legittimità al fine di ritenere inapplicabile l’art. 254 del codice di procedura penale al sequestro di posta elettronica e messaggistica di testo: argomenti con i quali essa sembrerebbe negare la natura di corrispondenza a quella elettronica, qualificandola come documento, ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. A prescindere dal fatto che anche la corrispondenza cartacea ha natura di documento, sicché l’una qualificazione non è affatto incompatibile con l’altra, occorrerebbe considerare che l’art. 254 cod. proc. pen. non esaurisce la disciplina del sequestro di corrispondenza, ma si occupa esclusivamente di quello che interviene quando la stessa è in transito dal mittente al destinatario, determinando così una interruzione del flusso informativo; laddove, invece, la corrispondenza già recapitata può formare oggetto di sequestro documentale presso il destinatario ai sensi del precedente art. 253 cod. proc. pen. Ciò, in perfetta analogia con la distinzione, dianzi ricordata, tra profilo dinamico e profilo statico della comunicazione.

1.4.– In ogni caso, le previsioni legislative ora ricordate e la loro interpretazione giurisprudenziale non potrebbero essere utilizzate a sostegno di una lettura limitativa della nozione di corrispondenza rilevante ai fini dell’applicazione delle garanzie costituzionali. Come ripetutamente rilevato da questa Corte, infatti, sono le norme legislative a dover essere osservate alla luce della Costituzione, e non già quest’ultima alla stregua di ciò che stabilisce la disciplina legislativa.

La prospettiva interpretativa che intendesse circoscrivere la garanzia prevista dall’art. 68 Cost. e dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003 alla sola corrispondenza cartacea, non solo non risulterebbe suffragata da alcun argomento letterale, logico-sistematico o teleologico, ma avrebbe esiti del tutto irrazionali. Nell’attuale momento storico, che vede lo strumento postale novecentesco del tutto recessivo, sottrarre alla protezione costituzionale la corrispondenza elettronica significherebbe svuotare di contenuto la prerogativa parlamentare, subordinando, altresì, l’attivazione di quest’ultima al dato casuale del carattere cartaceo o elettronico dello strumento di corrispondenza prescelto dal singolo parlamentare.

1.5.– Neppure, poi, sarebbe possibile sostenere che la corrispondenza cessa di essere tale una volta che sia giunta a conoscenza del destinatario: prospettiva nella quale l’art. 15 Cost. si limiterebbe a tutelare unicamente la corrispondenza in transito.

Una simile tesi consentirebbe l’aggiramento degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., giacché a tale stregua sarebbe sufficiente attendere la consegna della comunicazione al destinatario per poterne acquisire mezzo e contenuto. La dottrina – sottolinea il ricorrente – ha, per contro, da tempo sostenuto che le garanzie di libertà e segretezza della corrispondenza perdurano sino a quando non perda attualità il sotteso interesse e che il regime giuridico di cui all’art. 15 Cost. viene meno solo allorché vi consentano entrambe le parti del rapporto comunicativo.

Ciò – rileva ancora il ricorrente – senza considerare che, essendo la garanzia di cui all’art. 68, terzo comma, Cost. volta a proteggere l’autonomia e l’indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad invadenze di altri poteri, tale invadenza permane – e a maggior ragione – una volta che il testo è stato letto.

1.6.– Secondo il ricorrente, nemmeno l’estratto del conto corrente bancario del senatore Renzi avrebbe potuto essere acquisito senza la previa autorizzazione del Senato.

Con tale documento la banca comunica, infatti, al cliente dati riservati, quali le operazioni di dare e di avere compiute in un determinato periodo, con indicazione dei destinatari e delle causali, le quali rivelano contratti, obbligazioni e rapporti. Esso pure, quindi, rientrerebbe nell’ambito della corrispondenza tutelata dall’art. 15 Cost. e, a maggior ragione, dall’art. 68, terzo comma, Cost.

1.7.– La procedura prevista dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003 risulterebbe, per altro verso, applicabile – contrariamente a quanto sostiene la Procura di Firenze – anche quando la corrispondenza elettronica venga reperita, come nel caso in esame, su un telefono cellulare appartenente a un terzo non parlamentare.

In un precedente caso simile, la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano – rilevata la presenza, su un dispositivo mobile sequestrato a un soggetto estraneo al Parlamento, di corrispondenza elettronica diretta a, e proveniente da, un senatore – aveva, in effetti, correttamente richiesto all’Assemblea di appartenenza di autorizzare il sequestro del telefono portatile anche con riferimento alle conversazioni telefoniche e alla messaggistica riguardanti il senatore (relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del 13 novembre 2019, doc. IV, n. 4-a).

Questa Corte avrebbe fornito, d’altro canto, chiare indicazioni al riguardo, rilevando che l’art. 68, terzo comma, Cost. «vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni: quello che conta – ai fini dell’operatività del regime dell’autorizzazione preventiva stabilito dall’art. 68, terzo comma, Cost. – non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto d’indagine. Se quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi». In altri termini, «[l]a disciplina dell’autorizzazione preventiva, dettata dall’art. 4 [della legge n. 140 del 2003], deve ritenersi destinata […] a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti» (è citata la sentenza n. 390 del 2007).

Tali indicazioni, rese in relazione alla materia delle intercettazioni, sarebbero valevoli anche in rapporto al sequestro di corrispondenza. Esse sono, infatti, riferite alla prerogativa parlamentare di cui all’art. 68, terzo comma, Cost. nella sua interezza.

Nella specie, che l’atto di indagine fosse volto ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare emergerebbe chiaramente dai decreti di perquisizione e sequestro emessi il 20 novembre 2019 dalla Procura della Repubblica di Firenze nei confronti di V. U. M. e M. C. Tali provvedimenti fanno, infatti, riferimento alla necessità di acquisire documentazione di dettaglio relativa ai rapporti economici tra la Fondazione Open e i soggetti privati suoi finanziatori, sulla base dell’ipotesi investigativa che quest’ultima abbia «rimborsato spese a parlamentari» e «messo a loro disposizione carte di credito e bancomat», in violazione della disciplina sul finanziamento dei partiti politici. Tale attività sarebbe stata posta in essere a favore di strutture di riferimento di soggetti politici coinvolti nelle consultazioni cosiddette primarie del Partito democratico nel 2012 e nel «comitato per Matteo Renzi segretario». Risulterebbe, di conseguenza, «plateale e incontestabile» che gli atti di indagine mirassero a penetrare nella sfera delle comunicazioni di membri delle Assemblee parlamentari, e in particolare del senatore Renzi.

2.– Il conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 261 del 2022, «impregiudicata ogni ulteriore questione, anche in punto di ammissibilità».

3.– Si è costituita in giudizio la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, la quale ha chiesto che il ricorso venga respinto o dichiarato eventualmente inammissibile.

3.1.– La resistente muove, nelle sue difese, da una preliminare, analitica ricostruzione degli sviluppi del procedimento penale che ha dato origine al conflitto, ponendo in evidenza come originariamente l’indagine non riguardasse, né la Fondazione Open, né il senatore Renzi e altre persone collegate alla Fondazione, ma li abbia coinvolti solo in un momento successivo, a seguito dell’individuazione di talune movimentazioni bancarie verso la prima, le quali avevano fatto emergere l’ipotesi investigativa che, per il tramite della Fondazione – qualificabile come articolazione politico-organizzativa del Partito democratico (e segnatamente della “corrente” facente capo al Renzi) –, fossero state effettuate erogazioni economiche atte ad integrare il reato di finanziamento illecito di partiti politici (art. 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, recante «Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici», e art. 4 della legge 18 novembre 1981, n. 659, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici»). Concluse le indagini preliminari, per tali fatti era stato poi chiesto, il 1° febbraio 2022, il rinvio a giudizio degli indagati.

3.2.– Ciò premesso, la resistente osserva che – come lo stesso ricorrente riconosce – le attività investigative che hanno dato origine al conflitto non sono riconducibili al concetto di «intercettazione»: concetto che, come puntualizzato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, designa l’apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio.

E-mail, messaggi WhatsApp e estratti di conto corrente bancario non potrebbero, peraltro, essere neppure ricondotti – contrariamente a quanto assume il Senato – al concetto di «corrispondenza».

La giurisprudenza di legittimità – ricorda la resistente – è, infatti, costante nell’affermare che i dati informatici conservati nella memoria di un telefono cellulare – SMS (Short Messages System), messaggi WhatsApp e di posta elettronica – hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen., sicché la relativa acquisizione non soggiace, né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche. Ai testi in questione non sarebbe applicabile, in particolare, la disciplina dettata dall’art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro di corrispondenza, in quanto la nozione di «corrispondenza» implica un’attività di spedizione in corso, o, comunque sia, avviata dal mittente mediante la consegna a terzi per il recapito.

Tale ricostruzione si porrebbe in linea di continuità con la tesi sostenuta dalla dottrina, secondo la quale il messaggio comunicativo, una volta che il destinatario ne abbia preso conoscenza, cessa di essere «corrispondenza», sicché la sua segretezza sarebbe tutelata, non più dall’art. 15 Cost., ma da altre norme (quali quelle che garantiscono la libertà personale, la libertà domiciliare, la libertà di manifestazione del pensiero, il diritto di proprietà e via dicendo) e, quindi, in ambito processuale, dalla disciplina delle ispezioni, delle perquisizioni personali e domiciliari e dell’acquisizione delle prove.

Nel ricorso, il Senato avrebbe ripreso la diversa tesi dottrinale in base alla quale la protezione costituzionale della libertà di comunicazione non si esaurirebbe con la ricezione del messaggio, ma si protrarrebbe nel tempo fin quando il mittente e il destinatario lo considerano attuale. Tale tesi, peraltro, da un lato, rischierebbe di estendere eccessivamente la nozione di corrispondenza; dall’altro, sarebbe fonte di incertezza nell’applicazione delle norme che a tale nozione si richiamano. Non si comprenderebbe, in effetti, perché, mentre il codice di rito configura il «sequestro di corrispondenza» con esclusivo riferimento a comunicazioni “in transito”, l’art. 4 della legge n. 140 del 2003 vi dovrebbe ricomprendere anche la corrispondenza giunta presso il destinatario. Tanto più, poi, che, con riguardo allo specifico profilo che qui viene in considerazione, ritenere corrispondenza del parlamentare anche quella spedita significherebbe paralizzare le operazioni di ricerca della prova anche in capo a soggetti che parlamentari non sono, per il solo fatto che essi corrispondano con membri del Parlamento.

3.3.– A maggior ragione, poi – secondo la resistente – non potrebbe essere ricondotto al concetto di corrispondenza l’estratto di conto corrente bancario, trattandosi di documento che non nasce per essere trasmesso, pur potendolo essere, ma che ha la funzione di riepilogo – per la stessa banca che lo elabora, così come per l’intestatario o altri soggetti – di operazioni dispositive in entrata o in uscita.

Se bastasse la potenziale trasmissibilità di un documento per ricondurlo alla nozione di corrispondenza, si dovrebbe pervenire all’inaccettabile conclusione che l’acquisizione di qualsiasi scritto – come un’agenda, un diario o persino un libro –, semplicemente perché inserito all’interno di un plico, resta sottoposta alle regole sul sequestro di corrispondenza anche una volta conclusa la fase dinamica della spedizione.

Di là, peraltro, dal rilievo che, non trattandosi di corrispondenza, nessun sequestro doveva essere autorizzato, l’autorizzazione della Camera di appartenenza non poteva ritenersi comunque sia necessaria, in quanto il provvedimento sulla cui base il documento è stato acquisito, emesso l’11 gennaio 2021, non consisteva in un decreto di sequestro ai sensi dell’art. 253 cod. proc. pen., né in una richiesta di consegna ai sensi dell’art. 248 cod. proc. pen., rivolta ad un istituto bancario, e non aveva neppure ad oggetto l’estratto di conto corrente. Si trattava, invece, di un decreto di acquisizione emesso ai sensi dell’art. 38, comma 3, del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione), avente ad oggetto le segnalazioni di operazioni bancarie sospette concernenti altro indagato, inviate dall’Unità d’informazione finanziaria (UIF) al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza di Roma, in allegato alle quali figurava l’estratto del conto corrente intestato a Matteo Renzi: estratto frutto di interrogazione operata dall’UIF direttamente sulle banche dati nella sua disponibilità istituzionale.

3.4.– Ove pure, peraltro, si volesse riconoscere al materiale in questione la natura di «corrispondenza», la tesi del ricorrente, secondo cui il sequestro del materiale stesso avrebbe dovuto essere preventivamente autorizzato dalla Camera di appartenenza del senatore Renzi, apparirebbe comunque sia fallace. Essa poggerebbe, infatti, su una ricostruzione inesatta del sistema delle autorizzazioni, preventive e successive, di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003.

Al riguardo, la Procura fiorentina ricorda come questa Corte abbia chiarito, nella sentenza n. 390 del 2007 – con particolare attenzione alla materia delle intercettazioni, ma con rilievi che si estendono all’intero art. 68, terzo comma, Cost. (e quindi anche al sequestro di corrispondenza) – che la previsione della citata norma costituzionale risulta interamente soddisfatta, a livello di legge ordinaria, dalla disciplina dell’autorizzazione preventiva, di cui all’art. 4 della legge n. 140 del 2003, la quale deve ritenersi destinata a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di altri soggetti (cosiddette intercettazioni “indirette”).

La disciplina dell’autorizzazione successiva per l’utilizzazione processuale delle risultanze dell’atto, prevista dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 in rapporto alle intercettazioni cosiddette “casuali”, non potrebbe invece ritenersi costituzionalmente imposta, ma rappresenterebbe un’addizione rispetto a quanto richiesto dalla norma costituzionale: tant’è che essa è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, quanto alle previsioni dei commi 2, 5 e 6, nella parte in cui le stesse erano rese applicabili anche nei casi in cui le intercettazioni dovessero essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dai membri del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni fossero state intercettate; restando aperto il problema se analoga conclusione valga laddove le si intenda utilizzare nei confronti dello stesso parlamentare.

Ciò premesso, la resistente osserva che l’art. 4 della legge n. 140 del 2003, in puntuale aderenza al disposto dell’art. 68, terzo comma, Cost., include tra gli atti di indagine soggetti ad autorizzazione preventiva anche il sequestro di corrispondenza. Tuttavia – e in ciò risiederebbe l’errore sostanziale del ricorrente – l’autorizzazione parlamentare concerne l’esecuzione degli atti di indagine contemplati nell’ordinamento: dunque, nella specie, del decreto di sequestro disposto ai sensi dell’art. 254 cod. proc. pen. (per la corrispondenza “in transito”), ovvero – se si accedesse alla prospettazione del Senato – del decreto di sequestro disposto ai sensi dell’art. 253 cod. proc. pen. (quanto a e-mail e messaggi WhatsApp già visualizzati dal destinatario).

Nel sostenere che il pubblico ministero avrebbe dovuto chiedere un’autorizzazione all’esecuzione del decreto di sequestro di documenti conservati all’interno di apparecchi mobili di persone non appartenenti al Parlamento, il Senato confonderebbe l’esecuzione dell’atto di indagine con l’utilizzazione dei risultati dello stesso (ossia con la possibilità, una volta scaricata la corrispondenza dal dispositivo mobile, di impiegare nel procedimento penale il materiale acquisito).

In base alla normativa – costituzionale e ordinaria – vigente, l’obbligo di richiedere l’autorizzazione preventiva sussiste solo ove l’atto di indagine (il sequestro del dispositivo e della corrispondenza ivi memorizzata) sia eseguito nei confronti del parlamentare, e quindi o direttamente presso di lui, ovvero – in base allo sviluppo della giurisprudenza costituzionale – presso un terzo che possa essere qualificato come suo «interlocutore abituale»: qualifica, quest’ultima, da interpretare, peraltro, in senso fortemente restrittivo – e, in particolare, come limitata a diretti collaboratori del membro del Parlamento e ad alcuni suoi stretti congiunti – per non determinare una abnorme sottrazione alle garanzie dello Stato di diritto.

Contrariamente a quanto sostenuto dal Senato, tale ipotesi non ricorrerebbe nel caso in esame. Non si stava, infatti, eseguendo alcuna attività investigativa nei confronti di un parlamentare, né la Procura della Repubblica aveva elementi per ritenere che V. U. M. e M. C. intrattenessero rapporti di corrispondenza con il senatore Renzi, non potendo gli stessi essere identificati come interlocutori abituali del parlamentare. D’altronde, come in precedenza rappresentato, l’indagine avrebbe coinvolto la Fondazione Open e le persone che gravitavano intorno ad essa solo in un secondo momento, il che escluderebbe qualsiasi intento persecutorio nei confronti del senatore Renzi.

3.5.– Escluso, dunque, che la Procura fosse tenuta a richiedere un’autorizzazione preventiva, essa non poteva neppure ritenersi obbligata a richiedere un’autorizzazione successiva ai fini dell’utilizzazione della corrispondenza acquisita fortuitamente.

L’art. 6 della legge n. 140 del 2003 – norma sulla quale graverebbe, peraltro, un forte sospetto di illegittimità costituzionale anche per la parte residua, relativa all’utilizzazione degli elementi di prova nei confronti del parlamentare – prevede, infatti, l’autorizzazione in rapporto ai verbali di registrazione delle conversazioni e comunicazioni intercettate, nonché ai tabulati di comunicazioni acquisiti, ma non pure in rapporto al sequestro di corrispondenza: né, d’altra parte, la necessità dell’autorizzazione all’utilizzazione di quest’ultima potrebbe essere ricavata in via analogica, trattandosi di norma eccezionale e come tale di stretta interpretazione.

3.6.– Ma quando pure si ritenesse, in via di mera ipotesi, che nella fattispecie considerata possa trovare applicazione il regime dell’autorizzazione successiva, di cui all’art. 6 della legge n. 140 del 2003, il conflitto sarebbe inammissibile, in quanto proposto contro un soggetto diverso da quello cui è attribuito il potere di cui si lamenta il cattivo esercizio.

Il compito di richiedere l’autorizzazione in questione è specificamente attribuito, infatti, dal comma 2 del citato art. 6, al giudice per le indagini preliminari: il che renderebbe la Camera di appartenenza del parlamentare incompetente a deliberare, giacché nel momento in cui il procedimento è stato avviato ed espletato vi era stato soltanto l’intervento del pubblico ministero.

4.– In prossimità dell’udienza pubblica, il Senato della Repubblica ha depositato memoria, con la quale ha replicato agli argomenti della controparte, insistendo per l’accoglimento del ricorso.

4.1.– Il ricorrente contesta, anzitutto, la tesi della Procura stando alla quale le e-mail e i messaggi di testo (SMS e WhatsApp) non costituirebbero corrispondenza, ma meri documenti, essendo la nozione di corrispondenza riferibile solo ad una attività di spedizione in corso.

L’indirizzo della giurisprudenza di legittimità penale evocato dalla resistente a sostegno del suo assunto non sarebbe, in effetti, per nulla monolitico. Nella perimetrazione del reato di violazione, sottrazione e soppressione della corrispondenza, di cui all’art. 616 cod. pen., la stessa Corte di cassazione non ha, infatti, compresso l’oggetto della tutela penale alla sola corrispondenza in transito, ma ha associato l’inviolabilità penalmente sanzionata al concetto di «busta chiusa», che per la corrispondenza digitale si identifica nella criptazione del documento elettronico ad uso esclusivo del destinatario: donde la ritenuta configurabilità del reato nel caso in cui venga presa cognizione della corrispondenza telematica conservata nell’archivio di posta elettronica.

L’orientamento giurisprudenziale richiamato dalla Procura si riferisce, in ogni caso, a dati informatici contenuti nella memoria del telefono di privati cittadini, ai fini della valutazione circa la legittimità della loro acquisizione probatoria. In questa sede, si discute invece di comunicazioni di un membro del Parlamento, rispetto alle quali vengono in rilievo specifiche e ulteriori esigenze costituzionali. Come chiarito dalla citata sentenza n. 390 del 2007, la garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. è, infatti, strumentale alla salvaguardia delle funzioni parlamentari, mirando ad evitare che intercettazioni o sequestri di corrispondenza siano indebitamente finalizzati ad incidere sul mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività. Tali esigenze non verrebbero meno a fronte del fatto che il messaggio è stato letto, tanto più che esso rimane criptato e conservato all’interno dell’apparecchio, così come avverrebbe nell’ipotesi di corrispondenza cartacea ove la busta, dopo l’apertura, venga di nuovo sigillata dal ricevente.

La tesi della Procura si porrebbe d’altronde in contrasto con la giurisprudenza della Corte EDU – della quale la memoria offre una rassegna – la quale, nell’interpretazione dell’art. 8 CEDU, avrebbe offerto una interpretazione della nozione di corrispondenza non limitata al momento del flusso, includendovi anche la posta elettronica e la messaggistica istantanea già ricevute dal destinatario. Anche la Corte di cassazione civile apparirebbe, d’altronde, orientata nella medesima direzione.

4.2.– L’opinione dottrinale richiamata dalla Procura a sostegno del suo assunto – secondo cui la tutela prevista dall’art. 15 Cost. verrebbe meno allorché il destinatario abbia preso conoscenza della comunicazione – risulterebbe, d’altro canto, avversata da una dottrina altrettanto autorevole, stando alla quale la tutela perdura dopo l’apertura della lettera e cessa solo quando quest’ultima perde di attualità per il decorso del tempo, assumendo un valore meramente affettivo, storico o collezionistico.

Nel caso in esame l’attualità non mancherebbe certamente, tanto che si tratta di materiale acquisito dal pubblico ministero in sede di indagini tese a dimostrare una sorta di rapporto osmotico tra la Fondazione Open e la “corrente” di partito politico di cui il senatore Renzi era leader. D’altra parte, che la messaggistica in questione sia attuale sarebbe dimostrato sia dal fatto stesso che, al momento dell’acquisizione da parte della polizia giudiziaria, i messaggi non erano stati cancellati dal titolare dell’utenza; sia, e soprattutto, dal fatto che essi attengono alle attività di un personaggio politico di primo piano, così che la loro conoscenza risulterebbe «attualissima nell’agone politico».

La tesi della trasformazione della corrispondenza in mero documento per effetto della sua lettura metterebbe in pratica nel nulla la tutela costituzionale nei confronti proprio delle forme di corrispondenza oggi più diffuse, come la posta elettronica e i servizi di messaggistica istantanea, al cui invio segue immediatamente la ricezione.

Dirimente, in questo campo, risulterebbe peraltro la sentenza n. 38 del 2019 di questa Corte, la quale ha riconosciuto che la garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. si estende ai documenti che rivelano i dati estrinseci di una conversazione o di una comunicazione – quali, in specie, i tabulati telefonici – trattandosi di documenti già ricondotti dalla giurisprudenza costituzionale, per tutti i soggetti dell’ordinamento, alla sfera di protezione dell’art. 15 Cost. e idonei, al tempo stesso, a disvelare rapporti, anche istituzionali, di un membro del Parlamento, di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardanti anche altri parlamentari. Apparirebbe, in effetti, evidente che la «capacità intrusiva» della lettura di e-mail, messaggi WhatsApp e SMS sia assai più marcata di quella dell’acquisizione di tabulati. Non si tratta, infatti, di dati estrinseci da cui è possibile desumere semplicemente la durata, le utenze coinvolte e la localizzazione, ma di dati intrinseci, ossia del contenuto integrale delle comunicazioni: sicché la guarentigia parlamentare non potrebbe non comprendere anche la corrispondenza acquisita dopo il suo flusso, cioè nella fase statica. Ma anche a voler ammettere che i messaggi in questione siano meri dati esteriori e storici di una conversazione non più attuale, essi rientrerebbero, già solo per questo, sotto la copertura di cui all’art. 68, terzo comma, Cost.

4.3.– Quanto, poi, all’estratto di conto corrente bancario del senatore Renzi, nessun rilievo avrebbe la circostanza, dedotta dalla Procura, che l’acquisizione del documento sia avvenuta in forza di un decreto di acquisizione di segnalazioni di operazioni bancarie sospette, tra i cui allegati figurava l’estratto conto in questione.

Una lettura logica e sostanzialistica non potrebbe, infatti, non ricomprendere anche tale modus procedendi nell’area di tutela dell’art. 68, terzo comma, Cost.

L’art. 119 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) stabilisce, al comma 1, che «[n]ei contratti di durata i soggetti indicati nell’art. 115» (ovvero banche e intermediari finanziari) «forniscono al cliente, […] alla scadenza del contratto e comunque almeno una volta all’anno, una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto»; mentre il comma 2 dispone che «[p]er i rapporti regolati in conto corrente l’estratto conto è inviato al cliente con periodicità annuale o, a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o mensile».

Si tratterebbe, quindi, di corrispondenza pronta ad essere inviata, e anzi da inviare obbligatoriamente al cliente: in altri termini, di un documento strutturato per destinazione come corrispondenza. La circostanza che l’acquisizione derivi dalle previsioni della normativa antiriciclaggio non farebbe d’altronde venir meno la garanzia costituzionale, una volta rilevato – come la Procura era in grado di fare agevolmente – chi fosse il titolare del conto corrente e quindi il destinatario della relativa comunicazione periodica.

4.4.– Sotto altro profilo, la tesi della Procura, che circoscrive l’ambito di applicazione dell’art. 68 Cost. alle sole indagini nei confronti dei parlamentari, risulterebbe del tutto disallineata rispetto alla distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte, tra comunicazioni che riguardano direttamente un parlamentare, comunicazioni indirette e comunicazioni casuali o fortuite. In base a tale giurisprudenza, l’autorizzazione deve essere preventivamente richiesta non solo se l’atto d’indagine sia disposto nei confronti di utenze intestate al parlamentare o nella sua disponibilità (intercettazioni cosiddette “dirette”), ma anche tutte le volte in cui la captazione si riferisca a utenze di interlocutori abituali del parlamentare, o sia effettuata in luoghi presumibilmente da questo frequentati, al precipuo scopo di conoscere il contenuto delle conversazioni e delle comunicazioni del parlamentare stesso (intercettazioni cosiddette “indirette”).

La resistente restringe la cerchia degli «interlocutori abituali» ai «diretti collaboratori del parlamentare, coniuge e alcuni stretti familiari»: ma tale asserzione peccherebbe di «formalismo» – dimenticando che vi possono essere rapporti ben più stretti di quelli derivanti da vincolo di sangue o da un rapporto formale di lavoro dipendente – e sarebbe altresì smentita dagli atti redatti dalla stessa Procura.

Nel decreto di perquisizione del 25 novembre 2019 (emesso nei confronti di altro indagato) si commenta, infatti, una e-mail del 5 febbraio 2016, dalla quale emergerebbe come M. C. facesse parte della ristretta cerchia dei “fedelissimi” del senatore Renzi, fungendo anche da tramite per le comunicazioni con quest’ultimo dei finanziatori della Fondazione. I rapporti più che stretti fra i due sarebbero stati, d’altronde, di dominio pubblico, essendo agevolmente verificabili tramite una semplice ricerca in internet. Essi, inoltre, come risulterebbe dagli stessi messaggi, sarebbero stati caratterizzati da una confidenzialità, da una continuità e da una comunanza di intenti «che va sicuramente ben oltre la tipologia dei rapporti con i collaboratori e anche gli stretti familiari».

Secondo il ricorrente, appariva, quindi, evidente come sequestrare la corrispondenza di M. C. avrebbe significato entrare in contatto con quella con il senatore Renzi. Ma lo stesso discorso varrebbe anche quanto alla corrispondenza con U. M., finanziatore della Fondazione e legato da stretti rapporti di amicizia con il senatore Renzi anch’essi di pubblico dominio e palesati dal tono confidenziale degli stessi messaggi oggetto di acquisizione.

Al tempo stesso, sarebbe incontestabile che il bersaglio principale degli atti investigativi fosse proprio il senatore Renzi: il che emergerebbe con estrema chiarezza dagli stessi decreti di perquisizione, in quanto tutta l’indagine era volta a qualificare la Fondazione Open come articolazione di partito politico riferibile al senatore Renzi, finalizzata a sostenere e a reperire risorse per la sua azione politica; circostanza che troverebbe espressa conferma nei capi di imputazione formulati nella richiesta di rinvio a giudizio.

Diversamente da quanto opina la Procura, si sarebbe quindi di fronte a un caso del tutto analogo a quello, già richiamato nel ricorso, nel quale la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano aveva richiesto l’autorizzazione ad eseguire un sequestro di corrispondenza di un senatore (conversazioni telefoniche, messaggistica, mail e chat) contenuta nello smartphone di proprietà e in uso a un suo collaboratore, nell’ambito di un procedimento penale pendente nei confronti di entrambi: autorizzazione concessa dal Senato.

Non conferente sarebbe, poi, l’affermazione della Procura per cui risulterebbe «escluso qualsivoglia intento persecutorio nei confronti del sen. Renzi»: ciò in quanto l’autorizzazione preventiva deve esservi in ogni caso, spettando semmai alla Camera di appartenenza valutare l’esistenza o no di tale intento.

A maggior ragione ciò varrebbe quando, come nella specie, lo stesso parlamentare sia coindagato, essendo tale circostanza – alla luce delle indicazioni della sentenza n. 114 del 2010 di questa Corte – un indice sintomatico del carattere non casuale dell’attività investigativa.

4.5.– Del tutto irrilevante sarebbe, infine, la tesi subordinata della Procura, in base alla quale, ove si ritenesse applicabile l’art. 6 della legge n. 140 del 2003, il conflitto sarebbe inammissibile, in quanto proposto contro un soggetto diverso da quello cui è attribuito il potere di cui si lamenta il cattivo esercizio.

Il Senato non ha inteso affatto invocare l’applicazione dell’art. 6, ma dell’art. 4 della citata legge, ossia dell’obbligo di autorizzazione preventiva: sicché ogni disquisizione sull’art. 6 risulterebbe inconferente.

5.– Anche la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze ha depositato memoria, insistendo affinché questa Corte riconosca la spettanza ad essa Procura del potere contestato, salva l’eventuale dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

5.1.– La memoria ribadisce, in primo luogo, l’impossibilità di ricondurre i messaggi di testo (SMS e WhatsApp) e le e-mail già pervenuti e letti dal destinatario alla nozione giuridica di corrispondenza.

Ritenere – come fa il ricorrente – che la corrispondenza resti tale fin tanto che il mittente e il destinatario considerino attuale l’atto comunicativo genererebbe, d’altro canto, una inaccettabile incertezza nell’applicazione delle norme che alla nozione di corrispondenza si richiamano: se la valutazione in ordine all’attualità del messaggio comunicativo rientra nella sfera psichica del mittente e del destinatario, sarebbe oltremodo problematico per il pubblico ministero procedente determinare ex ante se, nel caso di specie, egli si trovi o meno in presenza di corrispondenza. Per giunta, in una simile prospettiva, i membri del Parlamento potrebbero sempre sottrarsi all’acquisizione del contenuto di un determinato atto comunicativo, anche quando sia decorso un considerevole lasso di tempo dall’esaurimento del processo comunicativo stesso.

Riguardo, poi, all’estratto di conto corrente, i riferimenti del Senato all’art. 119 t.u. bancario, nella parte in cui prevede l’invio periodico al cliente dell’estratto, non gioverebbero al fine di ricondurre quest’ultimo al concetto di corrispondenza, ma dimostrerebbero esattamente il contrario: e, cioè, che l’estratto conto esiste come documento a prescindere dal suo invio, con funzione di riepilogo – per la stessa banca che lo elabora, il correntista o altri soggetti – delle operazioni dispositive in entrata e in uscita.

5.2.– Peraltro, anche nell’ipotesi in cui l’acquisizione dei messaggi di testo, e-mail ed estratti di conto corrente fosse qualificata come sequestro di corrispondenza, il ricorso risulterebbe ugualmente non fondato.

In proposito, la Procura ribadisce come l’errore fondamentale, insito nella prospettazione del ricorrente, sia rappresentato dalla confusione tra l’esecuzione degli atti di indagine (nella specie, il decreto di sequestro documentale emesso ai sensi dell’art. 253 cod. proc. pen.) e l’utilizzazione nel processo delle loro risultanze (nella specie, del materiale acquisito sulla base dell’esecuzione del decreto stesso).

A tale riguardo, il riferimento del ricorrente alla vicenda che ha coinvolto il senatore A. S. sarebbe conferente, ma non probante. In quella occasione, infatti, la Procura di Milano avrebbe dovuto chiedere e ottenere l’autorizzazione prima dell’esecuzione del decreto di sequestro sul dispositivo del collaboratore del senatore A. S. (che risultava essere, in base ad elementi certi ed evidentemente noti alla Procura, un interlocutore abituale del parlamentare), e non già nel momento in cui la polizia giudiziaria, ad esecuzione in corso, si è imbattuta in messaggi scambiati con lo stesso. L’art. 4, comma 2, della legge n. 140 del 2003 stabilisce, infatti, che «[l]’autorizzazione è richiesta dall’autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire; in attesa dell’autorizzazione l’esecuzione del provvedimento rimane sospesa»: la sospensione di cui alla citata disposizione afferisce, dunque, alla fase procedurale intercorrente tra l’emissione del decreto di sequestro e l’inizio dell’esecuzione dello stesso, mentre non si dà alcun obbligo di sospensione dell’esecuzione dei decreti di sequestro una volta che quest’ultima abbia avuto inizio.

Neppure, d’altro canto, potrebbe venire in rilievo l’art. 6 della legge n. 140 del 2003, il quale non richiama il sequestro di corrispondenzatra i mezzi di ricerca della prova soggetti al regime dell’autorizzazione successiva ai fini dell’utilizzazione delle loro risultanze. Tale disposizione, in quanto norma eccezionale, derogatoria del principio di pari trattamento davanti alla giurisdizione, è d’altronde di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione in via analogica a fattispecie non espressamente contemplate.

5.3.– Da ultimo, la Procura pone in risalto come, a seguito della revisione costituzionale operata dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell’articolo 68 della Costituzione), non sia più prevista alcuna autorizzazione generalizzata allo svolgimento di indagini nei confronti di membri del Parlamento, rispetto ai quali debbono essere autorizzati solo alcuni atti, tra cui – per quanto qui interessa – quelli volti ad acquisire loro comunicazioni. In questa cornice, la “direzionalità” dell’attività investigativa dovrebbe essere quindi accertata con riguardo allo specifico atto di indagine e al contesto nel quale esso si inserisce. Di conseguenza, nell’ambito di un’indagine che coinvolga anche membri del Parlamento, la captazione di flussi comunicativi (nel caso delle intercettazioni) e l’acquisizione di corrispondenza (nel caso del sequestro di corrispondenza), effettuate a partire dall’utenza o dal dispositivo di un soggetto terzo, potrebbero bene avere luogo anche laddove il pubblico ministero procedente possa astrattamente ipotizzare che in tal modo ci si possa imbattere in comunicazioni o corrispondenza di parlamentari, salvo che il terzo sia qualificabile come interlocutore abituale di questi ultimi. Diversamente opinando, si verrebbe a ripristinare surrettiziamente una generalizzata autorizzazione preventiva allo svolgimento di indagini nei confronti dei parlamentari.

5.4.– Alla luce di tutto ciò, sarebbe giocoforza concludere che la Procura di Firenze – omettendo di richiedere l’autorizzazione preventiva all’esecuzione dell’atto di indagine, nonché quella successiva all’utilizzazione delle sue risultanze, acquisite “fortuitamente” – non ha posto in essere alcuna lesione delle prerogative parlamentari.

Dalla dettagliata esposizione dello svolgimento del procedimento penale contenuta nell’atto di costituzione emergerebbe, infatti, come l’indagine non fosse originariamente “diretta” nei confronti del senatore Renzi, e come gli specifici atti di indagine (decreti di perquisizione e sequestro) non fossero finalizzati ad acquisire dati informatici relativi a comunicazioni intercorse con lo stesso, tanto più che essi sono stati eseguiti su dispositivi in uso a terzi, i quali non vantavano relazioni giuridicamente qualificate con il parlamentare.

A ritenere diversamente, il pubblico ministero procedente avrebbe dovuto richiedere un’autorizzazione al Senato per l’esecuzione di intercettazioni o sequestri di corrispondenza su utenze o dispositivi di una amplissima platea di persone (ad esempio, tutti i membri degli organi del partito di cui il senatore Renzi era al tempo segretario).

Neppure, poi – come già posto in evidenza –, si potrebbe sostenere che, nel momento in cui ha fortuitamente rinvenuto comunicazioni con il senatore Renzi in sede di esecuzione dei decreti di sequestro, il pubblico ministero avrebbe dovuto interrompere l’attività di indagine, richiedendo un’autorizzazione preventiva del Senato all’esecuzione di un nuovo decreto di sequestro. Ciò che rileva, infatti, è solo la “direzionalità” dell’attività investigativa.

5.5.– Quanto, infine, all’eccezione di inammissibilità formulata dalla Procura nella parte conclusiva dell’atto di costituzione – sulla quale il Senato non ha ritenuto di dover svolgere specifiche contestazioni, reputando rilevante nella specie l’art. 4 e non l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 – la resistente ribadisce che si tratta di ipotesi prospettata solo in via subordinata, condividendo che non debba farsi applicazione dell’art. 6, come, però, neppure dell’art. 4.

Considerato in diritto

1.– Con ricorso depositato l’11 maggio 2022 (reg. confl. poteri n. 10 del 2022), il Senato della Repubblica ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze, per avere quest’ultima acquisito agli atti del procedimento penale n. 3745/2019 R.G.N.R. corrispondenza scritta riguardante il senatore Matteo Renzi (in carica dal 9 marzo 2018) senza previa autorizzazione del Senato (in quanto mai richiesta), menomando con ciò le attribuzioni garantite a quest’ultimo dall’art. 68, terzo comma, Cost.

1.1.– Secondo quel che emerge dalle deduzioni e dalle produzioni documentali delle parti, il procedimento penale in questione – instaurato originariamente nei confronti di diversi soggetti e per differenti vicende – ha visto successivamente indagati il senatore Renzi e persone a lui collegate in relazione al sostegno economico prestato da una fondazione di diritto privato (la Fondazione Open), o per il tramite di essa, all’attività politica dello stesso senatore Renzi e della corrente del Partito democratico di cui egli era il massimo esponente: sostegno idoneo ad integrare – secondo l’ipotesi accusatoria – il delitto di finanziamento illecito di partiti politici.

Nel corso delle indagini, la Procura di Firenze ha proceduto a perquisizioni locali nei confronti di vari soggetti, finalizzate ad acquisire documentazione, anche informatica, sui rapporti economici della Fondazione Open. Tra i soggetti sottoposti a perquisizione figurano, in forza di due distinti decreti del 20 novembre 2019, M. C., membro del consiglio direttivo della Fondazione, e V. U. M., finanziatore della stessa (anche attraverso una società a lui riferibile).

In esito a tali atti investigativi, sono quindi stati sottoposti a sequestro probatorio, unitamente ad altri dispositivi informatici, i telefoni cellulari appartenenti a M. C. e a V. U. M. Nella memoria di tali telefoni risultavano, peraltro, conservati messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp tra il senatore Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il senatore Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché posta elettronica intercorsa fra quest’ultimo e il senatore Renzi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018.

Il ricorrente lamenta specificamente che le missive e i messaggi ora indicati siano stati acquisiti agli atti del procedimento senza previa autorizzazione di esso Senato. Lamenta, inoltre, che la Procura fiorentina – sempre senza esserne autorizzata – abbia acquisito, mediante decreto di acquisizione emesso l’11 gennaio 2021, l’estratto del conto corrente bancario personale del senatore Renzi relativo al periodo 14 giugno 2018-13 marzo 2020.

1.2.– Ad avviso del ricorrente, la nozione di «corrispondenza», richiamata senza alcuna specificazione dall’art. 68, terzo comma, Cost. e dalla disposizione attuativa di cui all’art. 4 della legge n. 140 del 2003, ricomprenderebbe indubbiamente anche i messaggi scritti scambiati attraverso strumenti elettronici, posti a disposizione dall’evoluzione tecnologica. La corrispondenza resterebbe, d’altro canto, tale anche dopo che è giunta a conoscenza del destinatario, fin tanto che essa conservi carattere di attualità. Costituirebbero pertanto «corrispondenza» anche i messaggi di posta elettronica e WhatsApp che, dopo la ricezione, restano conservati nella memoria del dispositivo mobile del mittente o del destinatario.

Ma anche l’estratto di conto corrente bancario rientrerebbe nell’ambito della corrispondenza coperta dalla prerogativa parlamentare, trattandosi di documento con il quale la banca comunica al cliente dati riservati, quali le operazioni di dare e avere compiute in un determinato periodo e le relative causali, che rivelano contratti, obbligazioni e rapporti.

Per altro verso, poi, sarebbe estensibile – secondo il Senato – al sequestro di corrispondenza il principio, affermato da questa Corte in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei membri del Parlamento, in forza del quale quello che conta, ai fini dell’operatività del regime di autorizzazione preventiva, non è la titolarità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto di indagine. Se questo è volto ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, anche se l’utenza sottoposta a controllo appartiene a un terzo.

Tale ipotesi ricorrerebbe nel caso di specie. I decreti di perquisizione e sequestro emessi nei confronti di M. C. e di. V. U. M. erano, infatti, dichiaratamente volti a reperire elementi concernenti i rapporti economici della Fondazione Open, sulla base dell’ipotesi investigativa che, per suo tramite, fossero stati indebitamente finanziati esponenti del Partito democratico eletti in Parlamento. Risulterebbe quindi evidente come gli atti di indagine mirassero a penetrare nella sfera delle comunicazioni di questi ultimi, e in particolare del senatore Renzi, a sostegno della cui azione politica la Fondazione avrebbe precipuamente operato.

2.– Va anzitutto confermata, in punto di ammissibilità del conflitto, la sussistenza dei requisiti, soggettivo e oggettivo, previsti dall’art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), già dichiarata da questa Corte con l’ordinanza n. 261 del 2022, in sede di prima e sommaria delibazione.

Quanto, infatti, al requisito soggettivo, il Senato della Repubblica è legittimato ad essere parte del conflitto di attribuzione, essendo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere che esso impersona, in relazione all’applicabilità della prerogativa di cui all’art. 68, terzo comma, Cost. (ordinanze n. 276 e n. 275 del 2008; analogamente, quanto alla Camera dei deputati, ove ad essa appartenga il membro del Parlamento coinvolto, ordinanze n. 208 del 2022 e n. 327 del 2011).

Sussiste, del pari, la legittimazione passiva della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nel riconoscere la natura di potere dello Stato al pubblico ministero – e, in particolare, al procuratore della Repubblica (sentenza n. 1 del 2013, ordinanza n. 193 del 2018) – in quanto investito dell’attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all’esercizio obbligatorio dell’azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate (ex plurimis, sentenze n. 88 e n. 87 del 2012; ordinanze n. 273 del 2017, n. 217 del 2016, n. 218 del 2012): funzione con riferimento alla quale il pubblico ministero, organo non giurisdizionale, deve ritenersi competente a dichiarare definitivamente, in posizione di piena indipendenza, la volontà del potere giudiziario cui appartiene (sentenza n. 183 del 2017).

Per quel che attiene, poi, al requisito oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione dell’attribuzione prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., che richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza: garanzia volta primariamente a proteggere l’autonomia e l’indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad indebite invadenze di altri poteri, riverberando solo strumentalmente i suoi effetti a favore delle persone investite della funzione (sentenza n. 38 del 2019, ordinanza n. 129 del 2020; analogamente, sentenze n. 74 del 2013 e n. 390 del 2007).

3.– In via preliminare, va ulteriormente rilevato che alla data di deposito del ricorso (11 maggio 2022), uno degli atti all’origine del conflitto – segnatamente, il decreto di perquisizione e sequestro emesso il 20 novembre 2019 nei confronti di M. C. – era già stato annullato dalla Corte di cassazione.

Con sentenza 18 febbraio-30 marzo 2022, n. 11835, la sesta sezione penale – pronunciando sull’impugnazione avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Firenze che aveva confermato il decreto della Procura – ha, infatti, annullato l’ordinanza impugnata e il decreto stesso senza rinvio, disponendo la restituzione a M. C. non soltanto dei materiali sequestrati (tra cui il telefono cellulare), ma anche dei dati da essi estrapolati, senza trattenimento di alcuna copia da parte dell’organo inquirente.

Deve, tuttavia, escludersi che tale circostanza – sulla quale nessuna delle parti si è soffermata nei propri scritti defensionali – determini l’inammissibilità del conflitto in parte qua, per difetto di interesse attuale e concreto alla sua proposizione.

L’annullamento è stato, infatti, disposto per motivi che non attengono alle attribuzioni rivendicate con il conflitto. Il giudice di legittimità ha ritenuto, in sostanza, che non fosse stata offerta adeguata dimostrazione della sussistenza del fumuscommissidelicti. La Procura aveva ritenuto configurabile a carico degli indagati il delitto di finanziamento illecito di partiti politici sul presupposto che la Fondazione Open avesse operato come «articolazione politico-organizzativa» del Partito democratico (e, in particolare, della corrente facente capo al senatore Renzi): ipotesi prospettabile – secondo la Corte di cassazione – solo nel caso in cui l’ente avesse deviato dagli scopi statutari ed esondato dall’ambito fisiologico delle attività delle fondazioni politiche, quale delineato dall’art. 5, comma 4, del decreto-legge 28 dicembre 2013, n. 149, convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 13 (Abolizione del finanziamento pubblico diretto, disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore), nel testo vigente rationetemporis; del che non era stata data, peraltro, prova.

L’annullamento ha lasciato, quindi, persistere l’interesse del Senato a dirimere, comunque sia, l’incertezza circa la spettanza alla Procura del potere, in fatto esercitato, di acquisire i messaggi di testo scambiati in via telematica dal senatore Renzi con M. C. senza preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza del primo.

4.– Passando, con ciò, all’esame del merito del conflitto, il primo e preliminare interrogativo al quale questa Corte si trova a dover dare risposta è se l’acquisizione, da parte della Procura della Repubblica di Firenze, dei materiali di cui si discute sia effettivamente riconducibile al paradigma del «sequestro di corrispondenza», ai fini dell’operatività della prerogativa parlamentare prefigurata dall’art. 68, terzo comma, Cost.

Il punto – sul quale le parti esprimono opinioni contrastanti – va esaminato in modo separato con riguardo ai messaggi di posta elettronica e WhatsApp, da un lato, e all’estratto di conto corrente bancario, dall’altro.

4.1.– Per quanto attiene ai primi, le parti concordano sul fatto che l’acquisizione di messaggi di posta elettronica e WhatsApp operata nel caso di specie non sia qualificabile come intercettazione.

L’affermazione è pienamente condivisibile. Non, però, per la ragione indicata nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (doc. XVI, n. 9) e ripresa anche nel ricorso del Senato, stando alla quale il discrimen tra le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e i sequestri di corrispondenza sarebbe segnato principalmente dalla forma della comunicazione: nel senso che le prime avrebbero ad oggetto comunicazioni orali, mentre i secondi riguarderebbero comunicazioni scritte (siano esse di natura cartacea o telematica). In senso contrario, va infatti osservato che l’art. 266-bis cod. proc. pen. prevede espressamente che le intercettazioni possano avere ad oggetto anche flussi di comunicazioni informatiche o telematiche (dunque, non orali); mentre, sul fronte opposto, tramite l’applicazione WhatsApp possono essere inviati anche messaggi orali, così come possono essere trasmessi mediante posta elettronica file audio contenenti comunicazioni orali. Stando alla tesi della Giunta del Senato, l’acquisizione di tali ultime comunicazioni dovrebbe costituire sempre intercettazione, e mai sequestro di corrispondenza: conclusione difficilmente accettabile.

La linea di confine tra le due ipotesi passa, in realtà, altrove. Come ricordato dalla resistente, le sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno chiarito che per «intercettazione» – fattispecie che il codice di procedura penale non definisce – deve intendersi (in conformità, peraltro, alla comune accezione del vocabolo) l’«apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-24 settembre 2003, n. 36747).

Affinché si abbia intercettazione debbono quindi ricorrere, per quanto qui più interessa, due condizioni. La prima è di ordine temporale: la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus; questa deve cogliere, cioè, la comunicazione nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”). La seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre.

Nessuna delle due condizioni ricorre nel caso in esame: le comunicazioni riguardanti il senatore Renzi non erano in corso quando sono state acquisite; la loro acquisizione è avvenuta, altresì, in modo palese.

4.2.– Esclusa, dunque, l’ipotesi dell’intercettazione, resta da appurare se gli atti investigativi considerati ricadano nell’altra fattispecie cui ha riguardo l’art. 68, terzo comma, Cost.: quella, appunto, del «sequestro di corrispondenza».

In linea generale, che lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenti, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost. non può essere revocato in dubbio.

Posto che quello di «corrispondenza» è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza, questa Corte ha ripetutamente affermato che la tutela accordata dall’art. 15 Cost. – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge» – prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, «aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata» (sentenza n. 2 del 2023). La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale (sentenza n. 20 del 2017; già in precedenza, con riguardo agli apparecchi ricetrasmittenti di debole potenza, sentenza n. 1030 del 1988; sulla libertà del titolare del diritto di scegliere liberamente il mezzo con cui corrispondere, sentenza n. 81 del 1993).

Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione.

La conclusione non muta, peraltro, ove si guardi alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost.

È ben vero che tale disposizione fa riferimento esclusivamente alla «corrispondenza», e non pure, come l’art. 15 Cost., alle «altr[e] form[e] di comunicazione», e che tra i due concetti – «corrispondenza» e «comunicazione» – intercorre, per corrente affermazione, un rapporto di species ad genus. La nozione di «corrispondenza» – utilizzata anche nell’art. 68, terzo comma, Cost. senza ulteriore specificazione – appare, tuttavia, sufficientemente ampia da ricomprendere le forme di scambio di pensiero a distanza che qui vengono in rilievo, costituenti altrettante “versioni contemporanee” della corrispondenza epistolare e telegrafica. Sostenere il contrario, in un momento storico nel quale la corrispondenza cartacea, trasmessa tramite il servizio postale e telegrafico, è ormai relegata, nel complesso, a un ruolo di secondo piano, significherebbe d’altronde deprimere radicalmente la valenza della prerogativa parlamentare in questione.

Soccorre, peraltro, nella direzione considerata anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale non ha avuto incertezze nel ricondurre sotto il cono di protezione dell’art. 8 CEDU – ove pure si fa riferimento alla «corrispondenza» tout court – i messaggi di posta elettronica (Corte EDU, grande camera, sentenza 5 settembre 2017, Barbulescu contro Romania, paragrafo 72; Corte EDU, sezione quarta, sentenza 3 aprile 2007, Copland contro Regno Unito, paragrafo 41), gli SMS (Corte EDU, sezioni quinta, sentenza 17 dicembre 2020, Saber contro Norvegia, paragrafo 48) e la messaggistica istantanea inviata e ricevuta tramite internet (Corte EDU, Grande Camera, sentenza Barbulescu, paragrafo 74).

Come ricorda il ricorrente, d’altro canto, a livello di legislazione ordinaria interna, il quarto comma dell’art. 616 cod. pen., come sostituito dall’art. 5 della legge n. 547 del 1993, già da tempo include espressamente nella nozione di «corrispondenza» – agli effetti delle disposizioni che contemplano i delitti contro l’inviolabilità dei segreti – oltre a quella epistolare, telegrafica e telefonica, anche quella «informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza».

4.3.– Il problema, però, è un altro: stabilire, cioè, se mantengano la natura di corrispondenza anche i messaggi di posta elettronica e WhatsApp già ricevuti e letti dal destinatario, ma conservati nella memoria dei dispositivi elettronici del destinatario stesso o del mittente (come quelli di cui si discute nella specie). Ed è su questo specifico punto che le parti prospettano tesi radicalmente contrapposte.

L’interrogativo rievoca, in effetti, il risalente dibattito circa i limiti temporali finali della tutela accordata dall’art. 15 Cost.: dibattito che ha visto emergere due distinte correnti di pensiero, che le parti richiamano – ciascuna quanto a quella di suo interesse – a sostegno dei rispettivi assunti.

In base ad un primo indirizzo, su cui fa leva il ricorrente nelle sue difese, la tutela – iniziata nel momento in cui l’espressione del pensiero è affidata ad un mezzo idoneo a trasmetterlo, rendendo così fattivo l’intento di comunicarlo ad altri – non si esaurirebbe con la ricezione del messaggio e la presa di cognizione del suo contenuto da parte del destinatario, ma permarrebbe finché la comunicazione conservi carattere di attualità e interesse per i corrispondenti. Essa verrebbe meno, quindi, solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in un documento “storico”, cui può attribuirsi esclusivamente un valore retrospettivo, affettivo, collezionistico, artistico, scientifico o probatorio.

Secondo altra concezione, invece – cui si richiama la resistente – la corrispondenza già ricevuta e letta dal destinatario non sarebbe più un mezzo di comunicazione, ma un semplice documento. La garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si giustificherebbe, infatti, con la particolare “vulnerabilità” dei messaggi nel momento in cui sono “corrisposti”, per il maggior rischio di captazione o apprensione da parte di terzi: essa cesserebbe, quindi, con l’esaurimento dell’atto del corrispondere, coincidente con il momento in cui il destinatario prende cognizione della comunicazione. Dopo tale momento, la corrispondenza resterebbe tutelata, non più dall’art. 15 Cost., ma da altre disposizioni costituzionali, quali quelle in materia di libertà personale e domiciliare, libertà di manifestazione del pensiero, diritto di difesa o diritto di proprietà.

La resistente invoca altresì, a supporto della propria tesi, la giurisprudenza di legittimità, che ha definito i confini applicativi della fattispecie del sequestro di corrispondenza delineata dall’art. 254 cod. proc. pen.: ciò, sia con riguardo alla corrispondenza epistolare (tra le altre, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 23 aprile-12 giugno 2014, n. 24919; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 19 aprile-18 luglio 2012, n. 28997), sia – e per quel che più direttamente interessa – in relazione ai messaggi elettronici. Con indirizzo che appare, allo stato, consolidato, la Corte di cassazione ha, infatti, affermato che i messaggi di posta elettronica, SMS e WhatsApp, già ricevuti e memorizzati nel computer o nel telefono cellulare del mittente o del destinatario, hanno natura di «documenti» ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen. La loro acquisizione processuale non soggiace, pertanto, né alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 266-bis cod. proc. pen.), né a quella del sequestro di corrispondenza di cui al citato art. 254 cod. proc. pen., la quale implica una attività di spedizione in corso (in quest’ultimo senso, con riguardo alle singole categorie di messaggi che di volta in volta venivano in rilievo, ex plurimis, tra le ultime, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 1° luglio-19 ottobre 2022, n. 39529; Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 16 marzo-8 giugno 2022, n. 22417; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 10 marzo-6 maggio 2021, n. 17552).

4.4.– La tesi della resistente – che porterebbe al rigetto del ricorso, in quanto non si sarebbe di fronte a una ipotesi di sequestro di corrispondenza, ma a una mera e “generica” acquisizione di documenti, non rientrante nel novero degli atti per i quali l’art. 68 Cost. esige il placet della Camera di appartenenza del parlamentare – non può essere, peraltro, condivisa.

Degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere,è soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione.

Una simile conclusione si impone a maggior ragione allorché non si tratti solo di stabilire cosa sia corrispondenza per la generalità dei consociati, ma di delimitare specificamente l’area della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro l’art. 68, terzo comma, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Come posto in evidenza da questa Corte, la citata norma costituzionale non prefigura un privilegio del singolo parlamentare in quanto tale – la libertà e segretezza delle cui comunicazioni è già protetta dall’art. 15 Cost. – ma una prerogativa «strumentale […] alla salvaguardia delle funzioni parlamentari», volendosi impedire che intercettazioni e sequestri di corrispondenza possano essere «indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività» (sentenza n. 390 del 2007; in senso analogo, sentenze n. 38 del 2019 e n. 74 del 2013, ordinanza n. 129 del 2020). Se questa è la ratio della prerogativa, limitarla alle sole comunicazioni in corso di svolgimento e non già concluse, significherebbe darne una interpretazione così restrittiva da vanificarne la portata: condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare possono bene derivare, infatti, anche dalla presa di conoscenza dei contenuti di messaggi già pervenuti al destinatario. Come nota anche la difesa del Senato, nella prospettiva avversata, sarebbe agevole per gli organi inquirenti eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire la corrispondenza del parlamentare: anziché captare le comunicazioni nel momento in cui si svolgono, basterebbe attenderne la conclusione (che nel caso dei messaggi elettronici è peraltro pressoché coeva), per poi sequestrare il dispositivo in cui vi è traccia del loro contenuto.

Questa Corte, d’altronde, ha già da tempo affermato che la garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si estende anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storicoche una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo): problema postosi particolarmente in rapporto ai tabulati telefonici, contenenti l’elenco delle chiamate in partenza o in arrivo da una determinata utenza (sentenza n. 81 del 1993; in senso conforme, sentenze n. 372 del 2006 e n. 281 del 1998). In proposito, si è rilevato che «la stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità – attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto “come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana” (v. sent. n. 366 del 1991) – comporta un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo» (sentenza n. 81 del 1993).

Ad analoga conclusione questa Corte è, peraltro, più di recente pervenuta anche con riferimento alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., ritenuta essa pure riferibile ai tabulati telefonici (sentenza n. 38 del 2019). A questo riguardo, si è osservato come non possa ravvisarsi una differenza ontologica tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, quale il tabulato telefonico: documento che – come già rilevato in precedenza ad altro fine (sentenza n. 188 del 2010) – può aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali, «di ampiezza ben maggiore rispetto alle esigenze di una specifica indagine e riguardanti altri soggetti (in specie, altri parlamentari) per i quali opera e deve operare la medesima tutela dell’indipendenza e della libertà della funzione» (sentenza n. 38 del 2019).

Ma se, dunque, l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute (quali quelli memorizzati in un tabulato) gode delle tutele accordate dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore.

La Corte europea dei diritti dell’uomo non ha avuto, d’altro canto, esitazioni nel ricondurre nell’alveo della «corrispondenza» tutelata dall’art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk,Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya Stefanov contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione a una fattispecie del tutto analoga a quella oggi in esame, ossia al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano ancheSMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48).

Il diverso indirizzo della giurisprudenza di legittimità, su cui fa leva la resistente, non riguarda la garanzia dell’art. 68 Cost., e appare, in effetti, calibrato sulla specificità della disciplina recata dall’art. 254 cod. proc. pen., che regola esclusivamente il sequestro di corrispondenza operato presso i gestori di servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni: dunque, il sequestro di corrispondenza in itinere, che interrompe il flusso comunicativo.

La stessa Corte di cassazione si è espressa, peraltro, in senso ben diverso quando si è trattato di individuare la sfera applicativa del delitto di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza delineato dall’art. 616 cod. pen. Essa ha ritenuto, infatti, che tale disposizione incriminatrice tuteli proprio e soltanto il momento “statico” della comunicazione, cioè il pensiero già fissato su supporto fisico, essendo il profilo “dinamico” oggetto di protezione nei successivi artt. 617 e 617-quater cod. pen., che salvaguardano le comunicazioni in fase di trasmissione da interferenze esterne (presa di cognizione, impedimento, interruzione, intercettazione) (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 29 settembre-4 novembre 2020, n. 30735; Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 febbraio-15 marzo 2017, n. 12603). In quest’ottica, la giurisprudenza di legittimità ha quindi ripetutamente affermato che integra il delitto di violazione di corrispondenza la condotta di chi prende abusivamente cognizione del contenuto della corrispondenza telematica ad altri diretta e conservata nell’archivio di posta elettronica (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 marzo-2 maggio 2019, n. 18284; Cass., sentenza n. 12603 del 2017). In direzione analoga appare, altresì, orientata la Corte di cassazione civile (in tema di licenziamento disciplinare, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 10 settembre 2018, n. 21965).

Si deve dunque concludere che, analogamente all’art. 15 Cost., quanto alla corrispondenza della generalità dei cittadini, anche, e a maggior ragione, l’art. 68, terzo comma, Cost. tuteli la corrispondenza dei membri del Parlamento – ivi compresa quella elettronica – anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all’interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”.

Al riguardo, non giova opporre – come fa la resistente – che la tesi qui recepita sarebbe fonte di inaccettabili incertezze sul piano applicativo, non essendo gli organi inquirenti in grado di sapere, a priori, se il messaggio comunicativo già recapitato e appreso dal destinatario conservi, nella considerazione dei soggetti coinvolti, carattere di attualità. Tale carattere deve, infatti, presumersi, sino a prova contraria, quando si discuta di messaggi scambiati – come nella specie – a una distanza di tempo non particolarmente significativa rispetto al momento in cui dovrebbero essere acquisiti e nel corso dello svolgimento del mandato parlamentare in cui tale momento si colloca, e per giunta ancora custoditi in dispositivi protetti da codici di accesso.

La conclusione è, dunque, che, per questo verso, si è al cospetto di sequestri di corrispondenza rientranti nell’ambito della guarentigia di cui all’art. 68, terzo comma, Cost.

4.5.– Il discorso è diverso quanto all’acquisizione dell’estratto di conto corrente bancario.

Nel sostenere che anche quest’ultima configuri un sequestro di corrispondenza, il ricorrente fa leva, in particolare, sulla circostanza che, per obbligo derivante dalla legge, l’estratto di conto corrente – prospetto redatto dalla banca, nel quale sono riportati tutti i movimenti di dare e di avere verificatisi nel conto durante il lasso temporale di riferimento – deve formare oggetto di periodica spedizione al correntista. Tale obbligo, prefigurato a livello codicistico dal combinato disposto degli artt. 1832 e 1857 del codice civile, trova specifica disciplina nell’art. 119 t.u. bancario, il quale, dopo aver stabilito, in via generale, al comma 1, che nei contratti di durata la banca fornisca al cliente, alla scadenza del contratto e, comunque sia, almeno una volta l’anno, «una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto», soggiunge, al comma 2, che per i «rapporti regolati in conto corrente» l’estratto conto è inviato con periodicità annuale o con quella più breve – semestrale, trimestrale o mensile – prescelta dal cliente.

Ora, se oggetto di apprensione da parte degli organi inquirenti fosse l’estratto conto spedito dalla banca al correntista, si potrebbe effettivamente ritenere che le garanzie previste dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost. entrino in gioco. Come si ricorda nel ricorso, la giurisprudenza di legittimità ha, del resto, più volte ravvisato il delitto di violazione di corrispondenza (art. 616 cod. pen.) in fatti di sottrazione della corrispondenza bancaria (per tutte, Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 28 novembre 2017-12 gennaio 2018, n. 952).

Non è questo, però, il caso in esame. Nella specie, infatti, come dedotto e documentato dalla Procura di Firenze, l’estratto del conto corrente bancario del senatore Renzi è entrato negli atti di indagine tramite un decreto, emesso l’11 gennaio 2021, di acquisizione di segnalazioni di operazioni bancarie sospette effettuate in base alla normativa antiriciclaggio di cui al d.lgs. n. 231 del 2007: segnalazioni tra i cui allegati figurava l’estratto conto in questione (relativo a un periodo di ventuno mesi: dal 14 giugno 2018 al 13 marzo 2020), ricavato dalla segnalante Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia tramite interrogazione delle banche dati in suo possesso.

In simile ipotesi, non può parlarsi di sequestro di corrispondenza. L’estratto conto è, infatti, un documento che ha una funzione e una valenza autonoma, indipendente dalla spedizione al correntista. Esso non è altro, in effetti, che un riepilogo delle risultanze delle scritture contabili della banca, le quali debbono riportare tutte le operazioni di dare e di avere passate in conto corrente. Si tratta, dunque, di per sé, di un documento contabile interno all’ente creditizio: la circostanza che possa o debba essere trasmesso al cliente non lo qualifica in modo automatico e permanente come «corrispondenza», agli effetti dell’art. 68, terzo comma, Cost.

A ciò non vale obiettare che l’estratto conto riporta – come pure si sottolinea nel ricorso – dati riservati, capaci di rivelare, anche tramite i riferimenti ai destinatari e alle causali delle singole operazioni, contratti, obbligazioni e rapporti del parlamentare. L’art. 68, terzo comma, Cost. non tutela, infatti, genericamente e indiscriminatamente la riservatezza del parlamentare, la cui protezione è affidata alle conferenti norme valevoli per la generalità dei consociati. L’art. 68 Cost. esige l’autorizzazione della Camera di appartenenza solo per eseguire specifici atti nei confronti dei membri del Parlamento, particolarmente suscettibili di incidere sullo svolgimento del mandato elettivo (limitazioni della libertà personale, perquisizioni personali e domiciliari, intercettazioni, sequestri di corrispondenza): non, invece, di espletare, con altri mezzi, indagini bancarie sul parlamentare, né di acquisire, in diverso modo, suoi dati personali, utili a fini di indagine. In effetti, le prerogative poste a tutela della funzione parlamentare comportano una deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione – principio che è all’origine della formazione dello Stato di diritto – e devono perciò essere interpretate alla luce della loro ratio, evitando improprie letture estensive (sentenze n. 38 del 2019 e n. 74 del 2013).

Con riferimento all’atto investigativo in questione, il ricorso va dunque ritenuto non fondato, per la dirimente ragione che tale atto resta al di fuori del perimetro applicativo della prerogativa parlamentare invocata.

5.– Il ricorso va, al contrario, accolto in relazione agli atti di indagine ai quali la prerogativa risulta correttamente accostata: ossia – per quanto si è visto – all’acquisizione di messaggi di posta elettronica e WhatsApp.

5.1.– A questo proposito, si rende necessario peraltro precisare in quale modo, nella fattispecie considerata, il regime dell’autorizzazione al sequestro di corrispondenza, previsto dall’art. 68, terzo comma, Cost. e dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003, è destinato ad operare.

Nella specie, si è di fronte a “contenitori” di dati informatici appartenenti a terzi – telefoni cellulari, ma potrebbe trattarsi, allo stesso modo, di computer o di altri dispositivi – nella cui memoria erano conservati, tra l’altro, messaggi inviati in via telematica a un parlamentare, o da lui provenienti.

In una simile evenienza, gli organi inquirenti debbono ritenersi abilitati a disporre – in confronto al terzo non parlamentare – il sequestro del “contenitore” (nella specie, del dispositivo di telefonia mobile). Nel momento, però, in cui riscontrano la presenza in esso di messaggi intercorsi con un parlamentare, debbono sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo (o dalla relativa copia) e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare, a norma dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, al fine di poterli coinvolgere nel sequestro.

In accordo con quanto sostenuto nella relazione della Giunta, approvata dall’Assemblea, e diversamente dall’impostatura poi adottata nel ricorso, l’autorizzazione va chiesta, nei termini dianzi delineati, a prescindere da ogni valutazione circa la natura “mirata” o “occasionale” dell’acquisizione dei messaggi del parlamentare, operata tramite l’apprensione dei dispositivi appartenenti a terzi (tema – quello della natura “mirata” o “occasionale” delle acquisizioni investigative – sul quale pure le difese delle parti si trattengono ampiamente, con opposte conclusioni rispetto al caso di specie). La distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte in rapporto alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, tra captazioni “indirette” e captazioni “occasionali” – con limitazione alle prime dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione preventiva all’esecuzione dell’atto, ai sensi dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003 (sentenza n. 390 del 2007; in senso conforme, sentenze n. 157 del 2023, n. 38 del 2019, n. 114 e n. 113 del 2010) – non è, infatti, riferibile alla fattispecie di sequestro di corrispondenza che qui viene in esame. Diversamente che nel caso delle intercettazioni – le quali consistono in una attività prolungata nel tempo di captazione occulta di comunicazioni o conversazioni che debbono ancora svolgersi nel momento in cui l’atto investigativo è disposto – qui si discute dell’acquisizione uno actu di messaggi comunicativi già avvenuti. Una volta riscontrato che si tratta di messaggi di un parlamentare, o a lui diretti, diviene, quindi, in ogni caso operante la guarentigia di cui all’art. 68, terzo comma, Cost.

A tale ricostruzione non giova opporre – come fa la resistente – che con il sequestro del dispositivo la corrispondenza in esso contenuta deve ritenersi già sequestrata e nella piena disponibilità del pubblico ministero procedente: di modo che l’estrazione dei dati rappresenterebbe un posterius rispetto all’esecuzione dell’atto investigativo per il quale è prefigurata la garanzia in questione. In senso contrario, va osservato che nel caso di sequestro probatorio informatico il “vero” oggetto del sequestro non è tanto il dispositivo elettronico (il “contenitore”) – il quale, di per sé, non ha di norma alcun interesse per le indagini – quanto piuttosto i suoi dati (il “contenuto”), nella parte in cui risultano utili alle indagini stesse: dati che, secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, vanno all’uopo selezionati e fatti possibilmente oggetto di una “copia-clone”, con restituzione del dispositivo (e della disponibilità di tutti gli altri dati) al titolare.

Il modulo procedurale che si è delineato garantisce, d’altro canto, un punto di equilibrio tra gli interessi in gioco, evitando inopportune dilatazioni degli effetti propri della prerogativa parlamentare, che rischierebbero di penalizzare in modo ingiustificato le stesse iniziative dell’autorità giudiziaria volte all’accertamento dei reati. Quando pure, infatti, gli organi inquirenti possano prevedere che nel telefono cellulare o nel computer di una persona sottoposta ad indagini siano memorizzati messaggi di un parlamentare, ciò non impedisce, comunque sia, agli organi stessi di apprendere il dispositivo e di sequestrare tutti gli altri dati informatici contenuti nel dispositivo, che nulla hanno a che vedere con la corrispondenza del parlamentare: fermo restando invece l’onere della richiesta di autorizzazione al fine di estrapolare dal dispositivo e di acquisire agli atti del procedimento i messaggi che riguardano il parlamentare stesso. L’autorizzazione resta pur sempre preventiva rispetto al sequestro di corrispondenza, senza trasformarsi – come opina la resistente – in una autorizzazione ex post ai fini dell’utilizzazione processuale delle risultanze di un atto investigativo già eseguito: autorizzazione che l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 prevede solo in rapporto alle intercettazioni e all’acquisizione di tabulati telefonici, e non pure al sequestro di corrispondenza.

La ricostruzione prospettata spiega, d’altro canto, perché il citato art. 6 non abbia esteso la disciplina dell’autorizzazione successiva, da esso recata, al sequestro di corrispondenza. Posto che, secondo quanto chiarito da questa Corte, tale disciplina deve intendersi riferita alle sole intercettazioni a carattere “occasionale”, non soggette al regime dell’autorizzazione preventiva (sentenza n. 390 del 2007), la spiegazione risiede appunto nel fatto che, rispetto al sequestro di corrispondenza, la natura “occasionale” o “mirata” dell’atto non viene in considerazione, risultando per esso in ogni caso necessaria l’autorizzazione preventiva, ai sensi dell’art. 4 della medesima legge, nei termini dianzi precisati.

5.2.– Nel caso in esame, la Procura fiorentina ha estratto dalla memoria dei telefoni cellulari di M. C. e di V. U. M. e acquisito agli atti del procedimento i messaggi diretti al senatore Renzi, o da lui provenienti, senza chiedere al Senato alcuna autorizzazione.

Così facendo, ha dunque determinato la menomazione dell’attribuzione prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., lamentata dal ricorrente.

6.– Alla luce delle considerazioni che precedono, il conflitto di attribuzione sollevato dal Senato della Repubblica deve essere risolto dichiarando che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze acquisire agli atti del procedimento penale n. 3745/2019 R.G.N.R., sulla base di decreti di perquisizione e sequestro emessi il 20 novembre 2019, corrispondenza riguardante il senatore Matteo Renzi, costituita da messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp tra il senatore Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il senatore Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché da posta elettronica intercorsa fra quest’ultimo e il senatore Renzi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018.

Per l’effetto, il sequestro degli indicati messaggi di testo scambiati tra il senatore Renzi e V. U. M. deve essere annullato. Non vi è luogo, invece, ad adottare analogo provvedimento in relazione al sequestro della corrispondenza intercorsa tra il senatore Renzi e M. C., in quanto l’annullamento dello stesso è già stato disposto, sia pure per altri motivi, dalla Corte di cassazione, secondo quanto ricordato al precedente punto 3 del Considerato in diritto.

Va dichiarato, di contro, che spettava alla Procura acquisire agli atti del medesimo procedimento penale, tramite decreto di acquisizione emesso l’11 gennaio 2021, l’estratto del conto corrente bancario personale del senatore Renzi relativo al periodo 14 giugno 2018-13 marzo 2020.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze acquisire agli atti del procedimento penale iscritto al n. 3745 del registro generale delle notizie di reato del 2019, sulla base di decreti di perquisizione e sequestro emessi il 20 novembre 2019, corrispondenza riguardante il senatore Matteo Renzi, costituita da messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp tra il senatore Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il senatore Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché da posta elettronica intercorsa fra quest’ultimo e il senatore Renzi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018;

2) annulla, per l’effetto, il sequestro dei messaggi di testo scambiati tra il senatore Matteo Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018;

3) dichiara che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Firenze acquisire agli atti del procedimento penale n. 3745/2019 R.G.N.R., tramite decreto di acquisizione emesso l’11 gennaio 2021, l’estratto del conto corrente bancario personale del senatore Matteo Renzi relativo al periodo 14 giugno 2018-13 marzo 2020.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2023

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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