La libertà vigilata, quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale, non è una misura di sicurezza e neppure una sanzione aggiuntiva, ma la prosecuzione, in forme meno afflittive, della pena già subìta in origine. Liberazione condizionale e libertà vigilata costituiscono infatti un tutt’uno, e si delineano, unitamente considerate, come una misura alternativa alla detenzione.
La libertà vigilata è dunque una sorta di “prova in libertà”, finalizzata, analogamente alle altre modalità di esecuzione extra-muraria della pena, a favorire il graduale reinserimento del condannato nella società.
È quanto stabilito dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 66 dell'11 aprile 2023, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze su due disposizioni del codice penale (articoli 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2).
Il Tribunale aveva sollevato dubbi sulla compatibilità delle norme in questione con il principio di ragionevolezza e la finalità rieducativa della pena, sostenendo che queste prevedono l'applicazione obbligatoria della libertà vigilata al condannato all'ergastolo ammesso alla liberazione condizionale e ne stabiliscono una durata fissa di cinque anni. Inoltre, le norme non consentono al magistrato di sorveglianza di far cessare anticipatamente l'esecuzione della misura.
Tuttavia, la sentenza ha chiarito che la disciplina non determina alcun "automatismo irragionevole". La libertà vigilata, infatti, ha l'obiettivo di verificare la correttezza della prognosi di "sicuro ravvedimento" già effettuata in sede di concessione della liberazione condizionale e consente l'espiazione della pena in forma meno afflittiva. Non è irragionevole che ciò avvenga per un periodo fisso, poiché la pena originariamente inflitta è già stata commisurata alle specificità della situazione concreta.
Inoltre, la sentenza sottolinea che l'ammissione alla liberazione condizionale permette l'accesso alla definitiva estinzione della pena una volta decorsa l'intera durata. Per il condannato all'ergastolo, che può accedere alla libertà condizionale solo dopo aver trascorso in carcere ventisei anni, il periodo di libertà vigilata non può che avere una durata prestabilita e fissa. Tale periodo è accompagnato da prescrizioni ed obblighi modulabili ad opera della magistratura di sorveglianza, alla luce delle peculiarità del caso concreto e del principio costituzionale di risocializzazione previsto dall'articolo 27 della Costituzione.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 66 del 11/04/2023
SENTENZA N. 66
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, promosso dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, nel procedimento di sorveglianza nei confronti di B. V., con ordinanza del 15 marzo 2022, iscritta al n. 78 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visti l’atto di costituzione di B. V., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 febbraio 2023 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi l’avvocato Michele Giacomo Carlo Passione per B. V., e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 15 marzo 2022 (reg. ord. n. 78 del 2022), il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. «177 co. 1» (recte: 177, secondo comma) e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, «nella parte in cui: 1) stabiliscono l’obbligatoria applicazione della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale; 2) stabiliscono la durata della libertà vigilata in misura fissa e predeterminata; 3) non prevedono la possibilità per il Magistrato di sorveglianza di verificare in concreto durante l’esecuzione della libertà vigilata l’adeguatezza della sua permanente esecuzione alle esigenze di reinserimento sociale del liberato condizionalmente e non ne consentono, per l’effetto, la revoca anticipata».
2.– Il giudice a quo riferisce che, con provvedimento del 29 ottobre 2020, il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha ammesso B. V. – condannato alla pena dell’ergastolo per «aver fatto parte di un’organizzazione criminale» e per i «delitti di omicidio plurimo e detenzione illegale di armi […] eseguiti per motivi di mafia e consumati» nell’anno «1990» – alla liberazione condizionale. Il giudizio favorevole al provvedimento si sarebbe fondato, oltre che sull’intervenuto adempimento delle obbligazioni civili e sull’accertata impossibilità di risarcire integralmente il danno, sul riconoscimento del sicuro ravvedimento dell’interessato. Nel periodo della carcerazione, infatti, lo stesso avrebbe partecipato effettivamente alle attività trattamentali, si sarebbe impegnato negli studi universitari e avrebbe compiuto un adeguato percorso di revisione critica delle proprie condotte criminali. Lo stesso aveva inoltre già fruito, con buon esito, di permessi premio e della semilibertà.
In conseguenza della concessione della liberazione condizionale, trasmessi gli atti al Magistrato di sorveglianza per gli adempimenti di cui all’art. 190 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), B. V. è stato sottoposto, a far data dal 5 novembre 2020, a libertà vigilata, che «avrà termine il 5 novembre 2025, salva concessione della liberazione anticipata».
L’ordinanza di rimessione dà conto del fatto che l’istanza presentata al magistrato di sorveglianza da B. V. per la revoca della predetta misura è stata rigettata, in quanto non consentita dalla normativa di riferimento. Il Tribunale di sorveglianza, odierno rimettente, è stato dunque investito dell’appello proposto avverso tale diniego di revoca, sull’assunto che la libertà vigilata applicata al soggetto ammesso a liberazione condizionale rientrerebbe tra le misure di sicurezza, dovendo pertanto andare soggetta alla previsione di cui all’art. 202, primo comma, cod. pen., che ne prevede l’applicazione solo per le persone «socialmente pericolose». L’ordinanza precisa che, in subordine, l’appellante ha eccepito l’illegittimità costituzionale della disposizione che determina in misura fissa, e senza possibilità di revoca anticipata, la durata della misura.
3.– Il giudice a quo esclude, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa di B. V., di poter addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate.
Osserva anzitutto che, sebbene il veicolo processuale previsto per l’impugnazione della pronuncia del magistrato di sorveglianza – ossia l’appello ai sensi dell’art. 680, comma 1, cod. proc. pen. – sia espressamente indicato per le misure di sicurezza, ciò non deporrebbe per la riconducibilità a queste ultime dell’istituto in esame, trattandosi di procedimento con caratteri di «atipicità», finalizzato a garantire una generale tutela contro i provvedimenti limitativi della libertà personale. Ad ogni modo, «a prescindere dalla natura che si voglia attribuire alla misura in esame», sarebbe «la dizione letterale» delle disposizioni censurate a sottrarre alla discrezionalità del giudice ogni possibile decisione sull’applicazione, nell’an e sul quantum, della libertà vigilata, e sull’eventuale revoca anticipata della misura nell’ipotesi di sopravvenienze positive. L’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. include tra i casi in cui «deve» essere ordinata la libertà vigilata l’ipotesi del condannato ammesso alla liberazione condizionale, e, per parte sua, l’art. 177, secondo comma, cod. pen. stabilisce che, «[d]ecorso tutto il tempo della pena inflitta, ovvero cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, se trattasi di condannato all’ergastolo, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena rimane estinta […]».
4.– In punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che l’appellante avrebbe raggiunto «un grado di affidabilità elevato anche sotto l’aspetto della convinta revisione critica delle scelte criminali della sua vita precedente», tanto da confortare il convincimento «circa un serio e ragionevole giudizio prognostico di conformazione della futura condotta di vita ai valori dell’ordinamento sociale». Ciò non di meno, le «tassative» disposizioni censurate non consentirebbero un «riesame circa la necessità della permanenza della libertà vigilata fino alla conclusione del periodo quinquennale», e condurrebbero al rigetto dell’appello. Viceversa, in caso di accoglimento delle questioni sollevate, la misura della libertà vigilata «potrebbe essere ridotta nella durata o revocata al pari di qualunque altra misura di sicurezza, ben prima della sua naturale scadenza».
5.– Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il rimettente muove dalla considerazione che la misura oggetto di esame «sembrerebbe collegata ad un presupposto radicalmente antitetico alla pericolosità», in quanto essa è disposta successivamente all’accertamento di quel «completo ravvedimento che fonda la meritevolezza del beneficio maggiore», tanto che sia questa Corte (è citata la sentenza n. 282 del 1989) sia la giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 gennaio-19 marzo 1991, n. 343), pur riconoscendone «l’indubbio carattere afflittivo», avrebbero ad essa attribuito una funzione diversa da quella delle misure di sicurezza vere e proprie, e cioè quella di «sostegno e controllo» dei comportamenti del condannato in libertà, «al fine di verificare se il giudizio sul ravvedimento trovi rispondenza nella realtà dei fatti».
5.1.– Per il giudice a quo, in particolare, la libertà vigilata applicata al condannato che abbia ottenuto la liberazione condizionale sarebbe «una sanzione a tutti gli effetti», che consegue obbligatoriamente alla commissione del reato «che ha dato origine alla condanna oggetto di liberazione condizionale», e che reca con sé, come riconosciuto da questa Corte (sentenza n. 282 del 1989) e dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 29 novembre 2016-22 marzo 2017, n. 13934 e 7-23 aprile 2009, n. 17343), una indubbia afflittività, comportando notevoli restrizioni alla libertà del condannato.
Secondo il rimettente – che non contesta, in sé considerata, la scelta di aver previsto una misura «aggiuntiva alla liberazione condizionale», quanto la sottrazione al giudice di qualsiasi potere discrezionale in ordine alla sua applicazione o riduzione – sarebbe superfluo stabilire se si tratti di «sanzione penale (autonoma)» o di «misura di sicurezza». Da tempo, infatti, le misure di sicurezza sarebbero state ricondotte al genus delle sanzioni penali; e come tutte le sanzioni «lato sensu penali» anche quella in esame dovrebbe rispettare i principi del finalismo rieducativo, della proporzionalità e della individualizzazione del trattamento sanzionatorio.
Quello disciplinato dalle norme censurate sarebbe, invece, un «automatismo sanzionatorio […] che permea sia il momento genetico della misura (an) sia la sua durata (quantum)», e che preclude al giudice ogni tipo d’intervento, non potendo questi attribuire «la giusta importanza al processo di rieducazione del condannato», «presumibilmente già compiutosi», alla luce del «sicuro ravvedimento» posto a fondamento della liberazione condizionale.
5.2.– Questa soluzione legislativa, aggiunge il rimettente, sarebbe il risultato di una scelta di politica criminale «risalente nel tempo», adottata quando era assente l’articolato sistema delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari, successivamente introdotti con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Prima di tale riforma, la liberazione condizionale era l’unico strumento che consentiva al detenuto – e in particolare all’ergastolano – di acquisire spazi di libertà, sicché poteva apparire comprensibile, in quel momento, che «il contenuto sostanziale del ravvedimento» fosse ricavabile solo attraverso un controllo successivo alla liberazione. Oggi, invece, a venire in rilievo sarebbe il complessivo «excursus trattamentale del condannato», sicché l’applicazione di misure quali i permessi premio, la liberazione anticipata, il lavoro esterno e la semilibertà consentirebbero una verifica «“ex ante”» del ravvedimento necessario a ottenere la misura più ampia della liberazione condizionale.
5.3.– Per queste ragioni, oltre a confliggere con l’art. 27 Cost., la disciplina censurata lederebbe l’art. 3 Cost. Infatti, la stessa accomunerebbe la condizione di individui con percorsi rieducativi eterogenei, prescindendo dal diverso grado di risocializzazione raggiunto da ciascuno. A supporto delle proprie tesi, il rimettente richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui ogni fattispecie con pena fissa sarebbe per ciò solo indiziata di illegittimità (sono richiamate le sentenze n. 222 del 2018, n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963, nonché, in ambito di sanzioni amministrative accessorie, la sentenza n. 88 del 2019).
A dispetto di ciò, le disposizioni censurate – che introdurrebbero un irragionevole automatismo «per meri scopi di controllo sociale in ambito extramurario» – sottrarrebbero al giudice la facoltà di una determinazione in concreto della misura, «pur con il limite minimo di durata previsto dall’art. 228, co. 5 c.p.».
5.4.– Avendo riconosciuto alla misura in esame la natura di sanzione penale, il rimettente dichiara infine di non doversi confrontare con la sentenza di questa Corte che, «in data assai risalente (12 maggio 1977 n. 78)», ha dichiarato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 177, ultimo comma, cod. pen., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 27 Cost. e prospettata «nei termini di raffronto con le misure di sicurezza». A giudizio del Tribunale di sorveglianza di Firenze, infatti, questa Corte avrebbe all’epoca valorizzato «soprattutto la funzione di controllo sul soggetto vigilato per il suo cauto reinserimento sociale», giungendo in tal modo ad escludere la necessità di accertamenti sulla pericolosità.
6.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate non fondate.
L’interveniente sostiene che l’odierna questione sarebbe sovrapponibile, almeno in parte, a quella già decisa con la sentenza n. 78 del 1977, i cui principi sarebbero stati «ripresi e condivisi» nella sentenza n. 282 del 1989.
A parere dell’Avvocatura, nelle pronunce appena citate questa Corte avrebbe affermato la «inscindibilità del binomio liberazione condizionale-libertà vigilata», espressione formale della «essenziale natura di modalità esecutiva della pena che è propria della liberazione condizionale». Con l’applicazione di tale misura, in altre parole, la finalità rieducativa della pena si realizzerebbe sostituendo al rapporto esecutivo della pena carceraria il rapporto esecutivo della libertà vigilata di cui all’art. 230 cod. pen.
Nella sentenza n. 282 del 1989 si è infatti affermato che la revoca della liberazione condizionale «estingue lo status di “vigilato in libertà” del condannato e (ri)costituisce quello di “detenuto”». Ciò starebbe a significare che contenuti afflittivi e riadattamento sociale «connotano congiuntamente struttura e dinamica effettuale della liberazione condizionale», la quale, nel momento stesso in cui presuppone il «sicuro ravvedimento» del condannato, imporrebbe tuttavia l’ulteriore «prova in libertà».
L’ordinanza di rimessione non si sarebbe invece misurata con tali basilari considerazioni, obliterando quella che rappresenterebbe «una più generale caratteristica del nostro sistema», nel quale «l’esecuzione penale è il momento in cui viene data attuazione alla volontà espressa dalla legge e dalla sentenza di condanna, anche in ordine al “quantum” della pena da eseguire». Il rimettente postulerebbe, invece, un diverso sistema nel quale il giudice dell’esecuzione sarebbe chiamato ad accertare, «in un dato momento dei diversi “rapporti esecutivi”», se il condannato, in ragione del suo percorso rieducativo e dell’avvenuto ravvedimento, abbia scontato «“abbastanza pena”». Tuttavia, se così fosse, opina l’interveniente, il dubbio di legittimità costituzionale dovrebbe allora estendersi anche alla previsione che fissa in ventisei anni la quota di pena che deve essere stata espiata per accedere alla liberazione condizionale.
7.– Nel giudizio si è costituito B. V., appellante nel giudizio a quo, il quale riferisce anzitutto che, in forza della libertà vigilata cui è sottoposto, gli sono state impartite le seguenti prescrizioni: a) obbligo di svolgere l’attività lavorativa indicata nell’ordinanza applicativa della misura e di comunicare al magistrato competente eventuali modifiche; b) divieto di trattenersi fuori dalla propria abitazione dalle ore 22.00 alle ore 6.00 di ogni giorno; c) divieto di detenere o portare addosso armi proprie od altri strumenti atti ad offendere; d) obbligo di portare sempre con sé la «carta precettiva» e di esibirla ad ogni richiesta degli ufficiali e agenti della forza pubblica; e) divieto di allontanarsi dalla Provincia di Firenze senza autorizzazione del magistrato di sorveglianza; f) divieto di frequentare pregiudicati, tossicodipendenti o persone sottoposte a misure di sicurezza o di prevenzione; g) obbligo di presentarsi due volte al mese «ed ogni qualvolta ne sarà richiesto dall’Autorità incaricata della vigilanza»; h) divieto di cambiare abitazione senza permesso del magistrato di sorveglianza; i) obbligo di prendere e mantenere contatti con l’ufficio esecuzione penale esterna (UEPE) di Firenze.
Asserisce inoltre di aver «ottenuto la liberazione condizionale secondo una interpretazione costituzionalmente orientata (sentt. 32 del 2020 e 193 del 2020) dell’art. 4 bis o.p., avendo commesso i delitti prima della entrata in vigore del DL n. 306/’92, convertito in L. n. 356/’92».
Ciò posto, la parte sostiene in primo luogo che, dovendosi riconoscere alla libertà vigilata in esame natura di misura di sicurezza, la relativa disciplina dovrebbe leggersi in accordo con l’art. 202 cod. pen. Sarebbe infatti da sottoporre a critica il precedente di legittimità costituito dalla sentenza della Corte di cassazione n. 343 del 1991, e, in particolare, il passaggio della relativa motivazione in cui si afferma che la misura in parola si differenzierebbe dalle misure di sicurezza, perseguendo lo scopo di consentire un controllo sul condannato per verificare «se il giudizio sul ravvedimento trovi corrispondenza nella realtà dei fatti», giacché tale affermazione sarebbe «apodittica e illogica». D’altra parte, con il precedente costituito dalla sentenza n. 78 del 1977, questa Corte non avrebbe sciolto il nodo della natura giuridica dell’istituto.
In subordine, anche laddove si volesse seguire la tesi del rimettente, secondo cui la libertà vigilata avrebbe in questo caso natura di sanzione penale, la giurisprudenza costituzionale avrebbe comunque chiarito che «previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in linea con il volto costituzionale del sistema penale» (è citata la sentenza n. 185 del 2021) e «ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo indiziata di illegittimità» (è citata la sentenza n. 222 del 2018, unitamente alla sentenza n. 232 del 2021).
Per queste ragioni, e conclusivamente, secondo la parte, per effetto dell’auspicato accoglimento delle questioni sollevate, «potrebbero divenire applicabili alla misura de qua le disposizioni generali concernenti i termini di durata, il riesame periodico e la revoca anticipata della libertà vigilata ordinaria».
8.– Ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, hanno depositato opinioni scritte, quali amici curiae, l’Associazione italiana dei professori di diritto penale (AIPDP), in data 28 luglio 2022, e l’Unione camere penali italiane (UCPI), in data 1° agosto 2022, opinioni entrambe ammesse con decreto presidenziale del 10 gennaio 2023.
L’AIPDP, che ritiene violati anche gli artt. 3 e 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, 2 del Protocollo n. 4 alla CEDU e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, muove dall’assunto che l’istituto in esame presenterebbe «irrisolti profili di ambiguità», ma che sarebbero indubitabili la sua afflittività e natura penale.
Il precedente specifico costituito dalla sentenza n. 78 del 1977 della Corte costituzionale non sarebbe dirimente, perché se è vero che il giudice può adeguare le prescrizioni della libertà vigilata alle esigenze di controllo e sostegno del vigilato, ciò non sarebbe sufficiente a soddisfare compiutamente le esigenze di proporzionalità e individualizzazione del trattamento penale. Ancora, l’amicus curiae evidenzia come la misura sarebbe fondata su una presunzione assoluta di pericolosità sociale del soggetto o, per coloro che non assimilano la libertà vigilata di cui all’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. ad una misura di sicurezza, su una presunzione, altrettanto assoluta, di «una ineludibile necessità di controllo sulla persona condizionalmente liberata». Si tratterebbe, in ogni caso, di una presunzione manifestamente irragionevole, perché, nel caso di persona che abbia superato positivamente il vaglio del sicuro ravvedimento, la pericolosità rappresenterebbe l’eccezione (è citata la sentenza n. 1 del 1971 di questa Corte).
L’UCPI, per parte sua, ritiene non convincente il tentativo della Corte di cassazione di «svincolare dalla logica delle ordinarie misure di sicurezza la “peculiare” libertà vigilata conseguente all’ammissione all’istituto di cui all’art. 176 c.p.». Più precisamente, o si assume che tale peculiare istituto sia comunque assimilabile ad una misura di sicurezza – e allora, ai fini della sua applicazione, occorre il previo accertamento della pericolosità del soggetto – oppure lo si considera una differente modalità esecutiva della pena, e allora non potrà non censurarsene la fissità.
9.– La parte ha depositato memoria in vista dell’udienza, contestando puntualmente le tesi dell’Avvocatura generale e insistendo per l’accoglimento delle sollevate questioni di legittimità costituzionale. In particolare, a suo dire, «il giudice di sorveglianza è giudice del futuro, e non del passato», e dovrebbe pertanto essergli consentito valutare il percorso di reinserimento sociale della persona. Il legislatore, invece, mentre consente al giudice, in caso di revoca della liberazione condizionale, di tener conto del periodo trascorso in libertà vigilata ai fini del calcolo della pena residua, gli preclude una valutazione sul raggiungimento della finalità della pena ai fini di una revoca della libertà vigilata prima del decorso del previsto termine di cinque anni.
Considerato in diritto
l.– Il Tribunale di sorveglianza di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), cod. pen.
Le due disposizioni sono censurate, innanzitutto, nella parte in cui stabiliscono l’obbligatoria applicazione della misura della libertà vigilata al condannato alla pena dell’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale. Così disponendo, esse violerebbero gli artt. 3 e 27 Cost., poiché prevedrebbero un «automatismo ex lege» in forza del quale al condannato in questione la libertà vigilata è applicata non già in base alla sua concreta situazione e in virtù di specifici elementi rivelatori di esigenze di difesa sociale, bensì sulla scorta del dato «meramente formale» legato alla concessione della misura.
In secondo luogo, gli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), cod. pen. violerebbero di nuovo gli artt. 3 e 27 Cost. in quanto stabiliscono la durata della libertà vigilata in misura predeterminata e fissa. Nonostante le «forti limitazioni della libertà personale» che essa comporta, la durata della misura è infatti prevista «per un tempo prefissato ex lege», essendo così sottratta al giudice la facoltà di una sua determinazione in concreto, «pur con il limite minimo di durata previsto dall’art. 228, co. 5 c.p.». Ne risulterebbe, in particolare, il contrasto con i principi di individualizzazione e proporzionalità della sanzione penale, che rendono «indiziata di illegittimità» ogni fattispecie sanzionata con pena fissa.
Ancora, le due disposizioni sono sottoposte a censura nella parte in cui non prevedono che il magistrato di sorveglianza possa valutare in concreto, nel corso della misura, l’adeguatezza della sua permanente esecuzione alle esigenze di reinserimento sociale del liberato condizionalmente, non consentendone, quindi, la revoca anticipata. Ciò, in ulteriore violazione degli artt. 3 e 27 Cost., poiché al giudice non sarebbe possibile verificare la coerenza della restrizione della libertà personale rispetto alle esigenze di pieno reinserimento e di raggiunta conformazione ai valori della convivenza sociale. L’impossibilità di interrompere l’esecuzione della misura, pur in presenza di significativi progressi compiuti dalla persona liberata condizionalmente, impedirebbe così di riconoscere che il «sacrificio» imposto dalla misura della libertà vigilata non è più necessario.
Infine, è lamentata la violazione dell’art. 3 Cost., poiché le due disposizioni accomunerebbero «situazioni soggettive differenti che, pur nel presupposto comune del sicuro ravvedimento, sono invece caratterizzate da percorsi rieducativi eterogenei». In violazione del principio di eguaglianza, verrebbe in rilievo un automatismo concepito «per meri scopi di controllo sociale in ambito extramurario», ingiustificabile sotto il profilo del «divieto di trattare allo stesso modo situazioni che invece presentano caratteristiche differenti».
2.– Deve essere anzitutto esclusa l’incidenza sull’odierno giudizio della novella costituita dal decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di termini di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e di disposizioni relative a controversie della giustizia sportiva, nonché di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2, di attuazione del Piano nazionale contro una pandemia influenzale e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199.
Intervenendo sul regime di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti che non hanno collaborato con la giustizia e che risultano perciò soggetti a regime cosiddetto “ostativo”, l’art. 2 del predetto d.l. n.162 del 2022, come convertito, per quanto qui interessa, ha elevato a dieci anni il periodo di sottoposizione a libertà vigilata cui è soggetto il condannato all’ergastolo ammesso alla liberazione condizionale, e ha per costui previsto il divieto specifico di tenere contatti, durante l’esecuzione della misura, con soggetti condannati per taluni reati o nei cui confronti sono applicate talune misure di prevenzione.
Il regime cosiddetto ostativo, tuttavia, risulta non applicato all’appellante nel giudizio a quo.
Come si evince dall’ordinanza di rimessione, i reati in questione sono stati commessi nell’anno 1990, quindi prima dell’entrata in vigore del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, che ha introdotto nell’art. 4-bis ordin. penit. la disciplina ostativa. Circostanza, questa – riferisce inoltre l’atto di costituzione della parte interessata – che avrebbe consentito al Tribunale di sorveglianza di Firenze di concedere la liberazione condizionale sulla base di una «interpretazione costituzionalmente orientata» dell’art. 4-bis ordin. penit. (fondata sulle sentenze n. 193 e n. 32 del 2020 di questa Corte), essendo stati i reati commessi, appunto, prima della entrata in vigore della disciplina ostativa.
3.– Ciò premesso, le questioni non sono fondate.
4.– Viene qui all’attenzione la situazione del soggetto ammesso alla liberazione condizionale, con particolare riferimento al condannato alla pena dell’ergastolo. L’art. 176 cod. pen. stabilisce, in generale, che possa accedere alla misura il condannato a pena detentiva che abbia tenuto, durante il tempo della sua esecuzione, un comportamento «tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento» e che abbia adempiuto alle obbligazioni civili derivanti dal reato, a meno che si dimostri l’impossibilità di provvedere in tal senso. La disposizione richiede, inoltre, che sia stata già espiata una determinata quota di pena (almeno trenta mesi e comunque non meno della metà di quella inflitta) e che il residuo non superi una certa soglia (cinque anni). Una specifica regola è dettata per il condannato all’ergastolo, che può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena.
Il successivo art. 177 cod. pen. definisce il possibile esito della liberazione condizionale, ovverosia l’estinzione della pena, che si produce una volta decorso un determinato periodo di tempo senza che siano intervenute cause di revoca della misura. Per la generalità dei condannati la disposizione richiede che sia decorso «tutto il tempo della pena inflitta», mentre per il condannato all’ergastolo è necessario che trascorrano «cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale».
Quanto al regime cui è sottoposta la persona ammessa alla liberazione condizionale, rileva quanto previsto dall’art. 230 cod. pen., disposizione che indica i casi nei quali «deve essere ordinata la libertà vigilata» (così, testualmente, la rubrica), tra i quali il primo comma, numero 2), annovera proprio l’ipotesi del soggetto ammesso alla liberazione condizionale.
Dunque, la lettura a sistema delle disposizioni portate all’attenzione di questa Corte comporta che il detenuto ammesso alla liberazione condizionale va soggetto a libertà vigilata (art. 230, primo comma, numero 2, cod. pen.) e che tale status – di liberato condizionalmente sottoposto a vigilanza – perdura, quando si tratti di condannato alla pena dell’ergastolo, per cinque anni (art. 177, secondo comma, cod. pen.).
5.– La decisione delle odierne questioni richiede che questa Corte chiarisca la natura della libertà vigilata, quale si rivela nelle fattispecie come quella in esame, cioè quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale. Se, infatti, la libertà vigilata si presenta ordinariamente come misura di sicurezza a tutti gli effetti, più controversa è la sua natura laddove essa risulti disposta ai sensi dell’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen.
In generale, le misure di sicurezza trovano la loro «peculiare ragion d’essere» nella «funzione di contenimento della pericolosità sociale [del soggetto]» (sentenza n. 22 del 2022), con la conseguenza che esse operano se e quando l’autore del fatto la esprime in concreto, «sia nel momento dell’applicazione della misura, sia nel momento della sua esecuzione» (sentenza n. 197 del 2021).
D’altra parte, sulla scorta di pronunce di questa Corte (in particolare, sentenze n. 249 del 1983 e n. 139 del 1982), il legislatore è intervenuto, da un lato, ad abrogare l’art. 204 cod. pen. – disposizione che ammetteva, in questa materia, ipotesi di «[p]ericolosità sociale presunta» (art. 31, primo comma, della legge 10 ottobre 1986, n. 663, recante «Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure provative e limitative della libertà») – dall’altro, a statuire, coerentemente, che tutte le misure di sicurezza sono ordinate previo accertamento in concreto della condizione di pericolosità sociale (art. 31, secondo comma).
Si ritiene comunemente che queste modifiche abbiano condizionato l’interpretazione dello stesso art. 230 cod. pen., rendendo non più obbligata, nei casi che l’articolo indica, l’applicazione della libertà vigilata, se non quando il giudice abbia in concreto valutato come socialmente pericoloso il soggetto interessato. Da questa lettura, tuttavia, resta esclusa, come assume lo stesso rimettente, la fattispecie qui rilevante, cioè quella del condannato ammesso alla liberazione condizionale, per la semplice ragione che costui non solo non è socialmente pericoloso ma ne è stato al contrario ritenuto il “sicuro ravvedimento”: in questa ipotesi, la libertà vigilata continua ad operare ex lege, sia pur mediata da un provvedimento del magistrato di sorveglianza che ne stabilisce le concrete modalità esecutive (Cass., sent. n. 343 del 1991).
6.– Il giudice rimettente muove da una peculiare ricostruzione della natura dell’istituto in esame, non del tutto condivisa, peraltro, dalla parte costituita in giudizio e avversata dall’interveniente Avvocatura dello Stato.
L’ordinanza di rimessione riconosce che alla libertà vigilata prevista ai sensi dell’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. è assegnata una funzione diversa rispetto a quella propria delle misure di sicurezza, e assume trattarsi di una «sanzione a tutti gli effetti, che in ogni caso consegue alla commissione di un reato (quello che ha dato origine alla condanna oggetto di liberazione condizionale)».
Affermando che quella in esame sarebbe «misura aggiuntiva alla liberazione condizionale», sostiene, d’altra parte, che non avrebbe, per vero, importanza configurarla quale «sanzione penale (autonoma)» o quale «misura di sicurezza», in quanto, avendo carattere afflittivo come tutte le «sanzioni lato sensu penali», soggiacerebbe al necessario rispetto dei principi di proporzionalità, finalità rieducativa e individualizzazione del trattamento sanzionatorio: esattamente ciò che le due disposizioni censurate, a suo avviso, negherebbero.
In definitiva, non si sarebbe in presenza di una misura di sicurezza vera e propria e, in ogni caso, a risultare decisiva sarebbe la circostanza che si tratti di una misura comunque afflittiva, che si aggiunge alla liberazione condizionale, e che deve dunque essere soggetta al regime di ogni altra sanzione penale.
A differenza del rimettente, la parte assume invece con nettezza che la libertà vigilata sia una misura di sicurezza, sicché la relativa disciplina dovrebbe «leggersi in accordo, e non in contrasto, con l’art. 202, comma l, c.p.», cioè con la disposizione ai cui sensi le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose. Sull’assunto che il giudice a quo abbia però escluso la percorribilità di questa interpretazione, stante dunque l’applicazione ex lege della misura, ne deriverebbe il necessario accoglimento delle questioni sollevate. D’altro canto, sottolinea ancora la parte, la libertà vigilata presenterebbe in ogni caso valenza «penale ed afflittiva», dovendosi perciò conformare ai principi costituzionali in materia penale.
Muovendo da una ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, l’Avvocatura dello Stato, per parte sua, approda ad una conclusione del tutto diversa, che la conduce a sostenere la non fondatezza delle questioni. Sottolinea, cioè, la «inscindibilità del binomio liberazione condizionale-libertà vigilata», e insiste particolarmente sulla «essenziale natura di modalità esecutiva della pena che è propria della liberazione condizionale». Richiamando la sentenza n. 282 del 1989 di questa Corte, afferma che la liberazione condizionale «sostitu[isce] al rapporto esecutivo della pena carceraria il rapporto esecutivo della libertà vigilata di cui all’art. 230, n. 2, c.p.».
Per parte loro, infine, discutono la natura dell’istituto in esame anche le opinioni presentate dall’Associazione italiana dei professori di diritto penale e dall’Unione camere penali italiane, in qualità di amici curiae. Muovendo dall’assunto che la libertà vigilata, pur presentando irrisolti profili di ambiguità, esibisca indubitabilmente connotato afflittivo e penale, con argomentazioni diversamente articolate ne traggono la comune conclusione che la misura sarebbe irragionevolmente fondata su una presunzione assoluta di pericolosità sociale; in ogni caso, se la libertà vigilata ai sensi dell’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. non fosse assimilata ad una misura di sicurezza, essa sarebbe comunque fondata sulla presunzione, altrettanto assoluta e irragionevole, circa l’ineludibile necessità di un controllo sulla persona condizionalmente liberata.
7.– Questa Corte ha già avuto occasione di rilevare alcune caratteristiche specifiche della misura in esame, ritenuta fattispecie «tutta particolare» (sentenza n. 11 del 1970), e di sottolineare, pertanto, la «impossibilità di assimilare la comune figura della libertà vigilata a quella particolare conseguente alla liberazione condizionale» (ancora, sentenza n. 11 del 1970, nonché sentenza n. 78 del 1977).
Non ha poi mancato di chiarire le finalità cui l’istituto risponde: dal soggetto liberato condizionalmente «lo Stato attende la conferma della prognosi di già avvenuto ravvedimento», poiché il liberato condizionalmente è, «come dire, in prova», «attend[endosi] da lui conferme del ravvedimento […] che soltanto in situazione di libertà possono essere compiutamente ed indiscutibilmente offerte». Così, ha aggiunto che la libertà vigilata disposta ai sensi dell’art. 230 cod. pen. è «segno evidente» dell’interesse statale «a stimolare l’esito positivo della prova» (sentenza n. 183 del 1986; nello stesso senso, sentenza n. 282 del 1989). Peraltro, tra le finalità cui risponde l’istituto, ha anche sottolineato che l’ordinamento è chiamato a «garantire i terzi, la collettività tutta, dai pericoli derivanti dall’anticipata liberazione del condannato» (ancora, sentenza n. 183 del 1986).
A tali conclusioni, che in questa sede vanno ribadite, deve aggiungersi che la libertà vigilata scaturente dall’ammissione alla liberazione condizionale è solo nominalmente ascrivibile al genus delle misure di sicurezza, rispondendo ad una ben diversa logica e soddisfacendo ben diverse necessità.
Vi è certo una qualche incompatibilità tra l’accertamento del “sicuro ravvedimento” del condannato – condizione per essere ammessi alla liberazione condizionale – e l’eventuale riscontro della sua pericolosità sociale: l’uno esclude infatti l’altro, giacché «il ravvedimento è appunto il presupposto su cui si basa la valutazione che il condannato non è più socialmente pericoloso» (sentenza n. 273 del 2001).
D’altra parte, la valutazione sul ravvedimento implica un «esame particolarmente attento e approfondito» circa la sussistenza di comportamenti «obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale di rieducazione e di recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare in termini di certezza, o di elevata e qualificata probabilità, confinante con la certezza, un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita all’osservanza della legge penale in precedenza violata» (ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, 23 marzo-19 maggio 2021, n. 19818).
L’applicazione della libertà vigilata al soggetto non dipende dunque da una valutazione in concreto del rischio che egli nuovamente commetta reati, ma si lega inscindibilmente, derivandone quale conseguenza, alla condizione di liberato condizionalmente.
Si tratta di un legame che assume rilievo in una duplice prospettiva. Anzitutto, esso definisce la peculiare ratio dell’istituto, mirato ad accompagnare la «prova in libertà del condannato» (sentenza n. 282 del 1989) e quindi a verificare la tenuta della prognosi effettuata sul suo “sicuro ravvedimento”. La giurisprudenza di legittimità già richiamata, infatti, pur affermando la necessità di un penetrante esame sulla sussistenza di tale requisito, mette allo stesso tempo in notevole evidenza come, ai fini della concessione della liberazione condizionale, l’esame sul “sicuro ravvedimento” si risolva comunque in un «giudizio prognostico», di conformazione della «futura condotta» al rispetto della legge penale (ancora Cass., sentenza n. 19818 del 2021). È, e non può non essere, insomma, un giudizio provvisorio, che attende, appunto, conferma in una situazione, più completa ed effettiva, di libertà. Come questa Corte ha avuto modo di sottolineare, d’altra parte, tale giudizio costituisce «premessa per l’accesso alla libertà condizionale e, quindi, per la estinzione della pena». Ciò, si è altresì precisato, proprio «in esito […] a un ulteriore periodo di vigilanza dell’autorità» (ordinanza n. 97 del 2021).
La connessione tra libertà vigilata e liberazione condizionale, inoltre, consente di disvelare meglio la natura della prima. Ben vero che la sentenza n. 282 del 1989 ritenne superfluo chiarire (ai fini però dello scioglimento dello specifico dubbio che allora veniva all’esame) se la libertà vigilata ai sensi dell’art. 230, primo comma, numero 2), cod. pen. sia «sanzione penale (autonoma)» o «misura di sicurezza»: ma proprio in quella pronuncia si era significativamente affermato che l’istituto è da considerarsi «attenuazione, in sede d’ammissione alla liberazione condizionale, dell’originaria pena detentiva», e che la liberazione condizionale «sostitui[sce] al rapporto esecutivo della pena carceraria il rapporto esecutivo della libertà vigilata di cui all’art. 230, n. 2, c.p.».
Non erra, allora, l’Avvocatura generale, laddove, proprio con riferimento a questa pronuncia, afferma che quello tra liberazione condizionale e libertà vigilata costituisce una sorta di inscindibile binomio, secondo una prospettiva contraria a quella assunta dal rimettente, che ragiona invece di una misura afflittiva «aggiuntiva» alla liberazione condizionale, disgiungendo così la libertà vigilata dalla stessa liberazione condizionale cui accede e, per l’effetto, dalla pena detentiva in sostituzione della quale è stata disposta: quasi si trattasse di una sanzione “ulteriore”, attraverso cui si infliggono limitazioni ad un soggetto altrimenti libero, o addirittura di una sanzione “nuova” e geneticamente distinta rispetto a quella detentiva originariamente inflitta allo stesso soggetto.
Liberazione condizionale e libertà vigilata, invece, costituiscono un tutt’uno e si delineano, unitamente considerate, come una misura alternativa alla detenzione.
Del resto, che tale sia la natura della liberazione condizionale è un dato ormai acquisito alla giurisprudenza costituzionale. Sebbene sin dal momento della sua approvazione essa abbia trovato collocazione nel codice penale, precisamente tra le cause di estinzione della pena, a seguito della approvazione della legge n. 354 del 1975, di questo «“vecchio” istituto […] risulta ormai evidente l’attrazione nella logica del trattamento del condannato e la sostanziale assimilazione alle misure alternative alla detenzione disciplinate dall’ordinamento penitenziario (cfr. da ultimo sentenze n. 138 del 2001, n. 418 del 1998, nonché n. 188 del 1990 e n. 282 del 1989)» (sentenza n. 273 del 2001).
Anche di recente questa Corte ha ragionato della liberazione condizionale in rapporto alle «altre misure alternative» (ordinanza n. 97 del 2021), confermando come si tratti di un istituto «funzionalmente analogo» alle modalità di esecuzione extramuraria della pena, anch’esso finalizzato a «consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena» (sentenza n. 32 del 2020).
Una conclusione, questa, ulteriormente avvalorata dalla circostanza che, come già detto, la liberazione sotto condizione comporta proprio la sostituzione della pena carceraria con prescrizioni di incidenza bensì afflittiva, ma di certo attenuata rispetto alla detenzione, quali quelle proprie della libertà vigilata, che si assume allora «accompagn[ino] necessariamente lo stato di libertà condizionale» (sentenza n. 282 del 1989).
8.– L’impostazione descritta è confermata dalla giurisprudenza di legittimità. Anzitutto, con la già citata sentenza n. 343 del 1991, sulla quale tutte le difese si sono soffermate, la Corte di cassazione ha affermato che quella in esame non sarebbe una «misura di sicurezza stricto sensu», perché «strutturalmente e funzionalmente» diversa. Strutturalmente, per la sua durata fissa; funzionalmente, proprio perché la libertà vigilata ordinata in sede di liberazione condizionale «prescinde totalmente dalla pericolosità sociale del condannato», ed anzi «in tanto è ordinata in quanto sia stato accertato che questi non è più socialmente pericoloso».
Essa, allora, è finalizzata a «consentire un controllo», volto a «verificare se il giudizio sul ravvedimento […] trovi rispondenza nella realtà dei fatti».
Sebbene la Corte di legittimità non sia tornata ad occuparsi ex professo del tema, con successivi arresti ha però non meno significativamente confermato il nesso tra liberazione condizionale e libertà vigilata. Ai fini che in questa sede maggiormente rilevano, essa ha così sottolineato che «[l’]assimilazione della liberazione condizionale […] ad una misura alternativa alla detenzione discende dalla necessaria applicazione della libertà vigilata ad essa conseguente, ai sensi dell'art. 230 c.p., comma 1, n. 2)», e che «la liberazione condizionale con la libertà vigilata da essa implicata costituisce esecuzione della pena con modalità alternative alla restrizione in carcere» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 luglio-9 ottobre 2012, n. 39854; analogamente, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 7-23 aprile 2009, n. 17343), ovvero si presenta come modalità di esecuzione della pena, «diversa e di minore afflittività rispetto alla restrizione carceraria», essendone riconosciuto il carattere distintivo, per regime di applicazione e finalità, rispetto alle altre misure di sicurezza previste dalla legge (Corte di cassazione, sezione prima penale, 29 novembre 2016-22 marzo 2017, n. 13934).
9.– Da tutto ciò deriva, in primo luogo, l’erroneità della pretesa di applicare alla libertà vigilata ordinata in conseguenza dell’ammissione alla liberazione condizionale lo statuto proprio delle misure di sicurezza, che comporterebbe l’attribuzione al giudice di una valutazione in concreto della sussistenza, in fase genetica, della pericolosità sociale del soggetto e, in costanza di esecuzione della misura, della permanenza di tale requisito.
In secondo luogo, il suo inscindibile legame con la liberazione condizionale e, di riflesso, con la pena principale in sostituzione della quale questa è stata disposta, comporta anche l’erroneità del predicare per questa forma di libertà vigilata il necessario rispetto del principio di mobilità della pena. Che sia indiziata di illegittimità costituzionale ogni sanzione fissa, «(qualunque ne sia la specie)» (sentenza n. 222 del 2018), resta ovviamente confermato: ma il principio è in questo caso erroneamente invocato. Infatti, l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio non è assente, ma è stata già assicurata in tutte le sedi necessarie: in quella di predeterminazione legale, ad opera del legislatore, in sede di condanna, dal giudice, che ha così potuto irrogare una pena di entità proporzionata al fatto da questi commesso.
Non è un caso, d’altra parte, che, ai sensi dell’art. 177 cod. pen., la liberazione condizionale dischiuda l’accesso alla definitiva estinzione della pena una volta che sia decorso tutto il suo tempo, mentre per il condannato all’ergastolo si è ovviamente individuato un arco temporale ad hoc, ridotto rispetto all’orizzonte della pena perpetua. Nel disegno legislativo, dunque, la libertà vigilata si protrae per un periodo fisso proprio perché il soggetto ammesso alla liberazione condizionale sta espiando, in forma diversa, la pena originariamente inflittagli, questa sì doverosamente commisurata alle specificità della situazione concreta.
10.– Quanto sin qui affermato non esclude affatto che il legislatore sia tenuto, nel costruire la complessiva disciplina di una misura alternativa alla detenzione, e dunque anche della liberazione condizionale cui consegue la libertà vigilata, a rispettare il disposto di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
La giurisprudenza costituzionale è ferma nel ricondurre la liberazione sotto condizione all’«obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato» (ordinanza n. 97 del 2021; analogamente sentenze n. 32 del 2020, n. 418 del 1998 e, già, n. 204 del 1974), e a pretendere, allora, che la relativa disciplina risulti permeata da una finalità di rieducazione.
In questa prospettiva, è da ribadire come le prescrizioni e gli obblighi derivanti dalla sottoposizione a libertà vigilata del condannato ammesso a liberazione condizionale «trov[ino] razionale fondamento, ex art. 27, terzo comma, Cost., nel sostegno e controllo che essi possono e devono offrire alla prova in libertà del condannato» (sentenza n. 282 del 1989).
Del resto, l’applicazione della misura in esame, pur vincolata nell’an e nel quantum, non lo è affatto nel quomodo.
Il regime della libertà vigilata implica l’imposizione, da parte del giudice, di prescrizioni (idonee ad evitare l’occasione di nuovi reati) non codificate, che peraltro «possono essere […] successivamente modificate o limitate» (art. 228 cod. pen.). L’art. 190 norme att. cod. proc. pen. integra la disciplina, limitandosi a predeterminare il divieto di trasferire residenza o dimora in un comune diverso senza autorizzazione del magistrato e di mutare abitazione nell’ambito dello stesso comune senza avvisare le autorità di pubblica sicurezza; nonché il dovere di conservare e, se richiesto, esibire la carta precettiva riepilogativa delle prescrizioni impartite. Fatta eccezione per queste previsioni “minime”, il legislatore ha scelto dunque di non definire analiticamente quali obblighi il giudice debba imporre al libero vigilato (sentenza n. 126 del 1983); ferma la necessità di non rendere difficoltosa la «ricerca di un lavoro» (come conferma il tenore del quarto comma del già citato art. 228 cod. pen.) e di consentire di attenersi alla vigilanza con la «necessaria tranquillità» (art. 190, ultimo comma, norme att. cod. proc. pen.), e fermo il divieto di «applicare prescrizioni che snaturino le caratteristiche di una misura di sicurezza non detentiva» (da ultimo, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 novembre-12 dicembre 2019, n. 50383).
Il suo «contenuto non tipizzato» (sentenza n. 253 del 2003) permette al magistrato di sorveglianza di individualizzare la portata e l’inevitabile afflittività della libertà vigilata, anche quando applicata al condannato ammesso alla liberazione condizionale, e così di adattare la misura alle esigenze del singolo caso.
Su tale aspetto aveva particolarmente insistito questa Corte in occasione del precedente costituito dalla sentenza n. 78 del 1977, affermando che la possibilità di riduzione delle prescrizioni inizialmente impartite (specificata dall’art. 195 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 787, recante «Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena», ma comunque già fondata sul disposto dell’art. 228 cod. pen.) conferma che il regime della libertà vigilata «è precisamente diretto, oltre che al controllo del comportamento del vigilato, anche al fine della graduale rieducazione e del [suo] cauto reinserimento sociale».
Il magistrato di sorveglianza, in definitiva, è nella condizione (e anzi ha il dovere) di definire il complesso delle limitazioni cui sottoporre il vigilato, in coerenza con la specifica situazione personale ed ambientale in cui questo versi, ed eventualmente di rimodularle nel corso del tempo, laddove risultino elementi tali da far ritenere che il controllo nei suoi confronti debba affievolirsi.
Che la disciplina in esame sappia esibire elasticità e capacità di adattamento al mutare delle circostanze è peraltro ulteriormente avvalorato dal fatto che non ogni trasgressione agli obblighi derivanti dal regime di libertà vigilata comporta la revoca della liberazione condizionale ai sensi dell’art. 177, primo comma, cod. pen. (sentenza n. 418 del 1998).
Ancora, a venire in rilievo è una specifica caratteristica del regime di libertà vigilata applicato al soggetto ammesso alla liberazione condizionale, in ragione della quale essa è definita “assistita”. L’art. 55 ordin. penit. – elemento anch’esso valorizzato dalla sentenza n. 78 del 1977 – stabilisce infatti che nei confronti del vigilato «il servizio sociale svolge interventi di sostegno e di assistenza» al fine del suo reinserimento sociale. Si tratta di una disposizione che evidenzia come l’istituto in esame non solo non contraddica obiettivi di risocializzazione, ma sia anzi spiccatamente orientato a concretizzarli, mediante l’attivazione di uno strumento di accompagnamento del reo nel suo percorso di restituzione alla vita sociale.
L’ordinanza di rimessione, è da sottolineare, omette di confrontarsi con questi argomenti, perché, a suo dire, la «assai risalente» sentenza n. 78 del 1977 non richiederebbe di essere considerata, una volta assodata la natura di sanzione penale della misura qui in esame.
Ribadisce tuttavia questa Corte che quel precedente mantiene inalterata la sua validità, nella parte in cui specifica che il regime della libertà vigilata conseguente a liberazione condizionale non è affatto di ostacolo alla risocializzazione della persona, ovvero, come questa Corte aveva affermato ancora in precedenza, all’effettivo reinserimento del condannato nel consorzio civile (sentenza n. 264 del 1974, in riferimento ad un condannato alla pena perpetua). Se, d’altra parte, in progresso di tempo, risulta ormai acquisito che l’art. 27, terzo comma, Cost. non si applica alle sole pene in senso stretto e che, anzi, il principio da esso espresso si irradia su ogni aspetto e momento del percorso trattamentale, proprio le ragioni qui particolarmente sottolineate indicano che il regime in questione può e deve essere rivolto nella direzione della finalità espressa dalla disposizione costituzionale ora in questione.
È vero, come sottolinea il rimettente, che con l’introduzione del sistema dei benefici penitenziari si può ora valutare progressivamente, ben prima dell’accesso alla liberazione condizionale, il grado di adesione del condannato al percorso rieducativo propostogli. L’argomento, tuttavia, non dimostra affatto l’inutilità, o addirittura l’illegittimità costituzionale, dell’istituto qui in questione: è, infatti, altrettanto vero che la liberazione condizionale resta, tra le modalità alternative alla detenzione in carcere, quella che dischiude i maggiori spazi di libertà per il condannato, spazi che, da una parte, consentono il più completo reinserimento nel consorzio civile e giustificano, dall’altra, anche in ragione della possibile estinzione della pena, gli opportuni controlli.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 177, secondo comma, e 230, primo comma, numero 2), del codice penale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Igor DI BERNARDINI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2023.
Il Cancelliere
F.to: Igor DI BERNARDINI