Corte Costituzionale, Sentenza n.67 del 11/04/2023

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SENTENZA N. 67

ANNO 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Silvana SCIARRA; Giudici : Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 418, primo comma, e 420, nono comma, del codice di procedura civile promosso dal Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra O. M. e Progetto Now Società Cooperativa Sociale, con ordinanza del 25 marzo 2022, iscritta al n. 87 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’8 marzo 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

deliberato nella camera di consiglio del 9 marzo 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 28 marzo 2022, il Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 418, primo comma, e 420, nono comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevedono che, qualora il convenuto intenda chiamare in causa un terzo, egli debba richiedere al giudice, a pena di decadenza – nella memoria difensiva tempestivamente depositata ex art. 416 cod. proc. civ. – che, previa modifica del decreto emesso ai sensi dell’art. 415, secondo comma, cod. proc. civ., pronunci, entro cinque giorni, un nuovo decreto per la fissazione dell’udienza.

Il giudice rimettente riferisce che, nell’ambito di un giudizio promosso da un lavoratore per il risarcimento del danno biologico cosiddetto differenziale subito a causa di una malattia professionale, il datore di lavoro chiedeva di chiamare in causa la propria compagnia assicurativa, senza instare, a tal fine, per il differimento dell’udienza di discussione. Riferisce inoltre che, all’udienza di discussione, si era riservato sull’autorizzazione alla chiamata in causa del terzo garante ex art. 420, nono comma, cod. proc. civ., dopo aver fatto interloquire le parti sulla questione di legittimità costituzionale della relativa disciplina normativa.

In punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea, in particolare, che, qualora le questioni prospettate fossero accolte, dovrebbe disattendere l’istanza di chiamata in giudizio del terzo, poiché il convenuto, pur essendosi tempestivamente costituito entro il termine di dieci giorni antecedente l’udienza di discussione, non ha richiesto il differimento di tale udienza a fronte della predetta istanza.

In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale di Padova ricorda che, ai sensi dell’art. 418, primo comma, cod. proc. civ., se il convenuto propone domanda riconvenzionale, deve, a pena di inammissibilità della stessa, secondo quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in ragione delle esigenze di celerità che connotano il processo del lavoro, chiedere il differimento dell’udienza di discussione. Rammenta, altresì, che nel rito speciale delle controversie in materia di lavoro l’unico riferimento all’istituto della chiamata in causa del terzo è effettuato dall’art. 420, nono comma, cod. proc. civ., laddove stabilisce che, a fronte della relativa istanza, il giudice fissa con decreto una successiva udienza (disponendo che siano notificati al terzo il provvedimento, il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui ai commi terzo, quinto e sesto dell’art. 415 cod. proc. civ.). La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, costantemente ritenuto – come viene ulteriormente evidenziato nell’ordinanza di rimessione – che la relativa richiesta dovesse essere formulata dal convenuto, a pena di decadenza, nella memoria ex art. 416 cod. proc. civ., in virtù delle peculiari esigenze di celerità che caratterizzano il processo del lavoro. Del resto, ricorda ancora il giudice a quo, anche nel processo ordinario di cognizione, il convenuto è tenuto, sin dalla comparsa di risposta tempestivamente depositata, a chiedere a pena di decadenza lo spostamento della prima udienza per poter effettuare la chiamata in causa del terzo.

Alla luce di tali premesse, il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina ritraibile dal combinato disposto degli artt. 418, primo comma, e 420, nono comma, cod. proc. civ., in quanto la stessa, per un verso, potrebbe determinare una violazione dell’art. 3 Cost., nella misura in cui non prevede, così determinando un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla domanda riconvenzionale, che, anche laddove intenda chiamare in causa un terzo, il convenuto debba, a pena di decadenza, chiedere al giudice, ex art. 416 cod. proc. civ., la pronuncia di un nuovo decreto per la fissazione dell’udienza e, per un altro, è suscettibile di violare il principio della durata ragionevole del processo sancito dall’art. 111 Cost., nella misura in cui stabilisce che il differimento dell’udienza debba essere disposto dal giudice solo all’udienza di discussione, incidendo di conseguenza in modo negativo sulla durata del processo.

Esclude, infine, il Tribunale di Padova la percorribilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata del nono comma dell’art. 420 cod. proc. civ., in quanto la formulazione letterale di tale disposizione non consente di provvedere sulla richiesta di chiamata del terzo in causa prima dell’udienza di discussione.

2.– In data 19 settembre 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo in via preliminare l’inammissibilità delle questioni.

In particolare, sotto un primo profilo, la difesa dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle questioni sollevate con riguardo all’art. 418, primo comma, cod. proc. civ., poiché si tratta di una norma, di carattere eccezionale, che riguarda la sola disciplina della domanda riconvenzionale nel processo del lavoro, e non è estensibile alla chiamata in causa del terzo, come affermato nella stessa giurisprudenza di legittimità (viene citata Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 21 agosto 2003, n. 12300).

Rileva, inoltre, l’Avvocatura l’inammissibilità, per eccessiva manipolatività in una materia caratterizzata dall’ampia discrezionalità del legislatore, anche della questione che riguarda l’art. 420, nono comma, cod. proc. civ. poiché l’accoglimento della stessa condurrebbe all’introduzione di una decadenza a carico del convenuto, a fronte di un diverso bilanciamento delle differenti esigenze della concentrazione processuale e del contraddittorio da parte del legislatore, che ha ritenuto che il rapporto processuale tra ricorrente e resistente è diverso da quello tra resistente e terzo.

La difesa dello Stato deduce, in ogni caso, la manifesta infondatezza delle questioni sollevate dal rimettente con riferimento ad entrambi i parametri invocati.

Con riguardo all’assunta violazione dell’art. 3 Cost., il Presidente del Consiglio dei ministri rammenta che la stessa Corte di cassazione ha affermato che la disciplina dettata per la domanda riconvenzionale dall’art. 418, primo comma, cod. proc. civ. riveste carattere eccezionale e non può essere estesa alla chiamata in causa del terzo, poiché, imponendo un onere specifico a carico del resistente, «finisce col rendere più gravoso l’esercizio del diritto di azione e, prevedendo una decadenza, finisce altresì per ampliare l’ambito dell’ipotesi di “absolutio ab i[n]stantia” a scapito della decisione sul diritto controverso, che è pur sempre la finalità principale di qualunque processo». Peraltro, la non omogeneità tra domanda riconvenzionale e chiamata in causa del terzo consente di ritenere non arbitraria questa diversa disciplina in una materia, come quella processuale, caratterizzata dall’ampia discrezionalità del legislatore.

Quanto al dedotto contrasto delle norme censurate con il principio di ragionevole durata del processo garantito dall’art. 111 Cost., l’Avvocatura sottolinea che lo stesso, come è stato più volte affermato nella giurisprudenza costituzionale, non deve essere considerato in maniera isolata, bensì al lume di un adeguato equilibrio anche con altri valori del giusto processo, tra i quali il diritto di difesa.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza depositata il 28 marzo 2022, il Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 418, primo comma, e 420, nono comma, cod. proc. civ., in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevedono che, qualora il convenuto intenda chiamare in causa un terzo, debba richiedere al giudice, a pena di inammissibilità, che, previa modifica del decreto emesso ai sensi dell’art. 415, secondo comma, cod. proc. civ., pronunci, entro cinque giorni, un nuovo decreto per la fissazione dell’udienza.

In punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea, in particolare, che, qualora le questioni prospettate fossero accolte, dovrebbe disattendere l’istanza di chiamata in giudizio del terzo, poiché il convenuto, pur essendosi tempestivamente costituito entro il termine di dieci giorni antecedente l’udienza di discussione, non ha richiesto il differimento di tale udienza a fronte della predetta istanza.

In particolare, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina ritraibile dal combinato disposto degli artt. 418, primo comma, e 420, nono comma, cod. proc. civ., in quanto la stessa, per un verso, potrebbe determinare una violazione dell’art. 3 Cost., nella misura in cui non prevede, così determinando un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla domanda riconvenzionale, che, anche laddove intenda chiamare in causa un terzo, il convenuto debba, a pena di decadenza, chiedere al giudice, ex art. 416 cod. proc. civ., la pronuncia di un nuovo decreto per la fissazione dell’udienza e, per un altro, è suscettibile di violare il principio della durata ragionevole del processo sancito dall’art. 111 Cost., nella misura in cui stabilisce che il differimento dell’udienza debba essere disposto dal giudice solo all’udienza di discussione, incidendo di conseguenza in modo negativo sulla durata del processo.

2.– Occorre esaminare, innanzi tutto, l’eccezione preliminare dell’Avvocatura di inammissibilità delle questioni sollevate.

Si assume il difetto di rilevanza di queste ultime stante l’inoperatività dell’art. 418 cod. proc. civ. per la chiamata in causa di terzo su istanza del convenuto; norma questa di carattere eccezionale, prevista soltanto per la proposizione di domanda riconvenzionale da parte del convenuto stesso.

Inoltre, si sottolinea – stante anche l’ampia discrezionalità del legislatore nella materia processuale – l’eccessiva manipolatività del petitum dell’ordinanza di rimessione. Essa mira a inserire nella citata disposizione un onere processuale, a pena di decadenza, a carico del convenuto, il quale intenda chiamare in causa un terzo; onere prescritto solo per l’ipotesi della domanda riconvenzionale.

3.– L’eccezione non può essere accolta, dovendo ritenersi la rilevanza – e quindi l’ammissibilità – delle questioni.

All’udienza di discussione ex art. 420 cod. proc. civ., in via preliminare, il giudice può (e deve) vagliare la domanda del convenuto di chiamata in causa del terzo, sicché questa è la prima occasione nella quale le questioni in esame possono essere sollevate.

In questa sede il giudice è chiamato a fare applicazione del nono comma dell’art. 420 cod. proc. civ. e quindi dovrebbe egli procedere a fissare una nuova udienza (con rinvio della trattazione della causa), disponendo la notifica al terzo del provvedimento, del ricorso introduttivo e dell’atto di costituzione del convenuto; ciò dopo aver verificato che la chiamata del terzo sia contenuta – come richiesto dalla giurisprudenza (vedi infra al punto 4.2.) – nella memoria di costituzione del convenuto, nel rispetto (al pari che per la domanda riconvenzionale) del termine previsto a pena di decadenza dall’art. 416 cod. proc. civ., ma non anche dell’onere di richiesta di fissazione di nuova udienza, prescritto dall’art. 418 cod. proc. civ. solo per l’ipotesi della domanda riconvenzionale. Il giudice, però, non adotta questo provvedimento proprio perché nutre dubbi, non manifestamente infondati, in riferimento agli indicati parametri e riserva la decisione sul punto all’esito del giudizio incidentale di costituzionalità.

Tanto basta per radicare la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni censurate, segnatamente dell’art. 420, nono comma, cod. proc. civ. per ciò che prevede (ossia la fissazione di una nuova udienza di discussione con rinvio della trattazione della causa) e dell’art. 418 cod. proc. civ. per ciò che non prevede, ma che – secondo il giudice rimettente – dovrebbe prevedere (ossia la domanda del convenuto, a pena di decadenza, di fissazione di una nuova udienza con differimento di quella già fissata, prima che essa abbia corso).

Né la rilevanza viene meno per la circostanza che il giudice accomuna, nelle sue censure, gli artt. 420, nono comma, e 418 cod. proc. civ., il quale ultimo concerne un’attività processuale del convenuto ormai già posta in essere con l’istanza di chiamata del terzo, contenuta nella memoria di costituzione. L’estensione delle censure anche all’art. 418 cod. proc. civ. si giustifica nell’ottica della formulazione, da parte del giudice rimettente, di un petitum additivo, che mira a colmare la ritenuta carenza di questa disposizione, nella misura in cui essa non prevede per il convenuto un onere processuale analogo a quello prescritto per l’esercizio dell’azione riconvenzionale; ossia l’onere di richiedere, a pena di decadenza, la fissazione di una nuova udienza.

Secondo il giudice rimettente, il vulnus agli indicati parametri potrebbe essere emendato proprio con l’introduzione, nell’art. 418 cod. proc. civ., dell’onere, per il convenuto che intenda chiamare in giudizio un terzo, di domandare, a pena di decadenza, anche la fissazione di una nuova udienza di discussione, per evitare quella che altrimenti rischia di essere, quanto alla trattazione della causa, un’udienza di mero rinvio.

Di certo questa prospettiva appare, fin d’ora, non utile nel giudizio principale nel senso che una siffatta ipotizzata pronuncia di illegittimità costituzionale, in termini additivi, non potrebbe, nella specie, comportare per la parte convenuta la decadenza, con efficacia retroattiva, dall’atto processuale della chiamata del terzo perché non prevista al momento in cui l’atto è stato compiuto (analogamente sentenza n. 18 del 2023 di questa Corte). Ma ciò atterrebbe alla concreta incidenza, “in uscita”, della invocata pronuncia di illegittimità costituzionale nello specifico giudizio a quo; incidenza che non inficia la rilevanza delle questioni ove sussistente al momento in cui esse sono sollevate, ossia “in entrata” (sentenza n. 10 del 2015; in precedenza anche sentenza n. 359 del 1995).

4.– All’esame delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova è opportuno premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento nel quale si collocano le disposizioni censurate.

4.1.– L’istituto della chiamata in causa su istanza di parte è regolato, nei suoi presupposti, nel Libro I del codice di procedura civile, con disposizioni dunque operanti in ogni processo di natura civile destinato a concludersi con una pronuncia suscettibile di passare in giudicato.

In particolare, ai sensi dell’art. 106 cod. proc. civ. – espressamente richiamato, per il processo del lavoro, dall’art. 420, nono comma, cod. proc. civ. – «[c]iascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende di essere garantita».

Si distinguono, pertanto, due fattispecie di intervento su richiesta di parte, ossia quella per comunanza di causa e quella di garanzia.

La nozione di «comunanza di causa» è molto ampia, poiché ricomprende al proprio interno le più diverse ipotesi nelle quali, per motivi di connessione, è opportuna la presenza di un terzo nel processo. Particolarmente frequente è la chiamata in causa del cosiddetto vero obbligato o responsabile, ovvero del soggetto che il convenuto assuma essere l’effettivo legittimato passivo rispetto all’avversa pretesa. In questa situazione, infatti, l’attore ha uno specifico interesse a chiamare in causa il terzo per evitare, qualora venga rigettata la domanda nei confronti dell’originario convenuto in accoglimento dell’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva, di dover incardinare un altro processo nei confronti del soggetto indicato quale vero obbligato dal convenuto, rischiando, così, di ottenere un nuovo rigetto della propria domanda sull’assunto della responsabilità del primo convenuto.

Diversamente, una volta chiamato in causa, il soggetto indicato dal convenuto quale vero obbligato diventerà parte a tutti gli effetti, sicché la sentenza farà stato anche nei suoi confronti e potrà essere idonea ad accertare definitivamente chi è il vero obbligato.

Lo stesso convenuto, nell’indicare il terzo come effettivo obbligato o responsabile, ha interesse a richiedere direttamente la sua chiamata in causa al fine di supportare adeguatamente la propria eccezione di difetto di legittimazione passiva.

La chiamata cosiddetta in garanzia ha, invece, la finalità di tutelare il diritto di una delle parti a essere tenuta indenne da un altro soggetto (di solito una compagnia assicurativa) nel caso in cui risulti soccombente al termine del processo.

4.2.– L’unica norma che nel rito speciale del lavoro fa espresso riferimento alla chiamata in causa su istanza di parte è l’art. 420, nono comma, cod. proc. civ., laddove stabilisce che, anche nell’ipotesi di cui all’art. 106 cod. proc. civ., il giudice fissa una nuova udienza e dispone che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui ai commi terzo, quinto e sesto dell’art. 415 cod. proc. civ.

Il primo problema interpretativo con il quale hanno dovuto confrontarsi dottrina e giurisprudenza è stato, pertanto, quello del termine entro il quale avrebbe dovuto essere proposta a pena di decadenza l’istanza di chiamata in causa del terzo da parte del convenuto. Si è, in particolare, posto l’interrogativo di come intendere il silenzio serbato sulla questione dall’art. 416 cod. proc. civ. che pure consente al convenuto nel processo del lavoro di proporre domande riconvenzionali ed eccezioni in senso stretto solo se si sia tempestivamente costituito con memoria depositata almeno dieci giorni prima dell’udienza.

Le peculiari esigenze di celerità del processo del lavoro hanno indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio, ormai consolidato, e che può dunque considerarsi espressione del diritto vivente, per il quale la predetta richiesta deve essere effettuata a pena di decadenza con la memoria di cui all’art. 416 cod. proc. civ. tempestivamente depositata entro dieci giorni prima dell’udienza di discussione (ex multis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 6 giugno 2008, n. 15080).

Di contro, come sottolinea l’ordinanza di rimessione, la giurisprudenza non ha esteso, alla chiamata in causa del terzo ad istanza del convenuto nel processo del lavoro, l’ulteriore prescrizione, dettata dall’art. 418 cod. proc. civ. per la domanda riconvenzionale, di richiedere a pena di inammissibilità, a tal fine, il differimento della prima udienza.

Come questa Corte ha da lungo tempo sottolineato, tale previsione è simmetrica all’art. 415 cod. proc. civ., collocando l’attore originario nell’esatta posizione nella quale si trova il convenuto ai sensi dell’art. 416 cod. proc. civ. (sentenza n. 13 del 1977).

È opportuno considerare, a questo riguardo, che nel processo del lavoro la proposizione della domanda riconvenzionale deve essere “accompagnata”, secondo quanto previsto dall’art. 418 cod. proc. civ., da una richiesta di differimento della prima udienza. Il differimento è invero un adempimento funzionale a consentire al ricorrente di compiere, prima dell’udienza di discussione, le attività difensive correlate alla nuova domanda connessa a quella principale, compresa l’eventuale proposizione di un’ulteriore domanda, la cosiddetta reconventio reconventionis, la cui formulazione deve seguire le medesime formalità.

In definitiva, nel rito del lavoro l’attore convenuto in via riconvenzionale ha gli stessi poteri e oneri che l’art. 416 cod. proc. civ. prevede per il convenuto in via principale, con la differenza che il termine di riferimento per l’attore convenuto in via riconvenzionale non è l’udienza già fissata ex art. 415 cod. proc. civ., ma quella che deve essere fissata in base al meccanismo previsto dall’art. 418 cod. proc. civ. e, quindi, lo stesso ha l’onere di costituirsi con memoria difensiva da depositare almeno dieci giorni prima della nuova udienza fissata e il contenuto di tale atto è identico a quello stabilito dall’art. 416 cod. proc. civ. (ancora, sentenza n. 13 del 1977).

L’onere di chiedere al giudice la pronuncia di un nuovo decreto di fissazione dell’udienza, posto dall’art. 418 cod. proc. civ., a pena di decadenza, a carico del convenuto che propone domanda riconvenzionale nel processo del lavoro, non è stato ritenuto estensibile in via ermeneutica dalla giurisprudenza di legittimità anche all’ipotesi in cui il medesimo convenuto chieda di essere ammesso a chiamare in causa un terzo. In proposito, si è sottolineato che questa prescrizione contenuta nell’art. 418 cod. proc. civ. non risponde in maniera specifica ed indefettibile a un’esigenza di carattere generale e deve ritenersi che, ponendo un onere sanzionato con la decadenza dall’esercizio di un potere processuale, costituisca una previsione di carattere eccezionale, non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica (Cass., n. 12300 del 2003).

4.3.– Pertanto, nel processo del lavoro, richiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo nella memoria tempestivamente depositata, è solo all’udienza di discussione che il giudice provvede sulla relativa istanza, rinviando, se autorizza la chiamata, ad una successiva udienza per consentire che la stessa venga effettuata nel rispetto del termine a difesa del terzo.

In effetti, con riguardo al processo del lavoro non si è mai dubitato del potere discrezionale del giudice di verificare, ai fini dell’ammissione della chiamata del terzo, la sussistenza dei relativi presupposti (ex aliis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 9 febbraio 2016, n. 2522; 4 dicembre 2014, n. 25676 e 26 giugno 1999, n. 6657).

L’esigenza di questo vaglio autorizzativo del giudice del lavoro sull’istanza di chiamata in causa del terzo da parte del convenuto – che, per lungo tempo, non è stato invece ritenuto necessario nel processo ordinario di cognizione – era correlata, tra l’altro, almeno in origine, anche alle non trascurabili problematiche processuali che avrebbero potuto determinarsi per effetto della chiamata.

Per un verso, veniva in rilievo l’impossibilità di attuare il cumulo delle cause assoggettate a riti diversi; ciò che comportava la necessità che la “causa comune” e quella di garanzia fossero entrambe cause di lavoro perché il giudice del lavoro potesse decidere anche su di esse nell’ambito di un unico processo.

Questa possibilità è ormai da tempo riconosciuta dal terzo comma dell’art. 40 cod. proc. civ., come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile), che stabilisce espressamente la possibilità del cumulo, e dunque della trattazione congiunta, con applicazione del rito del lavoro, ogni volta che, nei casi previsti dagli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ., più cause, di cui una di lavoro, siano «cumulativamente proposte, o successivamente riunite».

4.4.– Per altro verso, la giurisprudenza riteneva che l’art. 32 cod. proc. civ. (sulla competenza per attrazione del giudice della causa principale su quella di garanzia) non trovasse applicazione nell’ipotesi di garanzia impropria (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 16 aprile 2014, n. 8898; sezione terza civile, ordinanza 24 gennaio 2007, n. 1515). Di qui era stato anche precisato che, sebbene la chiamata in causa ai sensi dell’art. 106 cod. proc. civ., consentita, ai sensi dell’art. 420, comma nono, cod. proc. civ., anche in una controversia di lavoro, potesse riguardare sia l’ipotesi di garanzia propria sia quella di garanzia impropria, nondimeno, in tale seconda ipotesi, il simultaneus processus innanzi al giudice del lavoro sarebbe stato attuabile solo ove il giudice competente per la causa principale fosse stato competente a conoscere anche dell’altra, in quanto lo spostamento di competenza era ammesso solo per la garanzia propria, non ritenendosi derogabili, nell’ipotesi di garanzia impropria, i normali criteri di competenza per valore e territorio (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 20 dicembre 1997, n. 12917, e 30 gennaio 1992, n. 979).

Anche quest’ultima questione è ormai superata, in quanto, operando un revirement della giurisprudenza precedente, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno escluso che la distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria possa assumere una valenza ulteriore rispetto a quella meramente descrittiva, essendo sufficiente una connessione fattuale tra domanda principale e domanda verso il terzo per giustificare la chiamata del terzo, sicché – tra l’altro – è possibile una deroga alla competenza ex art. 32 cod. proc. civ. anche nel caso di garanzia impropria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 dicembre 2015, n. 24707).

4.5.– Con riguardo alla necessità di un’autorizzazione del giudice alla chiamata in causa del terzo su istanza del convenuto si registrava, in passato, una significativa differenza rispetto alla disciplina della chiamata in causa del terzo su istanza del convenuto nel processo ordinario di cognizione.

Occorre, a riguardo, considerare che ai sensi dell’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., novellato a partire dalla citata riforma del 1990, il convenuto è tenuto a dichiarare la propria intenzione di chiamare in causa il terzo nella comparsa di risposta tempestivamente depositata e a chiedere contestualmente al giudice di differire lo svolgimento di tale udienza affinché il terzo possa essere citato in giudizio nel rispetto dei termini a comparire.

Secondo l’impostazione tradizionale, il giudice non aveva alcun potere discrezionale in ordine alla decisione sull’istanza di chiamata in causa del terzo, sicché, a fronte della stessa, doveva semplicemente disporre il differimento dell’udienza.

Questa Corte, investita, con riferimento all’art. 3 Cost., della questione di legittimità costituzionale dell’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede, a differenza di quanto stabilito per l’attore, la necessità dell’autorizzazione per la chiamata in causa ad istanza del convenuto, l’ha dichiarata non fondata, ponendo in evidenza che l’insindacabile facoltà per il convenuto di estendere l’ambito soggettivo del processo può considerarsi giustificata dalla circostanza che l’attore, agendo per primo, ha la possibilità di convenire in giudizio qualunque soggetto, senza limitazioni di sorta, sicché le parti sarebbero in una condizione di perfetta parità (sentenza n. 80 del 1997).

Tuttavia, negli anni successivi, facendo leva sull’esigenza di interpretare le disposizioni processuali alla luce del principio della ragionevole durata dei giudizi, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost., le sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconsiderato tale impostazione, basata sulla formulazione letterale dell’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., per pervenire all’affermazione che, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, anche nel processo ordinario di cognizione il giudice ha il potere di negare la chiamata in causa dei terzi su richiesta del convenuto, rifiutando di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, motivando la propria scelta in ragione di esigenze di economia processuale e, appunto, di ragionevole durata del processo (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 febbraio 2010, n. 4309).

4.6.– La recente riforma del processo civile varata dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149 (Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata), nel rimodellare la fase introduttiva del giudizio ordinario di cognizione, con il nuovo art. 171-bis cod. proc. civ., ha previsto – per quel che rileva ai fini della considerazione dell’istituto in esame – che, scaduto il termine per la costituzione tempestiva della parte convenuta, il giudice, entro i successivi quindici giorni, verificata d’ufficio la regolarità del contraddittorio, autorizza, quando occorre, tra l’altro, la chiamata in causa del terzo e, in tal caso, trova applicazione anche il secondo comma del medesimo art. 171-bis cod. proc. civ., secondo il quale deve essere differita la prima udienza di comparizione con computo a ritroso rispetto alla nuova data della stessa dei termini per consentire il deposito delle tre memorie ante udienza contemplate dall’art. 171-ter cod. proc. civ.

5.– Ciò premesso, quanto al quadro di riferimento normativo e giurisprudenziale dell’istituto della chiamata di terzo ad istanza del convenuto, le questioni sollevate dal Tribunale di Padova non sono fondate con riferimento a entrambi i parametri evocati.

6.– Come si è già indicato, il giudice rimettente prospetta, in primo luogo, un’assunta disparità di trattamento tra gli istituti della domanda riconvenzionale e della chiamata in causa del terzo nel rito del lavoro, stante l’inapplicabilità, in quest’ultima ipotesi, dell’art. 418 cod. proc. civ., che sarebbe suscettibile di violare l’art. 3 Cost., trattandosi di situazioni asseritamente omogenee.

È vero che in termini generalissimi la chiamata in causa del terzo potrebbe considerarsi anch’essa una domanda riconvenzionale, ma a differenza di quest’ultima, strettamente intesa, la stessa non è proposta nei confronti di un soggetto che è già parte del giudizio bensì di un terzo.

Ciò impedisce di ritenere integrata un’ingiustificata disparità di trattamento ridondante in una violazione dell’art. 3 Cost., poiché, come questa Corte ha costantemente affermato, una violazione del principio di eguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2022, n. 165 del 2020, n. 155 del 2014, n. 108 del 2006, n. 340 e n. 136 del 2004).

Peraltro, venendo in rilievo istituti processuali, il legislatore ordinario gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli stessi (ex multis, sentenze n. 128 e n. 87 del 2021, n. 271 del 2019, n. 225 del 2018, n. 44 del 2016, n. 10 del 2013, n. 221 del 2008 e n. 335 del 2004).

6.1.– La questione, sempre con riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., non è fondata neppure se si considera quale tertium comparationis l’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ. che contempla, nel processo ordinario di cognizione, l’onere del convenuto di richiedere il differimento della prima udienza per chiamare in causa il terzo.

Invero, sebbene il giudice a quo abbia evocato nel dispositivo quale tertium il solo art. 418 cod. proc. civ., nella parte in cui disciplina la domanda riconvenzionale, nella motivazione dell’ordinanza di rimessione la questione è sviluppata con riferimento all’analoga disciplina dettata, sotto tale profilo, dall’art. 269, secondo comma, cod. proc. civ., con diretto riguardo alla chiamata in causa su istanza del convenuto, sicché può essere vagliata in quanto dalla lettura coordinata delle due parti dell’atto emerge la volontà del rimettente di considerare anche quest’ultima disposizione (ex multis, sentenze n. 35 del 2023, n. 228 e n. 88 del 2022, n. 58 del 2020; ordinanze n. 214 del 2021 e n. 244 del 2017).

Tuttavia, pure ricostruita in questo modo, la questione non può essere accolta in quanto è consentito al legislatore articolare diversamente le relative discipline avendo riguardo alle specifiche esigenze di ciascun modello processuale (ex aliis, sentenze n. 58 del 2020 e n. 1 del 2002; ordinanza n. 190 del 2013).

7.– Il giudice a quo dubita, inoltre, della legittimità costituzionale delle norme censurate per contrasto con il principio della ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost., avente peculiare rilievo nei giudizi in materia di lavoro, in quanto, a fronte di una tempestiva istanza di chiamata in causa di un terzo, l’udienza originariamente fissata sarebbe celebrata inutilmente, poiché destinata di regola solo all’autorizzazione della chiamata con differimento della trattazione della causa ad altra udienza.

Anche tale questione non è fondata.

7.1.– Su un piano generale, occorre ricordare che è costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l’affermazione che il principio, secondo cui la legge assicura la ragionevole durata del processo (art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, recante «Inserimento dei princìpi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione»), va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, sicché il suo sacrificio non è sindacabile ove sia frutto di scelte non prive di valida ratio giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 124 del 2019 e n. 159 del 2014; ordinanze n. 332 e n. 318 del 2008). Al principio della ragionevole durata del processo «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza (sentenza n. 148 del 2005)» (sentenza n. 23 del 2015; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 260 del 2020, n. 12 del 2016, n. 63 e n. 56 del 2009 e n. 26 del 2007).

Questo bilanciamento, quanto specificamente alla chiamata del terzo ad istanza del convenuto, ha avuto nel tempo un progressivo aggiustamento.

Dopo l’introduzione del processo del lavoro, il contesto normativo sopra richiamato per grandi linee, nel quale si colloca la disciplina della chiamata del terzo a istanza del convenuto, è significativamente mutato.

In origine, lo sfavore per il giudizio con pluralità di parti, che connotava il processo del lavoro, giustificava senza dubbio la collocazione nell’udienza di discussione dell’ammissione della chiamata del terzo ad istanza del convenuto. Mentre nel rito ordinario, secondo l’originaria formulazione dell’art. 269 cod. proc. civ., vi era un’ampia possibilità di chiamata del terzo perché fatta con citazione diretta, senza intermediazione del giudice, invece nel processo del lavoro il giudice era chiamato a valutarne preventivamente l’ammissibilità negli stretti limiti delle regole, all’epoca vigenti, della connessione di cause (art. 40 cod. proc. civ.) e della chiamata in garanzia (art. 32 cod. proc. civ.); ammissibilità questa che, potendo essere controvertibile quanto alla ricorrenza dei presupposti di legge, non poteva che esser valutata dal giudice nel contraddittorio delle parti per consentire, in particolare all’attore, di interloquire in ordine all’istanza del convenuto ed eventualmente dedurre la mancanza dei presupposti della chiamata del terzo. Di ciò in realtà la giurisprudenza non ha mai dubitato.

È poi sopravvenuta la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 419 cod. proc. civ. (sentenza n. 193 del 1983), nella parte in cui non prevedeva che, in caso di intervento volontario di un terzo (art. 105 cod. proc. civ.), il giudice dovesse fissare una nuova udienza di discussione, differendo quindi quella già fissata e disponendo la notifica alle parti originarie del provvedimento di fissazione e della memoria dell’interveniente. L’intervento del terzo nel processo del lavoro è quindi risultato differenziato – e lo è tuttora – secondo che sia volontario (art. 105 cod. proc. civ.) o a istanza di parte (art. 106 cod. proc. civ.): nel primo caso il differimento dell’udienza di discussione è disposto, anticipatamente e fuori udienza, dal giudice a seguito di istanza del terzo; nell’altro occorre attendere l’udienza di discussione perché il giudice possa provvedere a differire l’udienza stessa.

In seguito, vi è stata la profonda riforma del rito civile, contenuta nella già richiamata legge n. 353 del 1990, con l’introduzione di preclusioni e decadenze a somiglianza del processo del lavoro. È mutato in particolare il regime della chiamata del terzo da parte del convenuto (art. 269 cod. proc. civ. come novellato), che non è più stato possibile a citazione diretta, ma ha richiesto l’intermediazione del giudice: è il giudice istruttore che dispone lo “spostamento” della prima udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo, così ammettendone la chiamata.

7.2.– Quindi nel rito del lavoro, limitatamente all’intervento volontario del terzo, e nel rito ordinario, quanto all’intervento a istanza del convenuto, l’adozione di un provvedimento anticipato, ad opera del giudice, con lo spostamento della prima udienza, persegue, nella sostanza, una finalità acceleratoria del processo, perché mira ad evitare quella che, quanto alla trattazione della causa, sarebbe un’udienza di mero rinvio; finalità acceleratoria che oggi, a seguito della riforma di cui al d.lgs. n. 149 del 2022, risulta ancor più accentuata dalla previsione di una sede processuale ad hoc, fuori udienza, per le verifiche preliminari d’ufficio prima che abbia corso l’udienza di comparizione delle parti (art. 171-bis cod. proc. civ.).

Per altro verso il novellato regime della connessione delle cause, con la prevista attrazione al rito del lavoro di quelle connesse, altrimenti soggette al rito ordinario, e l’evoluzione della giurisprudenza sulla chiamata in garanzia, con l’equiparazione della garanzia impropria a quella propria, di cui si è già detto sopra, hanno reso meno stretta la possibilità del giudizio con pluralità di parti anche nel processo del lavoro, sicché la verifica della sussistenza dei presupposti di ammissibilità della chiamata di terzo si presenta ora più agevole.

Di qui l’utilità (o necessità), ritenuta dal giudice rimettente in questo contesto così evolutosi, di un analogo meccanismo processuale, anticipatorio dell’ammissibilità della chiamata del terzo ad istanza del convenuto con la richiesta di spostamento dell’udienza di discussione.

7.3.– Ma, pur in questo mutato contesto normativo e giurisprudenziale, rimane non di meno, nel rito del lavoro connotato da specialità, l’esigenza di garantire il contradditorio delle parti prima che il terzo possa essere chiamato dal convenuto; contraddittorio che sarebbe sacrificato se, prima dell’udienza di discussione, il giudice potesse ammettere la chiamata del terzo disponendo, intanto, la notifica del provvedimento di fissazione e della memoria del convenuto e quindi differendo l’udienza di discussione.

Nel rito del lavoro infatti, ispirato a principi di concentrazione e celerità, l’ammissibilità della chiamata del terzo ad istanza del convenuto richiede tuttora la verifica, da parte del giudice, della sua compatibilità con tali principi, riconducibili proprio al canone della ragionevole durata del processo; verifica che fin dall’inizio il legislatore ha collocato nell’udienza di discussione nel contraddittorio delle parti e che ancor oggi si giustifica in questa sede processuale in ragione della specialità del rito del lavoro secondo una scelta non irragionevole del legislatore stesso.

La finalità della disciplina è infatti quella di consentire al ricorrente, che di solito è il lavoratore, di interloquire ex ante rispetto all’autorizzazione alla chiamata in causa del terzo, che potrebbe rivelarsi solo dilatoria o comunque afferire a circostanze limitate ai rapporti tra convenuto e terzo, sulle quali l’istruttoria potrebbe ritardare il processo in danno della rapida definizione della controversia tra le parti originarie.

Il bilanciamento realizzato dal legislatore continua a essere non irragionevole avendo riguardo a questa fondamentale caratteristica, rimasta immutata negli anni, del processo del lavoro come giudizio storicamente connotato da una serie di disposizioni volte a consentire al ricorrente/lavoratore di ottenere una rapida tutela, stante la peculiare rilevanza, anche costituzionale, del complesso dei diritti che attengono al rapporto di lavoro. In sostanza, in tale giudizio la ragionevole durata deve essere riguardata non in una prospettiva generale e astratta, bensì in quella in concreto più idonea ad assicurare una celere tutela. Di qui la collocazione, nell’udienza di discussione, della decisione del giudice sulla chiamata in causa del terzo, proprio al fine di garantire all’attore/ricorrente il diritto al contraddittorio, in modo che quest’ultimo possa rappresentare al giudice in udienza, prima dell’autorizzazione della chiamata richiesta dal convenuto, le ragioni che ostano alla sua ammissibilità, anche deducendo, in ipotesi, che la stessa costituirebbe un modo per rallentare la definizione del giudizio tra le parti originarie del processo. Del resto, il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del giudizio possono entrare in bilanciamento nei limiti in cui sia comunque assicurato un processo «giusto», come richiede l’art. 111, primo comma, Cost. (sentenze n. 111 del 2022 e n. 317 del 2009).

8.– In definitiva, si ha che la scelta del legislatore, quanto al processo del lavoro, di rimettere all’udienza di discussione la decisione del giudice sull’autorizzazione, o no, della chiamata in causa del terzo, richiesta tempestivamente dal convenuto nella memoria ex art. 416 cod. proc. civ. – invece che anticiparla con provvedimento reso dal giudice a seguito della costituzione in causa del convenuto prima dell’udienza alla medesima stregua di quanto avviene nel processo ordinario di cognizione, nonché, per effetto della proposizione della domanda riconvenzionale, nello stesso rito del lavoro – resta non irragionevole in quanto fondata ancora su una valida ratio giustificativa, che non ha smarrito la sua portata, resistendo al mutato contesto normativo sopra esaminato, e che rappresenta essa stessa una peculiare declinazione del principio di ragionevole durata del processo, in coerenza con le finalità che connotano tale rito speciale.

9.– Le questioni vanno, pertanto, dichiarate non fondate in riferimento ad entrambi gli indicati parametri.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 418, primo comma, e 420, nono comma, del codice di procedura civile, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Padova, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 marzo 2023.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2023.

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI

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