Corte Costituzionale, Ordinanza n.23 del 14/02/2023

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ORDINANZA N. 23

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), e dell’art. 1 del decreto legislativo 31 maggio 2016, n. 92 (Disciplina della sezione autonoma dei Consigli giudiziari per i magistrati onorari e disposizioni per la conferma nell’incarico dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari in servizio), promosso dal Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra F. P. e il Ministero della giustizia, con ordinanza del 29 novembre 2021, iscritta al n. 225 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti l’atto di costituzione di F. P., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2023 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi gli avvocati Sergio Natale Edoardo Galleano e Giorgio Fontana per F. P. e l’avvocato dello Stato Francesco Sclafani per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2023.

Ritenuto che, con ordinanza del 29 novembre 2021, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge 21 novembre 1991, n. 374 (Istituzione del giudice di pace), «nella parte in cui consente il rinnovo degli incarichi per 18 anni», e dell’art. 1 del decreto legislativo 31 maggio 2016, n. 92 (Disciplina della sezione autonoma dei Consigli giudiziari per i magistrati onorari e disposizioni per la conferma nell’incarico dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari in servizio), «nella parte in cui consente un ulteriore incarico di durata quadriennale, così da determinare una reiterazione abusiva degli incarichi», per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato;

che il giudizio principale è stato promosso da F. P. – giudice di pace presso l’ufficio del Giudice di pace di Brescia dal 2012 e, precedentemente, presso l’ufficio del Giudice di pace di Viareggio dal 2004 al 2010 e del Giudice di pace di Lodi dal 2010 al 2012 – per ottenere l’accertamento giudiziale dello svolgimento, fin dal primo decreto di nomina, di un «servizio continuativo alle dipendenze del Ministero della Giustizia, qualificabile in termini di lavoro subordinato», in applicazione «del diritto dell’Unione Europea, secondo i principi indicati dalla Corte di Giustizia Europea»;

che, fra le domande proposte, la ricorrente ha chiesto anche l’accertamento della «abusiva reiterazione da parte del Ministero convenuto di rapporti di lavoro a termine […], in violazione della direttiva n. 1999/70/CE e della vigente normativa nazionale», con condanna del Ministero medesimo al risarcimento dei danni, in misura comunque «non inferiore all’indennità risarcitoria prevista dall’art. 32 l. n. 180/2010, oltre al risarcimento del danno ulteriore»;

che la ricorrente osserva come, a fronte del divieto di «reiterazione abusiva di contratti a termine» previsto dalla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla citata direttiva, la legge n. 374 del 1991 avrebbe consentito invece, per i giudici di pace, «proroghe dei distinti rapporti di lavoro a termine per 18 anni», in assenza di qualunque giustificazione;

che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente sottolinea come la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 16 luglio 2020, in causa C-658/18, UX, in sede di rinvio pregiudiziale, abbia affermato che «un giudice di pace che, nell’ambito delle sue funzioni, svolge prestazioni reali ed effettive, che non sono né puramente marginali né accessorie, e per le quali percepisce indennità aventi carattere remunerativo, può rientrare nella nozione di “lavoratore”», e, in particolare, in quella di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi di plurime disposizioni di diritto dell’Unione europea, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare;

che, ricorda il rimettente, per la Corte di giustizia la nozione di “lavoratore” non potrebbe essere interpretata in modo da variare a seconda degli ordinamenti nazionali, presentando, piuttosto, una portata autonoma, propria del diritto dell’Unione europea;

che, in particolare, per la sentenza citata, «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è data dalla circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni […] in cambio delle quali percepisca una retribuzione» (paragrafo 94), sicché non sarebbe dirimente, in contrario, «la sola circostanza che le funzioni del giudice di pace siano qualificate come “onorarie” dalla normativa nazionale» (paragrafo 100);

che il rimettente rammenta, ancora, che la Corte di giustizia ha esaminato le modalità di organizzazione del lavoro dei giudici di pace, rilevando che costoro, sebbene possano modulare le proprie attività in modo più flessibile rispetto a chi esercita altre professioni, sono tenuti a rispettare tabelle organizzative vincolanti e dettagliate, e sono tenuti ad osservare gli ordini di servizio del capo dell’ufficio e i provvedimenti organizzativi speciali e generali del Consiglio superiore della magistratura;

che, una volta ricostruiti i principi affermati dalla Corte di giustizia, il giudice a quo ritiene che – in base alle modalità di svolgimento del servizio dedotte da F. P. e non contestate dal Ministero convenuto – essi siano tutti applicabili alle prestazioni svolte dalla ricorrente, la quale, dunque, rientrerebbe pienamente, a suo giudizio, nella definizione euro-unitaria di “lavoratore”, avendo reso a favore del Ministero convenuto prestazioni non puramente marginali ed accessorie, in cambio delle quali ha percepito una retribuzione commisurata all’attività svolta, ed avendo ella dovuto rispettare le apposite tabelle di organizzazione del lavoro e le disposizioni del capo dell’ufficio;

che risulta documentato nel giudizio principale come la ricorrente sia stata nominata con decreto ministeriale ed immessa nelle funzioni di giudice onorario in data 27 settembre 2004, per un primo incarico quadriennale, ottenendo successivamente due conferme dell’incarico, sempre quadriennali, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 374 del 1991, nonché una ulteriore conferma quadriennale nel 2016 ai sensi degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 92 del 2016, sicché alla fattispecie troverebbe applicazione la clausola 5, punto 1, del citato accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva n. 1999/70/CE, secondo cui, «[p]er prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti»;

che, a parere del giudice a quo, il quale richiama a sostegno giurisprudenza della Corte di giustizia, disposizioni nazionali che si limitino ad autorizzare, in modo generale ed astratto, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione non soddisferebbero i criteri di cui alla normativa europea, la quale imporrebbe agli Stati membri l’obbligo di introdurre nel proprio ordinamento giuridico almeno una delle misure innanzi elencate, qualora non siano già in vigore disposizioni normative equivalenti, volte a prevenire in modo effettivo il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato;

che, per il rimettente, la normativa interna in tema di conferimento degli incarichi di giudice di pace non sarebbe conforme alla clausola 5, punto 1, del citato accordo quadro sul lavoro a tempo determinato;

che, in particolare, le disposizioni censurate avrebbero consentito la reiterazione di incarichi a termine in favore della ricorrente per sedici anni, «ammettendo in generale rinnovi per complessivi 22 anni», senza contenere prescrizioni effettive, «volte a circoscrivere le ragioni poste a sostegno dei successivi rinnovi», né a limitare gli incarichi successivi, o comunque la durata massima totale degli incarichi «entro un termine ragionevolmente compatibile con esigenze temporanee e non strutturali»;

che le richiamate disposizioni interne avrebbero, al contrario, consentito il rinnovo di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, presenterebbero un carattere non già provvisorio, ma, piuttosto, permanente e durevole, appunto in contrasto con la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’indicato accordo quadro;

che il contrasto tra la normativa europea e quella interna in materia di incarichi conferiti ai giudici di pace non potrebbe «essere risolto mediante la disapplicazione della fonte interna incompatibile», non essendo la suddetta clausola 5 direttamente applicabile, perché non incondizionata né sufficientemente precisa sotto il profilo del suo contenuto, attribuendo agli Stati membri il potere discrezionale di ricorrere, al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato, ad una o più tra le misure enunciate in tale clausola (sono citate le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea 23 aprile 2009, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki ed altri, e 15 aprile 2008, in causa C-268/2006, Impact);

che il contrasto non potrebbe neppure essere composto in via interpretativa, quindi alla luce del testo e dello scopo della direttiva, e al fine di conseguire il risultato perseguito da quest’ultima, in quanto il tenore testuale delle disposizioni censurate consentirebbe espressamente il rinnovo degli incarichi «per ben 22 anni e senza motivazione alcuna», secondo una disciplina di settore avente «natura chiusa e speciale»;

che, in punto di rilevanza, osserva il giudice a quo, gli incarichi quadriennali conferiti alla ricorrente sono stati rinnovati per complessivi sedici anni, proprio «in forza delle citate norme», sicché tali incarichi, «allo stato conformi al diritto interno, muterebbero la loro qualificazione» nel caso in cui la questione di legittimità costituzionale fosse considerata fondata, con conseguente possibilità di accogliere la domanda della ricorrente «di condanna del Ministero convenuto al risarcimento dei danni», in conseguenza della reiterazione, accertata come abusiva, «di rapporti di lavoro a termine fin dall’assunzione in servizio»;

che F. P. si è costituita in giudizio, aderendo alla prospettazione del rimettente;

che la parte ha però segnalato, in via preliminare, lo ius superveniens di cui all’art. 1, commi da 629 a 633, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), di cui ha illustrato il contenuto, chiedendo a questa Corte «una valutazione circa la sua legittimità costituzionale e/o circa la sua conformità al diritto dell’Unione europea»;

che, in particolare, F. P. ha chiesto a questa Corte – in luogo della restituzione degli atti al giudice rimettente – una declaratoria di illegittimità costituzionale «conseguenziale e derivata dell’art. 29, commi 2, 5 e 9, del d.lgs. n.116/2017, nella parte in cui tali norme precludono, estinguendolo con la rinunzia ex lege al giudizio in corso, il diritto richiesto nel procedimento principale», per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.;

che, in subordine, ha chiesto a questa Corte di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, «affinché venga accertato se le disposizioni vigenti dei Trattati, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la direttiva 1999/70 e i principi affermati dalla stessa Corte di giustizia europea […] non ostino a che detta disposizione disponga la caducazione ope legis di tutti i diritti pregressi e colleghi comunque all’esercizio del diritto di azione una sanzione così grave qual è l’automatica cessazione dell’incarico lavorativo»;

che, quanto al merito della questione sollevata, la parte ha chiarito la portata delle pretese avanzate nel giudizio a quo, escludendo di aver mai domandato una «parificazione di status con i magistrati professionali» né, tanto meno, la «costituzione ope iudicis di un diverso rapporto, di natura pubblicistica, per il futuro», essendosi limitata a rivendicare – alla luce delle modalità di svolgimento della funzione onoraria, «sviluppate in direzione di un modello di disciplina non previsto certo nella figura teorica ipotizzata dalla Costituzione», e dunque «nei termini […] di una situazione legale e fattuale di lavoro subordinato» – il riconoscimento dei «diritti primari riconosciuti dal diritto dell’Unione» e dal «combinato disposto degli artt. 3 e 36 Costituzione»;

che la parte, infine, ha ricordato come, «in applicazione della sentenza UX», alcune pronunce di merito (che sono state prodotte unitamente alla memoria di costituzione) abbiano deciso cause similari, accogliendo domande di giudici di pace «sostanzialmente analoghe a quelle svolte nella presente causa»;

che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata;

che, per l’interveniente, la questione sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto, secondo la stessa prospettazione del rimettente, la reiterazione degli incarichi di giudice di pace, in quanto disposta direttamente dalle norme censurate, potrebbe essere dichiarata illecita solo nel caso di accoglimento della questione sollevata, sicché dovrebbe trovare applicazione l’indirizzo di questa Corte secondo cui una pronuncia di illegittimità costituzionale successiva ad una condotta conforme al diritto vigente all’epoca del fatto non muterebbe la qualificazione giuridica di quest’ultima, trasformandola in una condotta illecita, e quindi non potrebbe avere alcuna influenza sulla domanda di risarcimento del danno oggetto del giudizio principale (sono richiamate le ordinanze n. 15 del 2014, n. 337 del 2011, n. 71 del 2009 e n. 337 del 2008);

che la questione sarebbe comunque non fondata, per erroneità del presupposto di partenza secondo cui i giudici di pace rientrerebbero nella «nozione eurounitaria di lavoratore subordinato»;

che, infatti, per l’Avvocatura generale dello Stato, la magistratura professionale viene selezionata mediante concorso – a seguito del quale viene instaurato un rapporto di pubblico impiego, caratterizzato da continuità ed esclusività – mentre per la magistratura onoraria, non venendo essa selezionata attraverso procedure concorsuali, non sarebbe configurabile un rapporto di impiego, bensì un rapporto onorario discontinuo e non esclusivo;

che sarebbe questa la ragione per la quale diverse disposizioni della legge n. 374 del 1991 ribadiscono la natura onoraria del servizio prestato dal giudice di pace, secondo una impostazione condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, la quale sarebbe costante nell’escludere la sussistenza di un rapporto d’impiego pubblico in capo al magistrato onorario e, dunque, la natura retributiva (e sinallagmatica) del compenso percepito per il servizio svolto (sono citati alcuni arresti, anche a Sezioni unite), assimilabile piuttosto al reddito da lavoro autonomo;

che, in riferimento alla sentenza della Corte di giustizia resa nella causa UX, l’Avvocatura evidenzia come essa escluda «un’equiparazione automatica della magistratura onoraria alla magistratura ordinaria», rimettendo piuttosto al giudice nazionale il compito di verificare, caso per caso, «se un giudice onorario si trovi o meno nelle situazioni di comparabilità con la magistratura ordinaria»;

che, peraltro, pur volendo ammettere che i giudici onorari possano essere ricompresi nella nozione di lavoratore ai sensi del diritto europeo, la natura pubblica del datore di lavoro non consentirebbe di qualificarli come pubblici dipendenti, «in mancanza del presupposto costituzionale del pubblico concorso»;

che, aggiunge l’Avvocatura, anche per la giurisprudenza europea, del resto, la mancanza di un concorso iniziale per l’accesso, unitamente alla diversa qualità e quantità (rispetto alla natura degli affari trattati e all’impegno ridotto, discontinuo e non esclusivo) del lavoro prestato, costituirebbero ragioni oggettive per giustificare un trattamento differenziato in ordine allo status e al trattamento giuridico-economico;

che, in ogni caso, quand’anche si volesse ritenere che il giudice di pace rientri nella «nozione eurounitaria di “lavoratore”», il reiterato rinnovo degli incarichi non integrerebbe, per l’interveniente, la fattispecie di “abuso” di cui alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato;

che la stessa Corte di giustizia avrebbe infatti precisato che la successione dei rapporti di lavoro a termine non è idonea a pregiudicare la finalità dell’accordo quadro, se il lavoratore esercita un’attività professionale al di fuori del suddetto rapporto di lavoro e svolge il suo incarico a tempo parziale (è citata, in particolare, Corte di Giustizia, sentenza 13 marzo 2014, in causa C-190/13, Márquez Samohano);

che anche l’Avvocatura ha dato notizia dell’entrata in vigore dei commi da 629 a 633 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021, illustrandone i contenuti e chiedendo a questa Corte di disporre la restituzione degli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata;

che, in prossimità dell’udienza di discussione, la parte e l’Avvocatura generale dello Stato hanno presentato memorie, ribadendo le proprie argomentazioni e illustrandole più approfonditamente;

che, in particolare, F. P. ha evidenziato che i medesimi principi espressi dalla sentenza UX sarebbero stati ribaditi nella più recente Corte di giustizia, sentenza 7 aprile 2022, in causa C-236/20, PG, di cui ha riportato i passaggi più rilevanti.

Considerato che il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge n. 374 del 1991 e dell’art. 1 del d.lgs. n. 62 del 2016, nella parte in cui consentono il conferimento, senza soluzione di continuità, di incarichi quadriennali ai giudici di pace per un periodo complessivo anche ultraventennale, dando così luogo a una reiterazione degli incarichi, ritenuta «abusiva» perché non sorretta dalle ragioni giustificative richieste dalla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato, e dunque, in relazione a tale parametro interposto, lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost.;

che nel giudizio principale, sul presupposto dello svolgimento dell’incarico di giudice di pace sin dal 2004, secondo modalità tali da consentire la riconduzione dell’attività nell’ambito della nozione di «lavoro subordinato» in applicazione «del diritto dell’Unione Europea e secondo i principi indicati dalla Corte di Giustizia Europea», la ricorrente ha avanzato, tra le altre, domanda di accertamento dell’abusiva reiterazione di «rapporti di lavoro a termine», con conseguente condanna del Ministero della giustizia al risarcimento dei danni;

che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente afferma che ricorrono le condizioni richieste dalla Corte di giustizia, con la sentenza resa nella causa UX, per il riconoscimento, in capo ai giudici di pace, della qualifica di lavoratore ai sensi del diritto dell’Unione europea, avendo accertato lo svolgimento, da parte della ricorrente, di prestazioni non puramente marginali ed accessorie, in cambio delle quali ella ha percepito una retribuzione commisurata all’attività svolta, in un contesto caratterizzato dall’obbligo di rispettare le apposite tabelle di organizzazione del lavoro e le disposizioni del capo dell’ufficio;

che, in base alla medesima giurisprudenza della Corte di giustizia, non sarebbe ostativa al riconoscimento di tale qualifica la sola circostanza che le funzioni del giudice di pace siano qualificate come “onorarie” dalla normativa nazionale;

che le disposizioni censurate, di conseguenza, limitandosi ad autorizzare, in modo generale ed astratto, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, si porrebbero in contrasto con l’evocato parametro interposto, non sussistendo nell’ordinamento interno misure adeguate a prevenire e, se del caso, sanzionare in modo effettivo l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato;

che, in particolare, le disposizioni censurate avrebbero consentito la reiterazione di incarichi a termine in favore della ricorrente per sedici anni, senza contenere prescrizioni effettive, «volte a circoscrivere le ragioni poste a sostegno dei successivi rinnovi», ed anzi consentendo il rinnovo dei rapporti al fine di soddisfare esigenze non già temporanee e provvisorie, bensì permanenti e durevoli, appunto in contrasto con la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato;

che il conflitto con la normativa europea non potrebbe essere superato «mediante la disapplicazione della fonte interna incompatibile», essendo la suddetta clausola 5 dell’accordo quadro priva di efficacia diretta;

che neppure l’interpretazione conforme potrebbe comporre il contrasto, alla luce del tenore letterale delle disposizioni censurate, che consentono espressamente il rinnovo degli incarichi «per ben 22 anni e senza motivazione alcuna»;

che tale ultima osservazione fonderebbe anche la rilevanza della questione, in quanto gli incarichi quadriennali conferiti alla ricorrente sono stati rinnovati per complessivi sedici anni, proprio «in forza delle citate norme», sicché essi, «allo stato conformi al diritto interno, muterebbero la loro qualificazione» solo nel caso in cui la questione di legittimità costituzionale fosse considerata fondata, con conseguente possibilità di accogliere la domanda risarcitoria avanzata dalla ricorrente;

che, in via preliminare, occorre considerare la sopravvenienza normativa di cui ai commi da 629 a 633 dell’art. 1 della legge n. 234 del 2021;

che, in particolare, il comma 629, lettera a), del citato art. 1, ha sostituito l’art. 29 del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116 (Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonché disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57), prevedendo una procedura di conferma “a tempo indeterminato”, sino al compimento dei settanta anni di età, dei magistrati onorari già in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto, senza che ciò comporti la trasformazione della natura dell’incarico conferito, che la legge continua a qualificare come onorario;

che tale nuova disciplina prevede che la conferma sia subordinata al superamento di procedure valutative, con attribuzione, in caso di esito positivo, di un trattamento economico, comprensivo di copertura previdenziale e assistenziale, parametrato a quello di un funzionario amministrativo, in misura variabile a seconda che l’interessato eserciti o meno l’opzione per il «regime di esclusività delle funzioni onorarie» (art. 29, comma 6, del d.lgs. n. 116 del 2017);

che è previsto, inoltre, che la partecipazione alla procedura comporti la «rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso» (art. 29, comma 5, del d.lgs. n. 116 del 2017);

che è stabilito, infine, che i magistrati onorari che non accedano alla conferma, tanto nell’ipotesi di mancata presentazione della domanda, quanto in quella di mancato superamento, per qualsiasi motivo, della procedura valutativa, cessano dall’incarico, salvo il diritto ad una indennità calcolata in base al numero di anni di servizio onorario prestato ma, comunque, di ammontare non superiore a cinquantamila euro, la cui accettazione comporta, a sua volta, «rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario cessato» (art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 116 del 2017);

che, in disparte ogni valutazione sulla correttezza dell’argomento speso dal Tribunale rimettente, che subordina alla dichiarazione di illegittimità costituzionale la possibilità di considerare illecita la reiterazione degli incarichi conferiti alla ricorrente, la questione va altresì rivalutata alla luce della sopravvenienza di un nuovo arresto della Corte di giustizia;

che infatti, quest’ultima, sempre nelle more del giudizio incidentale, con la citata sentenza resa nella causa PG, ancora con riferimento alla disciplina nazionale dettata per i giudici di pace (inclusa la legge n. 374 del 1991), dopo aver ribadito i principi enunciati dalla precedente sentenza UX, ha statuito che «[l]a clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato […] deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale in forza della quale un rapporto di lavoro a tempo determinato può essere oggetto, al massimo, di tre rinnovi successivi, ciascuno di quattro anni, per una durata totale non superiore a sedici anni, e che non prevede la possibilità di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo il rinnovo abusivo di rapporti di lavoro»;

che, trattandosi, sia con riferimento alla legge n. 234 del 2021, sia con riferimento alla sentenza della Corte di giustizia da ultimo ricordata, di sopravvenienze che incidono profondamente sull’ordito logico che sta alla base della censura avanzata (ordinanze di questa Corte n. 227 e n. 97 del 2022) e che, comunque, apportano al quadro normativo considerevoli cambiamenti (sentenza n. 125 del 2018; ordinanze n. 200 e n. 145 del 2017, n. 163 del 2016), spetta al giudice a quo effettuare una nuova valutazione circa la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata;

che, dunque, occorre restituire gli atti al giudice a quo, affinché accerti, in primo luogo, l’applicabilità al giudizio principale della nuova normativa e, conseguentemente, verifichi se le sopravvenute disposizioni di diritto interno siano, alla luce di quanto richiesto dal diritto dell’Unione europea, adeguate a prevenire e, se del caso, sanzionare l’illecito prefigurato dallo stesso rimettente, spettando in prima battuta a quest’ultimo – e non a questa Corte, pur se a tanto sollecitata – anche scrutinare le eccezioni d’illegittimità costituzionale sollevate sulle nuove disposizioni dalla parte ricorrente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Brescia.

Così deciso in Roma, nella sede dalla Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 14 febbraio 2023.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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