La disciplina relativa all’impresa familiare va applicata anche al “convivente di fatto”.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 148 depositata il 25 luglio 2024, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, parte in cui non prevede come familiare - oltre al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo - anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».
Inoltre, in via consequenziale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter del codice civile, che, introdotto dalla legge n. 76 del 2016 (cosiddetta legge Cirinnà), riconosceva al convivente di fatto una tutela significativamente più ridotta.
Secondo la definizione prevista dall’art. 1, comma 36, della citata legge, per «conviventi di fatto» si intendono «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale».
Le questioni di legittimità costituzionale della disciplina dell’impresa familiare erano state sollevate dalla Sezioni Unite civili della Cassazione, in riferimento agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, nella parte in cui il convivente more uxorio non era incluso nel novero dei «familiari».
La Corte costituzionale ha accolto le questioni tenendo conto, in una società profondamente mutata, della convergente evoluzione della normativa e della giurisprudenza nazionale ed europea, che riconosce piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
La Consulta, riconoscendo la "convergente evoluzione della normativa nazionale e della giurisprudenza", ha precisato che le modifiche erano necessarie in una società che ha subìto profondi cambiamenti, accettando quindi le questioni sollevate.
Nonostante la famiglia tradizionale basata sul matrimonio mantenga alcune distinzioni legali, i diritti fondamentali, come il diritto al lavoro e a una giusta retribuzione, devono essere riconosciuti universalmente, compresa la situazione lavorativa all'interno dell'impresa familiare, dove anche i conviventi di fatto devono ricevere protezione legale contro il rischio di sfruttamento sotto forma di lavoro non retribuito.
La Corte ha infene sottolineato che la tutela del lavoro è essenziale per la dignità di ogni persona, sia individualmente sia come parte della comunità familiare, giudicando quindi irragionevole l’esclusione del convivente di fatto dall’impresa familiare.
L'art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».
L’art. 230-ter cod. civ. è costituzionalmente illegittimo in via consequenziale alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ, in quanto attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento allo stesso art. 230-bis cod. civ.
SENTENZA N. 148
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 230-bis, commi primo e terzo, e, «in via derivata», 230-ter del codice civile, promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, nel procedimento vertente tra I. U. e C. D. e altri, con ordinanza del 18 gennaio 2024, iscritta al n. 36 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 2 luglio 2024.
Udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2024 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
deliberato nella camera di consiglio del 4 luglio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del 2024) la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE) ed all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), dell’art. 230-bis (Impresa familiare), primo e terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e, «in via derivata», dell’art. 230-ter (Diritti del convivente) cod. civ., che «applica al convivente di fatto, che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente, una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare».
1.1.– Le questioni sono sollevate nel corso di un giudizio introdotto da I. U., nei confronti dei figli e coeredi di E. D., già coniugato con altra donna, di cui esponeva di essere stata stabile convivente dal 2000 sino al decesso avvenuto nel novembre 2012, dinanzi al Tribunale ordinario di Fermo, in funzione di giudice del lavoro, con domanda di accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, relativa ad una azienda agricola, e di condanna alla liquidazione della quota spettante quale partecipante all’impresa.
La ricorrente aveva dedotto che la convivenza, iniziata in altra località, era proseguita presso il fondo rustico acquistato dal defunto – acquisto al quale erano via via susseguite altre acquisizioni, la costruzione di una cantina per la produzione del vino nonché l’avviamento di un’attività di ricezione turistica – e di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo nell’azienda del convivente dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012.
1.2.– Il Tribunale di Fermo aveva rigettato la domanda rilevando che il convivente di fatto non poteva essere considerato «familiare» ai sensi dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ.
La Corte d’appello di Ancona, sezione lavoro, aveva confermato il rigetto sull’identico presupposto, escludendo, altresì, l’applicabilità dell’art. 230-ter cod. civ., in quanto il rapporto di convivenza era cessato prima dell’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che, con l’aggiunta del suddetto articolo, aveva in parte esteso ai conviventi la disciplina dell’impresa familiare.
1.3.– Con il ricorso per cassazione, la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3), del codice di procedura civile, per la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza more uxorio, oltre che delle aperture della giurisprudenza sia di legittimità e sia costituzionale, che avrebbero consentito di applicare la disciplina dell’impresa familiare anche in mancanza di una norma che lo preveda espressamente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 230-bis cod. civ.; ha dedotto, poi, la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. e dell’art. 11 delle preleggi, dovendosi ammettere una deroga al principio di irretroattività, non presidiato da una norma costituzionale, ove ciò risponda a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia.
1.4.– La Corte di cassazione, sezione lavoro, con ordinanza interlocutoria, ha chiesto l’intervento nomofilattico delle Sezioni unite al fine di chiarire se l’art. 230-bis, comma terzo, cod. civ. potesse essere evolutivamente interpretato – in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso – in chiave di esegesi orientata agli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost., nonché all’art. 8 CEDU, nel senso di prevedere l’applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da stabilità.
1.5.– Le Sezioni unite rimettenti osservano che la rilevanza delle questioni discendeva dal fatto che solo all’esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma dubitata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe determinata la necessità di quell’accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l’effettività e la continuità dell’apporto lavorativo nell’impresa familiare determinante ai fini dell’accrescimento della produttività dell’impresa.
1.6.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ripercorre la genesi dell’istituto dell’impresa familiare disciplinata dall’art. 230-bis cod. civ., quale superamento della comunione tacita familiare prevista per il settore agricolo dall’art. 2140 cod. civ. previgente, e la sua finalità di conferire una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono nell’ambito di aggregati familiari che non possono contare su più specifiche discipline di protezione sia in ambito lavorativo che societario. Ne richiama la natura autonoma, di carattere speciale ma non eccezionale, e residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 giugno 2020, n. 11533); la forma individuale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 18 gennaio 2005, n. 874 e 15 aprile 2004, n. 7223); l’incompatibilità con la disciplina societaria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 6 novembre 2014, n. 23676); il regime fiscale, con i redditi dei familiari collaboratori definiti di lavoro, e quindi non assimilabili a redditi di impresa (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 2 dicembre 2008, n. 28558 e ordinanza 20 dicembre 2019, n. 34222); i diritti che ne derivano, sia di tipo partecipativo sia di tipo economico-patrimoniale, ed i presupposti, quali: a) l’esistenza di una impresa individuale ; b) la prestazione lavorativa svolta nell’interesse dell’impresa medesima dal familiare, con carattere di continuità, ossia con costanza e regolarità, ma non necessariamente esclusiva; c) in alternativa, la prestazione di lavoro nella famiglia, ma senza che possa assumere rilevanza la mera attività domestica, essendo sempre necessario un collegamento causale e funzionale con l’attività di impresa.
1.7.– Il rimettente evidenzia poi che la dottrina si era a lungo interrogata sulla possibilità di applicare estensivamente l’art. 230-bis cod. civ. al convivente more uxorio, valorizzando che l’impresa familiare rappresenta una forma generale di tutela del lavoro prestato per quello spirito di solidarietà che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi, sicché anche il convivente stabile ha titolo per partecipare all’impresa familiare in quanto la sua collaborazione lavorativa gratuita nell’ambito di uno stabile rapporto affettivo di coppia trova la sua causa nella stessa solidarietà familiare. Rileva ancora il giudice a quo che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, dopo una iniziale chiusura (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 29 novembre 2004, n. 22405 e 2 maggio 1994, n. 4204), aveva manifestato una certa inversione di tendenza (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 15 marzo 2006, n. 5632); che la legge n. 76 del 2016, all’art. 1, comma 36, aveva previsto che «si intendono per “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile», con l’art. 1, comma 46, aveva introdotto l’art. 230-ter cod. civ., secondo il quale: «[a]l convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato», e con l’art. 1, comma 20, aveva reso applicabile l’art. 230-bis cod. civ. anche all’unione civile.
1.8.– Le Sezioni unite osservano quindi che, nell’attuale disciplina, mentre ognuna delle parti dell’unione civile rientra nell’elenco dei familiari di cui all’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., per il convivente stabile, ai sensi dell’art. 230-ter cod. civ., opera una tutela minore rispetto a quella del familiare; che per il principio d’irretroattività di cui all’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, come già avvenuto per l’art. 230-bis cod. civ., l’art. 230-ter cod. civ. non può trovare applicazione a situazioni giuridiche definitivamente compiute sotto il regime anteriore alla riforma del 2016, dovendosi poi escludere che la norma, poiché costitutiva di nuovi diritti, sia applicabile in quanto meramente ricognitiva di principi già acquisiti al panorama giuridico vigente; che, sebbene la disposizione introdotta nel 2016 sia significativa di una estensione delle tutele in favore del convivente di fatto, i due articolati – artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. – non risultano perfettamente coincidenti, in quanto il secondo attribuisce al convivente una serie di diritti inferiore a quella riconosciuta al coniuge.
In ogni caso, secondo il giudice a quo, il riconoscimento del “fatto” della convivenza come una posizione giuridica meritevole di tutela in quanto tale, costituisce un vero e proprio obbligo imposto dalla lettura sistematica delle norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), unionali (art. 9 CDFUE) e convenzionali (art. 8 CEDU), rispetto al quale il legislatore nazionale rimaneva libero, nei limiti della ragionevolezza e dell’effettività, nella scelta della misura dell’intervento, residuando un margine di discrezionalità tra la disciplina prevista per il matrimonio e le unioni civili e la convivenza, in considerazione del peculiare sentire sociale della collettività nazionale. Evidenzia, quindi, il rimettente che dall’evoluzione della società, della legislazione e della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale, emergerebbe ormai che la famiglia va considerata sia nella versione tradizionale, composta da due membri di sesso diverso uniti in matrimonio, sia nella versione moderna costituita da coppie non unite in matrimonio, ma semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello stesso sesso; che nessuna situazione espressiva della scelta di un differente modello familiare può restare priva di tutela e che con l’introduzione dell’art. 230-ter cod. civ. il legislatore italiano avrebbe adempiuto all’obbligo sopra descritto dettandone i limiti e i confini mediante l’individuazione di un minimo essenziale di tutela da riconoscere alle famiglie di fatto, in contrapposizione alle più ampie garanzie proprie delle famiglie “di diritto” o famiglie “formali”, con una tecnica legislativa “per sottrazione”, nel senso della previsione di una disciplina specifica più ristretta e leggera, meno garantistica per la posizione del convivente lavoratore rispetto a quella del familiare-lavoratore di cui all’art. 230-bis cod. civ.
1.9.– Tanto premesso, il giudice a quo rileva che, pur nella consapevolezza di un’insopprimibile differenza strutturale tra la condizione del coniuge e quella del convivente more uxorio, qualora si individuasse la ratio dell’istituto dell’impresa familiare nel rifiuto della sia pur presunta gratuità della prestazione lavorativa resa nell’ambito di una certa relazione sociale, di vita, di affetti e di solidarietà, tale ratio potrebbe legittimamente trasferirsi a rapporti, diversi da quello di coniugio, nei quali si ravvisino caratteri analoghi e che se a fondamento della tutela enucleata dall’art. 230-bis cod. civ. si ponesse la prestazione continuativa del familiare, guardata come partecipazione ad un progetto lavorativo comune al gruppo, ravvisando il fulcro della disciplina nella tutela della persona che lavora, le obiezioni circa la sostanziale differenza tra posizioni di famiglia legittima e famiglia di fatto perderebbero di forza persuasiva, in presenza di valori costituzionali di riferimento quali la dignità, la libertà e l’uguaglianza. A giudizio delle Sezioni unite, se l’art. 230-bis è preordinato alla protezione del bene “lavoro” in ogni sua forma, questo bene non muta a seconda del soggetto che lo svolge, per cui, senza dover porre sullo stesso piano coniugio e convivenza more uxorio, si tratterrebbe di riconoscere un particolare diritto al convivente all’interno di un istituto che non può considerarsi eccezionale avendo una funzione residuale e suppletiva, diretta ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari e che in passato vedevano alcuni membri della comunità familiare esplicare una preziosa attività lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna garanzia economica e giuridica.
1.10.– Ricorda, ancora, il rimettente che il referente costituzionale della famiglia di fatto va individuato nell’art. 2 Cost., quale formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole; che seppure il matrimonio e, per volontà del legislatore, l’unione civile, appartengono a modelli cosiddetti «istituzionali», mentre la convivenza di fatto è un modello «familiare non a struttura istituzionale», in entrambi i casi si sarebbe in presenza di modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale, anche a seguito della cessazione dell’unione istituzionale e dell’unione di fatto, laddove la convivenza more uxorio è in concreto capace di corrispondere alle medesime esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona allo stesso modo del rapporto coniugale; che l’indicazione dell’art. 2 Cost., nel senso di una considerazione unitaria delle due situazioni e non già differenziata, è destinata ad operare anche rispetto al contributo collaborativo di cui all’art. 230-bis cod. civ. che trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, a prescindere dal legame formale; che l’irragionevole esclusione da parte della disposizione suddetta di ogni tutela, anche minima, nei confronti del convivente di fatto rileva: a) con riguardo all’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza, atteso che determina una discriminazione tra soggetti che esplicano la medesima attività in modo continuativo nell’impresa familiare, fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) a fronte di una sostanziale equivalenza nell’attività dell’impresa, finendo per porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini; b) con riguardo all’art. 4 Cost., per la violazione dello stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma mezzo di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona; c) con riguardo agli artt. 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., quali baluardi a garanzia del lavoro e della retribuzione, considerato che le prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio, mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale, sarebbero destinate a rimanere prive di tutela.
1.11.– Quanto al diritto unionale, le Sezioni unite richiamano l’art. 9 CDFUE, ove il «diritto di sposarsi» viene riconosciuto tra le libertà fondamentali tutelate dal capo secondo in modo disgiunto rispetto al «diritto di fondare una famiglia», così realizzando una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto, in quanto la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio viene riconosciuta e tutelata anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari, mentre, quanto al diritto convenzionale, il riferimento va agli artt. 8, paragrafo 1, e 12 CEDU che, rispettivamente, sanciscono il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, sulla cui base una consolidata giurisprudenza della Corte EDU ha elaborato una nozione di “famiglia” che non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio ma può comprendere altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio, pur riconoscendo agli Stati contraenti la facoltà di accordare una tutela diversificata alle coppie unite in matrimonio.
1.12.– Infine, il giudice a quo evidenzia che una lettura estensiva dell’art. 230-bis cod. civ., costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, sia economico-partecipativi che gestionali, quale insieme di necessaria ed indissolubile applicazione, determinerebbe una distonia sistemica accordando ex post al convivente, la cui attività nell’impresa familiare fino al 2016 non solo non era tipizzata ma, per la giurisprudenza prevalente, addirittura esclusa dall’alveo applicativo dell’art. 230-bis cod. civ., una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi espressamente prevista dal legislatore con la legge n. 76 del 2016, e che un’irragionevolezza dell’art. 230-ter cod. civ., rilevante ai fini della eventuale illegittimità costituzionale derivata di tale disposizione, sarebbe ravvisabile nel fatto che il riconoscimento del mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi non appare comunque idoneo ad assicurare una sufficiente tutela sul piano patrimoniale al convivente lavoratore, il quale, in caso di mancata produzione di utili, finirebbe per essere privato di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata, in contrasto con quello stesso obbligo per l’ordinamento di prefigurare per esso un nucleo essenziale di tutela, oltre che con il principio di parità di trattamento del lavoro prestato.
1.13.– In conclusione, le Sezioni unite ritengono che l’art. 230-bis cod. civ. disponendo, al primo comma che «il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» ed indicando, al terzo comma, che «[a]i fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo», ponga concreti dubbi di illegittimità costituzionale nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, per violazione degli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonché per violazione dell’art. 9 CDFUE e dell’art. 117, primo comma, Cost., novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU; le censure di illegittimità costituzionale si riverbererebbero, in termini di illegittimità derivata, anche sull’art. 230-ter cod. civ. che non avrebbe riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare ma una tutela differenziata di portata inferiore.
2.– Nessuna delle parti del giudizio principale si è costituita, né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 18 gennaio 2024 (reg. ord. n. 36 del 2024) la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nonchè all’art. 9 CDFUE e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, dell’art. 230-bis (Impresa familiare), primo e terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, e «in via derivata» dell’art. 230-ter (Diritti del convivente) cod. civ., «che applica al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente una tutela inferiore rispetto a quella prevista per il familiare».
1.1.– Il giudice a quo è chiamato a decidere della domanda di accertamento dell’esistenza di una impresa familiare, e di condanna alla liquidazione della quota spettante quale partecipante all’impresa, proposta da I. U., innanzi al Tribunale di Fermo, in funzione di giudice del lavoro, nei confronti dei figli e coeredi di E. D, già coniugato, di cui esponeva di essere stata stabile convivente, dal 2000 sino alla data del decesso avvenuto nel novembre 2012, e nella cui azienda agricola deduceva di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo dal 2004 (anno di iscrizione nel registro delle imprese) fino al 2012 (anno del decesso).
1.2.– La ricorrente, soccombente nei giudizi di merito, aveva denunciato con il ricorso per cassazione la violazione e falsa applicazione dell’art. 230-bis cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3), cod. proc. civ., di cui invocava l’applicazione in considerazione della mutata sensibilità sociale in materia di convivenza, oltre che delle aperture della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale verso il convivente more uxorio, nonché la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter cod. civ. e dell’art. 11 delle preleggi, la cui applicazione in deroga al principio di irretroattività avrebbe risposto a un criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia.
1.3.– Le Sezioni unite rimettenti premettono che la decisione impugnata trovava il suo fondamento nell’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 230-ter cod. civ. e nella impossibilità di un’applicazione estensiva dell’art. 230-bis cod. civ., sicché la rilevanza delle questioni discenderebbe dal fatto che solo all’esito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio, si sarebbe determinata la necessità di quell’accertamento in punto di fatto, pretermesso dai giudici di merito, circa l’effettività e la continuità dell’apporto lavorativo nell’impresa familiare determinante ai fini dell’accrescimento della produttività dell’impresa; evidenziano, altresì, che una lettura estensiva dell’art. 230-bis cod. civ., costituzionalmente orientata nel senso di un riconoscimento al convivente more uxorio degli stessi diritti previsti per il coniuge, sia economico-partecipativi che gestionali, determinerebbe una distonia sistemica accordando ex post al convivente, la cui attività nell’impresa familiare fino al 2016 era esclusa dall’alveo applicativo della disposizione, una tutela per i fatti antecedenti al 2016 addirittura superiore a quella poi prevista dal legislatore con la legge n. 76 del 2016.
1.4.– Non ritenendo percorribile la strada di una interpretazione conforme, data l’insuperabilità della lettera della disposizione e gli evidenziati rischi di distonia del sistema, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, primo e terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non include il convivente more uxorio nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare.
1.4.1.– La disposizione censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 2 Cost., considerando in modo differenziato e non unitario un contributo collaborativo che, a prescindere dal legame formale, trova pur sempre causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti nell’ambito di modelli familiari, quali il matrimonio e l’unione civile da un lato e la convivenza di fatto dall’altra, capaci di corrispondere allo stesso modo alle esigenze di realizzazione dei fondamentali bisogni affettivi della persona e dai quali, anche a seguito della cessazione, scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale. Inoltre, in violazione dell’art. 3 Cost., opererebbe una vera e propria discriminazione tra soggetti che, in modo continuativo, esplicano la medesima attività lavorativa nell’impresa familiare, così determinando una disparità di trattamento fondata sulla (sola) condizione personale (la qualità di coniuge) che, a fronte di un apporto equivalente nell’attività dell’impresa, finisce per porre un ostacolo di ordine economico all’uguaglianza dei cittadini.
1.4.2.– In contrasto con l’art. 4 Cost., l’art. 230-bis cod. civ. inciderebbe sullo stretto legame tra il lavoro, che non è fine in sé o mero strumento di guadagno, ma anche strumento di affermazione della personalità del singolo oltre che garanzia di sviluppo delle capacità umane e del loro impiego, ed i valori di effettiva libertà e dignità di ogni persona, e, violando altresì gli artt. 35 e 36 Cost., lascerebbe prive della tutela riconosciuta in presenza di un legame formale, prestazioni lavorative rese nell’ambito di un rapporto di convivenza more uxorio mosse dal medesimo spirito di solidarietà che caratterizza il lavoro coniugale, sebbene, avendo l’istituto dell’impresa familiare carattere residuale, sussista il medesimo rischio che le stesse, non essendo possibile fornire la prova specifica di una prestazione a titolo oneroso, vengano ritenute presuntivamente prestate a titolo gratuito.
1.4.3.– Il rimettente denuncia poi la violazione dell’art. 9 CDFUE che, riconoscendo tra le libertà fondamentali tutelate dal Capo secondo, il «diritto di sposarsi» in modo disgiunto rispetto al «diritto di fondare una famiglia», realizza una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto tutelando, anche al di fuori della presenza di vincoli formali nei rapporti familiari, la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso la scelta, del tutto legittima, di convivere senza matrimonio, sostituendo il tradizionale favor per il matrimonio con la pari dignità di ogni forma di convivenza alla quale una legislazione nazionale decida di dare la sua regolamentazione. Sarebbe altresì in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost, in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU, come evolutivamente interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU nel senso di non limitare la nozione di “famiglia” alle relazioni basate sul matrimonio, ma di estenderla anche ad altri legami “familiari” di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio, tanto da circoscrivere la possibilità di una ingerenza degli Stati nazionali nei diritti alla “vita familiare” sia delle coppie sposate che di fatto, con la necessaria osservanza dei principi di legalità, necessità e proporzionalità, elaborando in talune circostanze dei veri e propri obblighi positivi volti alla promozione dei suddetti diritti.
1.5.– Infine, le Sezioni unite prospettano l’illegittimità costituzionale «in via derivata» (recte: in via consequenziale) dell’art. 230-ter cod. civ. che, riconoscendo al convivente di fatto che presta stabilmente la propria opera nell’impresa dell’altro convivente il mero diritto a partecipare agli utili, ai beni e agli incrementi, applicherebbe allo stesso una tutela patrimoniale inferiore rispetto a quella riconosciuta al familiare dall’art. 230-bis cod. civ., privandolo di ogni compenso per l’attività lavorativa prestata in caso di mancata produzione di utili.
2.– Preliminarmente va affermata l’ammissibilità delle questioni.
2.1.– Secondo l’orientamento costante di questa Corte, la questione di legittimità costituzionale è ammissibile quando l’ordinanza di rimessione è argomentata in modo da consentire il controllo “esterno” della rilevanza attraverso una motivazione non implausibile del percorso logico compiuto e delle ragioni per le quali il giudice rimettente afferma di dover applicare la disposizione censurata nel giudizio principale (ex plurimis, sentenze n. 94 del 2023, n. 237 del 2022 e n. 259 del 2021).
Nella specie le parti controvertono in ordine agli effetti della partecipazione, protratta per anni, della convivente more uxorio all’impresa familiare, di cui era titolare il “compagno”; rapporto cessato nel 2012 a causa del decesso di quest’ultimo. A quella data, e per tutta la durata del rapporto – osserva la Corte rimettente – l’unica disposizione vigente era il censurato art. 230-bis cod. civ. e non già l’art. 230-ter cod. civ., che, pur concernendo proprio la partecipazione del convivente di fatto all’impresa familiare, non era applicabile ratione temporis, essendo stato introdotto solo successivamente dalla legge n. 76 del 2016.
Tale presupposto interpretativo si fonda sulla non applicabilità retroattiva dell’art. 230-ter cod. civ., disposizione che, avendo regolamentato per la prima volta l’istituto dell’impresa familiare per i conviventi di fatto, non troverebbe applicazione alla vicenda oggetto del giudizio a quo, poiché la convivenza e il lavoro prestato nell’impresa familiare risultano conclusi nel 2012 per il decesso del convivente della ricorrente.
In presenza di un rapporto giuridico già esaurito alla data di entrata in vigore della nuova norma, il presupposto interpretativo risulta non implausibile, apparendo anzi conforme alla lettera e alla ratio della legge n. 76 del 2016.
Introducendo l’art. 230-ter cod. civ. – come meglio si dirà oltre – il legislatore non ha inteso limitare la disciplina preesistente di cui all’art. 230-bis cod. civ., escludendo il convivente di fatto da alcuni diritti (quale il diritto al mantenimento) spettanti ai partecipanti all’impresa familiare, ma ha riconosciuto una tutela nuova nel caso di impresa familiare alla quale partecipi un convivente di fatto, sul ritenuto presupposto, implicito ma inequivocabile, che prima non fosse prevista. Ha quindi introdotto una nuova, autonoma e specifica disciplina, pur di portata minore rispetto a quella dell’art. 230-bis cod. civ.; disciplina che quindi non poteva che operare per il futuro, così come ritiene la Corte rimettente.
Con riferimento ad altri istituti introdotti dalla legge n. 76 del 2016, la giurisprudenza di legittimità si è già parimenti orientata nel senso della loro portata non retroattiva (in tema di pensione di reversibilità, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 14 settembre 2021, n. 24694; sezione prima civile, ordinanza 14 marzo 2022, n. 8241).
Del resto, all’epoca della riforma del diritto di famiglia del 1975, quando fu introdotto l’art. 230-bis cod. civ., la giurisprudenza si era espressa nel senso della irretroattività di tale nuova disposizione (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 aprile 2013, n. 7981; sezione seconda civile, sentenza 21 ottobre 1992, n. 11500; sezione prima civile, sentenza 6 aprile 1990, n. 2909; sezione terza civile, sentenza 23 ottobre 1985, n. 5195).
Conseguentemente, ed a ragione, la Corte rimettente si è interrogata in ordine all’applicabilità della disposizione vigente all’epoca dei fatti (art. 230-bis cod. civ.), piuttosto che di una disposizione non ancora esistente (art. 230-ter cod. civ.) e della quale ha plausibilmente ritenuto che non fosse possibile predicare l’applicazione retroattiva.
2.2.– La Corte rimettente ha, poi, escluso la possibilità di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata (art. 230-bis cod. civ.), orientata alla conformità agli evocati parametri.
Vero è che da una parte, l’affermazione della esclusione del convivente more uxorio tra i possibili componenti dell’impresa familiare si rinveniva in alcuni non recenti arresti di quella Corte (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 1994, n. 4204 e sezione seconda civile, sentenza 29 novembre 2004, n. 22405); ma essi non erano in sintonia con altre pronunce che, invece, avevano ritenuto la possibilità, per il medesimo convivente, di essere componente di una comunione tacita familiare (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 dicembre 1994, n. 10927 e 15 marzo 2006, n. 5632).
Dall’altra parte, le Sezioni unite penali (Corte di cassazione, sentenza 26 novembre 2020-17 marzo 2021, n. 10381), poste a fronte di un interrogativo analogo – se nella nozione di «prossimi congiunti», prevista dall’art. 384, primo comma, del codice penale, per definire l’area di applicabilità dei «casi di non punibilità», il convivente more uxorio, ancorché non espressamente previsto, potesse ritenersi non di meno compreso nell’elenco di cui all’art. 307, quarto comma, cod. pen. (secondo cui «[a]gli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti») – avevano seguito la strada dell’interpretazione conforme, affermando l’inclusione del convivente nel catalogo dei soggetti che beneficiano della suddetta «scusante soggettiva».
Ma deve considerarsi che lo sviluppo normativo e giurisprudenziale, che, con riferimento a specifiche fattispecie, ha dato rilevanza – come si vedrà oltre – alla situazione della convivenza more uxorio, ha uno specifico punto di caduta nella regolamentazione dell’impresa familiare nell’innovativo contesto della disciplina per le unioni civili e le convivenze di fatto, introdotta dalla legge n. 76 del 2016.
Infatti, il comma 13 dell’articolo unico della legge – che prevede il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso – prescrive espressamente che si applichino le disposizioni di cui alle Sezioni II, III, IV, V e VI del Capo VI del Titolo VI del libro primo del codice civile. Da ciò si desume l’applicabilità dell’art. 230-bis cod. civ. alle unioni civili, con conseguente ampliamento del catalogo del suo terzo comma nella parte in cui definisce come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Invece il comma 46 dello stesso articolo unico introduce una nuova disposizione – l’art. 230-ter cod. civ. – che prevede che «[a]l convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».
Da quest’ultima disposizione, in particolare, si desume a contrario la non applicabilità dell’art. 230-bis alle convivenze more uxorio; ciò che ha costituito un chiaro dato testuale preclusivo dell’interpretazione conforme.
Pertanto, la Corte rimettente ha ritenuto che fosse solo possibile sollevare – come ha fatto – l’incidente di costituzionalità.
2.3.– Quanto poi alla non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali a suo giudizio la disposizione censurata è suscettibile dei sollevati dubbi di legittimità costituzionale.
3.– Giova preliminarmente richiamare, in sintesi, il quadro normativo di riferimento, che è caratterizzato da due fondamentali riforme, le quali hanno rispecchiato la progressiva evoluzione dei legami familiari nella società civile: la riforma del diritto di famiglia del 1975 e la disciplina delle unioni civili e delle convivenze di fatto del 2016.
3.1.– L’art. 89 della legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia) ha introdotto, nell’autonoma Sezione VI del Capo VI del titolo VI del Libro primo del codice civile, l’art. 230-bis, rubricato «Impresa familiare», che per la prima volta ha riconosciuto una tutela specifica a tutti coloro che, legati da vincoli di parentela o di coniugio, partecipano al processo produttivo dell’impresa gestita dal capofamiglia; il rapporto rilevante è quello intercorrente tra un soggetto e un familiare imprenditore, allorquando il primo svolga un’attività di lavoro continuativa a favore del secondo, a cui la disposizione di nuovo conio riconosce un regime di tutela specifico, ma anche suppletivo, destinato ad operare solo laddove familiare e imprenditore non abbiano provveduto a disciplinare diversamente e in autonomia la prestazione di lavoro, anche in forma tacita, attraverso gli istituti lavoristici o di diritto societario.
3.2.– Prima della riforma del 1975, la partecipazione all’attività produttiva della famiglia, anche se svolta con carattere di prevalenza e di continuità, veniva considerata alla stregua di una prestazione lavorativa resa “affectionis vel benevolentiae causa”, alla quale si applicava una presunzione iuris tantum di gratuità in virtù dei vincoli familiari.
Sulla base di tale presunzione si escludeva che le prestazioni rese in ambito familiare potessero generare pretese e obblighi, giuridicamente vincolanti, azionabili nei confronti del familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni medesime, tranne che nell’ambito del lavoro prestato da familiari nell’esercizio dell’agricoltura, ove erano previste le comunioni tacite familiari, regolate dagli usi, in base ai quali erano generalmente riconosciuti ai partecipanti diritti patrimoniali (art. 2140 cod. civ., ora abrogato, per essere la disciplina della comunione tacita familiare confluita in quella dell’impresa familiare, integrata sempre dagli usi).
Negli anni diviene via via più sentita l’esigenza di fornire strumenti di tutela per evitare che la comunità familiare potesse dare origine e copertura a situazioni di sfruttamento, nella consapevolezza che il lavoro gratuito privo di tutela in molteplici contesti familiari non fosse il frutto di una scelta di libertà, quanto piuttosto il portato di un predominio dell’imprenditore nei confronti della moglie e degli altri componenti del nucleo familiare, quale retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, ormai superata; il marcato ridimensionamento della presunzione di gratuità ad opera dell’art. 230-bis cod. civ. ha corrisposto all’esigenza di riconoscere una tutela minima a quei rapporti di lavoro che, svolgendosi con peculiari caratteristiche nell’ambito di aggregati familiari, non potevano contare su più specifiche discipline di protezione.
3.3.– Il fondamento costituzionale dell’istituto va ricondotto all’art. 29 Cost, ed ancora prima ai principi di solidarietà e di eguaglianza di cui agli artt. 2 e 3 Cost., non meno che all’art. 35 Cost., secondo cui «[l]a Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni», all’art. 36 Cost., che riconosce il diritto alla giusta retribuzione, e, non da ultimo, all’art. 37 Cost., data la tendenziale prevalenza del lavoro femminile in ambito familiare, di cui dà conto l’espressa previsione del secondo comma dell’art. 230-bis cod. civ. nell’affermare l’equivalenza del lavoro della donna a quello dell’uomo.
La natura residuale dell’impresa familiare si pone in linea con i principi ispiratori dell’intera riforma del diritto di famiglia. Le finalità di protezione dell’istituto, inteso a dettare una disciplina di chiusura del sistema del lavoro familiare, convergono verso la natura imperativa della norma, nel senso che la riconducibilità del rapporto nell’ambito della corrispondente disciplina non ne consente l’elusione mediante il ricorso ad uno schema negoziale che attribuisca al familiare una posizione deteriore rispetto a quella da essa garantita.
3.4.– In forza della previsione di cui all’art. 230-bis cod. civ., il familiare che presta la propria attività di lavoro, in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare, cioè a favore di un imprenditore a lui legato, ai sensi del comma terzo, da vincolo di coniugio, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo, gode di una complessiva posizione partecipativa che consta sia di diritti patrimoniali che di diritti amministrativo-gestori.
Sotto il profilo economico, il familiare ha innanzitutto diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e, in caso di buon andamento dell’attività d’impresa, ha diritto ad una quota di utili e di incrementi, anche in ordine all’avviamento, proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, e partecipa, sempre in detta proporzione, ai beni acquistati con gli utili.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate a maggioranza, così garantendo al familiare un trattamento diverso rispetto a quello normalmente riservato ad un lavoratore subordinato in ragione del particolare vincolo di solidarietà familiare che lega i partecipanti all’impresa.
3.5.– Secondo il diritto vivente l’impresa familiare non costituisce una modalità di gestione collettiva dell’impresa, bensì una forma di collaborazione all’interno di essa e la norma di cui all’art. 230-bis cod. civ. disciplina unicamente il rapporto che si instaura tra soggetti – il familiare (o i familiari) e l’imprenditore – per effetto dello svolgimento della prestazione di lavoro, senza con ciò interferire sulla imputazione dell’attività d’impresa, di cui resta titolare l’imprenditore che è l’unico soggetto ad agire sul piano dei rapporti esterni, assumendo il rischio inerente all’esercizio dell’impresa; il diritto del singolo prestatore di lavoro non è condizionato dall’analogo diritto che spetta agli altri familiari, in quanto esso è commisurato alla qualità e quantità del lavoro prestato (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 18 gennaio 2005, n. 874).
Dopo un iniziale contrasto, la giurisprudenza di legittimità si è consolidata nel configurare l’impresa familiare solo qualora il titolare dell’impresa sia un imprenditore individuale, escludendo quindi l’applicazione dell’art. 230-bis cod. civ. a vantaggio del familiare che presti la propria opera nell’ambito dell’impresa gestita in forma societaria (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 6 novembre 2014, n. 23676), mentre, quanto alla possibilità di fruire della tutela ex art. 230-bis cod. civ. anche per il familiare che presta la propria attività all’interno della famiglia, si è evidenziata la necessità che il lavoro domestico risulti strettamente correlato e finalizzato alla gestione dell’impresa familiare, quale espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell’ambito del consorzio domestico, in vista dell’attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni o servizi proprio della stessa (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 19 febbraio 1997, n. 1525).
3.6.– L’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia, dapprima nella società e quindi nella giurisprudenza, grazie anche all’impulso dato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia), ha trovato un approdo legislativo nella legge n. 76 del 2016, che in un unico e lungo articolo, suddiviso in 69 commi, contempla due modelli distinti: il primo, quello dell’unione civile, cui sono dedicati i primi 35 commi, è riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso; il secondo, quello della convivenza di fatto, è aperto a tutte le coppie, eterosessuali e omosessuali.
3.7.– Quanto al secondo modello (la convivenza di fatto), che rileva nel giudizio a quo, la legge n. 76 del 2016 abbandona la rigida alternativa tra tutela, o no, parametrata a quella riservata alla famiglia fondata sul matrimonio e valorizza l’esigenza di speciale regolamentazione dei singoli rapporti, siano essi quelli che vedono coinvolti i conviventi tra di loro, ovvero quelli tra genitori e figli o che si sviluppano con i terzi.
Conviventi di fatto sono definiti, ai sensi del comma 36 dell’art. 1 della legge citata, «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da un’unione civile». La convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia”; quindi non vi rientra la convivenza, ancorché stabile, che sia meramente amicale, di sostegno o di compagnia.
Il comma 37 aggiunge poi che, ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, ai fini dell’accertamento della stabile convivenza, occorre fare riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’art. 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’art. 13 del d.P.R. 30 maggio 1989, n. 223 (Approvazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente). La dichiarazione anagrafica crea una presunzione di stabilità del vincolo affettivo di coppia e agevola, sul piano probatorio, il riconoscimento dei diritti in favore dei conviventi di fatto.
La dichiarazione non può esser fatta da persone «vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile», così come gli stessi rapporti sono di impedimento a contrarre matrimonio (artt. 86 e 87 cod. civ.).
I commi da 50 a 63 fissano ex novo la regolamentazione dell’eventuale contratto di convivenza, mediante cui i conviventi di fatto «possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune». Il contratto di convivenza richiede (ex comma 57, lettera a, non diversamente dal matrimonio ex art. 86 cod. civ.) lo stato libero delle parti, essendo nullo in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza. Le restanti disposizioni si innestano nel solco di precedenti normativi e giurisprudenziali, soprattutto per quanto concerne i diritti della coppia verso l’esterno, confermando o precisando facoltà già riconosciute ai conviventi (quanto ai rapporti personali i commi da 38 a 41, 47 e 48; quanto ai rapporti patrimoniali i commi 44, 45 e 49), oppure, in misura minore, sono dirette ad ampliare la tutela di costoro attribuendo prerogative nuove (vedi il comma 42 sul diritto del convivente di continuare ad abitare, per un certo periodo, nella casa di comune residenza e di proprietà dell’altro dopo la sua morte o il comma 65 sul diritto agli alimenti in seguito alla cessazione della convivenza); restano affidati alla spontaneità dei comportamenti tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione delle esigenze della coppia, quali coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni comuni, assistenza morale e materiale, determinazione dell’indirizzo familiare e fedeltà, durata della relazione.
3.8.– Nella legge n. 76 del 2016 la distinzione tra unione civile da un lato e convivenza di fatto dall’altro, rileva – come si è già visto – anche con specifico riferimento all’istituto dell’impresa familiare.
Il comma 20 dell’art. 1 della medesima legge n. 76 del 2016 detta una disposizione di coordinamento, secondo cui, «[a]l solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184 […]».
In forza di tale disposizione tra i familiari partecipanti all’impresa familiare deve annoverarsi la persona dello stesso sesso unita civilmente all’imprenditore.
In tal senso depone quanto stabilito dal comma 13 del medesimo articolo, a mente del quale «[i]l regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile»; dall’applicazione della sezione VI del capo VI discende l’estensione dell’art. 230-bis cod. civ. alle persone legate dall’unione civile.
3.9.– Per il convivente di fatto il legislatore, in luogo dell’inclusione del novero dei soggetti ammessi a godere del regime dell’impresa familiare, ha optato per l’introduzione di una autonoma e specifica regolamentazione.
Il comma 46 ha inserito nel codice civile l’art. 230-ter, rubricato «Diritti del convivente», che regolamenta le prestazioni di lavoro rese nell’ambito della famiglia di fatto dettando una disciplina che riconosce al convivente-lavoratore una tutela più ristretta rispetto a quella prevista per i familiari dall’art. 230-bis cod. civ.
La tutela del convivente è limitata a taluni, circoscritti, aspetti, quali «una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento».
L’espresso riferimento al lavoro prestato «all’interno dell’impresa dell’altro convivente» lascia fuori dal perimetro delle tutele il lavoro «nella famiglia»; al convivente non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa commisurata sul «lavoro prestato» e poiché gli utili e gli incrementi potrebbero anche mancare in caso di risultati negativi dell’azienda, la sua tutela economica resta meramente eventuale.
Manca la previsione di un diritto di prelazione per il caso di divisione ereditaria o cessione dell’impresa familiare e non viene riconosciuto alcun diritto partecipativo, con la conseguenza che il convivente, pur collaborando unitamente ad altri familiari dell’imprenditore, deve attenersi alle decisioni gestionali e sugli indirizzi produttivi adottate dagli altri componenti, anche in ordine alla eventuale partecipazione agli utili a cui avrebbe diritto; viene, invece, confermato il carattere residuale della tutela, con la precisazione che il diritto di partecipazione non spetta nei soli casi di esistenza di un rapporto di società o di lavoro subordinato.
3.10.– A completamento del contesto normativo non può non farsi cenno ad alcune delle plurime disposizioni che, nel tempo, hanno dato rilievo alla convivenza di fatto.
Nel codice civile sono presenti gli artt. 330, 333 e 342-bis, quanto all’allontanamento del convivente che maltratta o abusa del minore, nonché gli artt. 155-bis e 337-sexies cod. civ. che fanno espressamente riferimento alla convivenza more uxorio.
Alla convivenza coniugale fa riferimento anche l’art. 199 cod. proc. pen., nel disciplinare la facoltà dei prossimi congiunti di astensione dal deporre.
La convivenza prematrimoniale dei coniugi, «in modo stabile e continuativo», rileva ai fini della legittimazione all’adozione ex art. 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore a una famiglia).
Quanto al prelievo di organi e di tessuti, consentito a determinate condizioni, l’art. 3 della legge 1° aprile 1999, n. 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti) riconosce il diritto di ricevere informazioni sulle opportunità terapeutiche al coniuge non separato o al convivente more uxorio.
L’elenco dei soggetti beneficiari dell’elargizione ai superstiti, di cui all’art. 4 della legge 20 ottobre 1990, n. 302 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), comprende espressamente i conviventi more uxorio.
Nel definire le condizioni di applicabilità di speciali misure di protezione l’art. 9, comma 5, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991, n. 82, fa riferimento anche a coloro che convivono stabilmente con le persone a rischio.
La legge 9 gennaio 2004, n. 6 (Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonché relative norme di attuazione, di coordinamento e finali) ha previsto che l’amministratore di sostegno possa anche essere una persona stabilmente convivente, la quale può altresì proporre l’istanza di inabilitazione o interdizione.
L’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è previsto per le coppie di persone maggiorenni «coniugate o conviventi» (art. 5 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, recante «Norme in materia di procreazione medicalmente assistita»).
Dopo la legge n. 76 del 2016, al convivente di fatto fa riferimento anche l’art. 1, comma 255, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) nel definire la figura di caregiver familiare.
Anche il novellato art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105 recante «Attuazione della direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio», richiama la figura del convivente di fatto come possibile beneficiario dei permessi per assistere persone disabili.
Parimenti l’art. 42, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), come riformulato dall’art. 2, comma 2, lettera n), del decreto legislativo n. 105 del 2022, prevede che al coniuge convivente sono equiparati, ai fini dei riposi e permessi per assistere i figli con handicap grave, sia la parte di un’unione civile, sia il convivente di fatto.
4.– Venendo ora al merito, le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., da valutarsi complessivamente.
5.– Il fulcro delle sollevate questioni di legittimità costituzionale risiede nella portata della tutela del convivente more uxorio – ossia del «convivente di fatto» ex art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016 – quale ritraibile dalla Costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle «formazioni sociali» ove si svolge la sua personalità. Tale è, appunto, la convivenza di fatto, la quale esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, primo comma, Cost. riserva alla «famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Anche recentemente questa Corte ha ribadito che il matrimonio, inteso quale unione tra persone di sesso diverso, è riconducibile all’art. 29 Cost. (sentenze n. 66 del 2024, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010); invece, le convivenze di fatto, al pari delle unioni civili, appartengono alle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., all’interno delle quali l’individuo afferma e sviluppa la propria personalità (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010).
L’emersione delle convivenze di fatto come diffuso fenomeno sociale è relativamente recente; dai dati statistici risulta la “moltiplicazione delle unioni libere”, che ormai sopravanzano, in numero, le famiglie fondate sul matrimonio.
In Assemblea costituente, invece, fu presente solo la fattispecie della famiglia fondata sul matrimonio, radicata nella tradizione e nel comune sentire del tempo, e il dibattito, vivace e prolungato, si focalizzò sull’incidenza del matrimonio concordatario e sull’opportunità di prevederne, o meno, il suo carattere di indissolubilità.
Ma all’epoca, la convivenza more uxorio non era ignota neppure al codice civile del 1942, quando ad esempio nella disciplina della dichiarazione giudiziale di paternità si faceva riferimento al caso di convivenza notoria «come coniugi» (art. 260 cod. civ.). E prima ancora, nella “Relazione Solmi” al Progetto del nuovo codice civile, si abbandonava espressamente il termine «concubinato», che recava uno stigma, anche perché evocativo della sua (asimmetrica) criminalizzazione nel codice penale del 1930 (art. 560 cod. pen.), in favore dell’espressione «convivenza a modo di coniugi».
Questa Corte poi dichiarerà l’illegittimità costituzionale di tale disposizione (sentenza n. 147 del 1969) e il termine «concubinato» scomparirà per far posto definitivamente a quello di «convivenza a modo di coniugi» o more uxorio e infine, con la legge n. 76 del 2016, a quello di «conviventi di fatto».
6.– A partire dagli anni Settanta nella giurisprudenza della Corte trova spazio la “convivenza more uxorio”, ma per concorrere, come fattore comparativo, a mostrare l’ingiustificatezza del divieto civilistico di donazioni tra coniugi; divieto discriminatorio anche perché non operava per i conviventi (sentenza n. 91 del 1973; per un’argomentazione simile, quanto al trattamento deteriore per i coniugi rispetto a quello dei conviventi, vedi anche recentemente la sentenza n. 209 del 2022).
La storica riforma del diritto di famiglia del 1975 (legge 19 maggio 1975, n. 151) apporta notevoli modifiche al rapporto di coniugio, ma contiene solo un limitato riferimento alla convivenza di fatto, come nel novellato art. 317-bis, secondo comma, cod. civ. quanto all’esercizio congiunto della potestà da parte dei genitori naturali conviventi che avessero entrambi riconosciuto il figlio.
Anche in questo contesto profondamente riformato, la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato la permanente netta differenza tra il rapporto di coniugio, fondato sul matrimonio, e la convivenza more uxorio: sono «due situazioni […] nettamente diverse» (sentenza n. 6 del 1977). La «convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità o certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri, previsti dagli artt. 143, 144, 145, 146, 147, 148 cod. civ., che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima. La coabitazione, infatti, del convivente more uxorio può cessare per volontà di uno dei conviventi in qualsiasi momento anche mediante azione giudiziaria» (sentenza n. 45 del 1980).
7.– Il punto di svolta può essere individuato nella sentenza n. 237 del 1986, ove la Corte, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità costituzionale degli artt. 307, quarto comma, e 384 cod. pen., sotto il profilo della mancata previsione del convivente more uxorio tra i prossimi congiunti beneficiari della causa di non punibilità (successivamente riconosciuta – come si è già detto – dalla giurisprudenza delle sezioni unite penali della Corte di cassazione), pur dichiarando la non fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 29 Cost., assume una posizione nuova rispetto alle sue precedenti pronunce. Muovendo da una interpretazione evolutiva dell’art. 2 Cost., afferma che «un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare – anche a sommaria indagine – costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più […] allorché la presenza di prole comporta il coinvolgimento attuativo d’altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione». Anche la convivenza more uxorio, pur diversa dal vincolo coniugale, merita una disciplina di tutela che la Corte sollecita il legislatore a introdurre.
Un primo ampliamento della tutela del convivente more uxorio si ha di lì a poco con la sentenza n. 404 del 1988. Con riferimento specifico al diritto all’abitazione – che «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 217 del 1988) – è stata ritenuta costituzionalmente illegittima una disciplina di tutela dettata in materia di rapporto locatizio per il coniuge, i parenti e gli affini conviventi, che escludeva (nel senso che non prevedeva anche) il convivente more uxorio. L’art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) stabiliva infatti che, in caso di morte del conduttore, gli succedevano nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi. La Corte – nel ritenere che l'art. 2 Cost. è violato «quanto al diritto fondamentale che nella privazione del tetto è direttamente leso» – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio (sentenza n. 404 del 1988).
In seguito, la Corte continua a riconoscere «la rilevanza costituzionale del “consolidato rapporto” di convivenza, ancorché rapporto di fatto», pur sempre «distinto dal rapporto coniugale» (sentenza n. 8 del 1996). E – aggiunge la medesima pronuncia – la «distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale, come tali, non esclude affatto, tuttavia, la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie, ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’invocato art. 3 della Costituzione».
La convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso ed è comunemente accettato, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale. Questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, comunque, non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure. La diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, in ragione dei caratteri di stabilità, certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveri che nascono soltanto da tale vincolo, giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi che trova il suo fondamento costituzionale nella circostanza che il rapporto coniugale riceve tutela diretta nell’art. 29 Cost. (ordinanza n. 121 del 2004).
Ma vi sono, poi, gli «aspetti particolari». La Corte ricorda che «in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra convivenza more uxorio e rapporto coniugale caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria una identità di disciplina, che questa Corte può garantire attraverso il controllo di ragionevolezza imposto dall’art. 3 Cost.» (sentenza n. 140 del 2009).
La valorizzazione di questo approccio, basato su un controllo di ragionevolezza per situazioni “specifiche” e “particolari”, da individuarsi caso per caso, si è avuto nella sentenza n. 213 del 2016 che, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 2, 3 e 32 Cost., l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 (come modificato dall’art. 24, comma 1, lettera a, della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante « Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»), nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado, sottolinea che, pur restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, deve ritenersi irragionevole e logicamente contraddittoria l’esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile e «ciò in particolare – ma non solo – nei casi in cui la convivenza si fondi su una relazione affettiva, tipica del “rapporto familiare”, nell’ambito della platea dei valori solidaristici postulati dalle “aggregazioni” cui fa riferimento l’art. 2 Cost.».
Questa Corte ha ricordato che «la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.»; e ha puntualizzato che «[i]n questo caso l’elemento unificante tra le due situazioni è dato proprio dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.», mentre in caso contrario «il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio».
Più recentemente la rilevanza della convivenza di fatto è stata presa in considerazione dalla sentenza n. 10 del 2024. Questa Corte, affrontando la delicata questione dell’affettività intramuraria in stato di detenzione, non ha dubitato della inclusione della convivenza tra le relazioni affettive della persona che l’ordinamento giuridico tutela «nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza». Ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente.
8.– Anche nella giurisprudenza comune la convivenza more uxorio trova riconoscimento.
La giurisprudenza civile di legittimità, premesso che la situazione di convivenza resta non pienamente assimilabile al matrimonio, sia sotto il profilo della stabilità che di quello delle tutele offerte al convivente, tanto nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto, riconosce con orientamento condiviso che, in quanto «espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole, cui corrisponde anche un’assunzione di responsabilità» verso il partner e il nucleo familiare, l’instaurazione di una stabile convivenza comporta la formazione di un nuovo progetto di vita con il compagno o la compagna «dal quale possono derivare contribuzioni economiche che non rilevano più per l’ordinamento solo quale adempimento di un’obbligazione naturale, ma costituiscono, dopo la regolamentazione normativa delle convivenze di fatto (come attualmente previsto dall’art. 1, comma 37, della legge n. 76 del 2016), anche l’adempimento di un reciproco e garantito dovere di assistenza morale e materiale» (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 novembre 2021, n. 32198).
In particolare, nelle più recenti pronunce delle Sezioni unite civili, in caso di scioglimento del matrimonio o dell’unione civile, si dà rilievo al periodo di convivenza, sia prematrimoniale (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 dicembre 2023, n. 35385), che dell’ex coniuge (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 7 febbraio 2023, n. 3645 e ordinanza 5 maggio 2022, n. 14256), quanto alla determinazione dell’assegno divorzile o dell’assegno di mantenimento (Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 12 dicembre 2023, n. 34728), e della convivenza antecedente l’unione civile per la determinazione dell’assegno in favore del componente dell’unione civile (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 dicembre 2023, n. 35969).
L’accertamento dell’esistenza della convivenza – intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – rileva in tante altre situazioni specifiche: sul risarcimento del danno da perdita della vita del convivente (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 13 aprile 2018, n. 9178 e 16 settembre 2008, n. 23725); sulla sofferenza provata dal convivente in conseguenza dell’uccisione del figlio unilaterale del partner (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 21 aprile 2016, n. 8037); ai fini dell’indebito arricchimento (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanza 7 giugno 2018, n. 14732); ai fini della legittimazione ad esperire l’azione di spoglio (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 2 gennaio 2014, n. 7); sulla detenzione qualificata dell’immobile adibito a casa familiare assegnato all’ex convivente genitore collocatario di figli minori (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenza 11 settembre 2015, n. 17971).
9.– Dal suo canto la giurisprudenza penale di legittimità – già sopra richiamata – converge verso interpretazioni estensive al convivente di fatto di disposizioni che, tradizionalmente, facevano esclusivo riferimento alla famiglia fondata sul matrimonio.
Particolarmente significativa – come è già stato sopra rilevato – è l’estensione al convivente more uxorio del perimetro applicativo della «scusante soggettiva» di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen., operata in via interpretativa dalla Corte di cassazione (sentenza n. 10381 del 2021).
10.– Nell’ambito europeo, l’adeguamento dell’ordinamento interno al quadro di progressiva evoluzione dei costumi del nostro paese ha trovato conforto e a volte stimolo nei principi della CEDU (che all’art. 8 riconosce il «Diritto al rispetto della vita privata e familiare») e in quelli della CDFUE (che all’art. 9 riconosce il «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia»); l’interpretazione di tali principi ad opera degli organi giurisdizionali sovranazionali si orienta nel senso del riconoscimento della tutela dei diritti legati alla vita privata e familiare all’unione di due persone in sé, anche se dello stesso sesso, a prescindere dalla celebrazione del matrimonio, purché la stessa sia connotata da stabilità.
Che la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di vita “familiare” è una nozione ormai consolidata nella giurisprudenza della Corte EDU in sede di interpretazione dell’art. 8, paragrafo 1, (Corte EDU, sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio; Corte EDU, sentenza 18 dicembre 1986, Johnston e altri contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 26 maggio 1994, Keegan contro Irlanda; Corte EDU, sentenza 5 gennaio 2010, Jaremowicz contro Polonia; Corte EDU, sentenza 27 aprile 2010, Moretti e Benedetti contro Italia; Corte EDU, sentenza 24 giugno 2010, Schalk and Kopf contro Austria; Corte EDU, sentenza 3 aprile 2012, Van der Heijden contro Paesi Bassi; Corte EDU, grande camera, sentenza 7 novembre 2013, Vallianatos contro Grecia; Corte EDU, sentenza Oliari ed altri contro Italia); l’ambito soggettivo della nozione di «vita familiare» ai sensi dell’art. 8 CEDU include sia le relazioni giuridicamente istituzionalizzate, sia le relazioni fondate sul dato biologico, sia, infine, quelle che costituiscono “famiglia” in senso sociale, alla condizione che sussista l’effettività di stretti e comprovati legami affettivi.
Anche l’art. 9 CDFUE, nel riconoscere il «diritto di sposarsi» tra le libertà fondamentali tutelate in modo disgiunto e autonomo rispetto al «diritto di fondare una famiglia», ha realizzato una significativa apertura nei confronti delle famiglie di fatto ponendo le basi per un avanzamento nelle possibilità di protezione della molteplicità e varietà delle relazioni ad esse riconducibili.
11. – In sintesi, vi è stata una convergente evoluzione sia della normativa (punto 3 e seguenti), sia della giurisprudenza costituzionale (punto 7), comune (punti 8 e 9) ed europea (punto 10), che ha dato piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.
Il modello secondo la scelta del Costituente è la famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.).
Permangono, quindi, differenze di disciplina, ma, quando si tratta di diritti fondamentali, esse sono recessive e la tutela non può che essere la stessa sia che si tratti, ad esempio, del diritto all’abitazione (sentenza n. 404 del 1988), o della protezione di soggetti disabili (sentenza n. 213 del 2016), o dell’affettività di persone detenute (sentenza n. 10 del 2024).
Parimenti fondamentale è il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), che, quando reso nel contesto di un’impresa familiare, richiede uguale protezione.
Come si è già visto, la disciplina dell’impresa familiare – a differenza di quella dell’impresa coniugale (art. 177, primo comma, lettera d, cod. civ.), che concerne specificamente il regime patrimoniale legale della comunione dei beni tra i coniugi – mira a tutelare il lavoro “familiare”, quale fattispecie intermedia tra il lavoro subordinato vero e proprio e quello gratuito, reso “affectionis vel benevolentiae causa”. La difficoltà per il prestatore di provare la subordinazione in siffatto contesto finiva prevalentemente per attrarre la prestazione nella fattispecie del lavoro gratuito, privo di effettiva protezione.
Questa esigenza di approntare una speciale garanzia del lavoro è stata realizzata dall’art. 230-bis cod. civ., secondo la scelta del legislatore della riforma del diritto di famiglia del 1975, con un ampio raggio di applicazione perché abbraccia non solo il coniuge e gli stretti congiunti dell’imprenditore, ma anche tutti i parenti fino al terzo grado e gli affini fino al secondo grado secondo l’elencazione contenuta nel terzo comma della disposizione; elencazione alla quale deve ritenersi che si siano aggiunti, nel 2016, i soggetti legati da unioni civili.
Ma anche il convivente more uxorio versa nella stessa situazione in cui l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito. Si smarrisce così l’effettività della protezione del lavoro del convivente che, in termini fattuali, non differisce da quello del lavoro familiare prestato da chi è legato all’imprenditore da un rapporto di coniugio, parentela o affinità.
È vero che successivamente il legislatore ha posto rimedio – solo parzialmente e in termini ingiustificatamente discriminatori – a questa carenza quando, nell’istituire le unioni civili, ha introdotto una fattispecie dimidiata di partecipazione all’impresa familiare del convivente di fatto (art. 230-ter cod. civ.).
A differenza delle unioni civili, questa esigenza di garanzia del lavoro reso nell’impresa familiare sussisteva già prima in presenza di convivenze di fatto che richiedevano la stessa tutela di questo diritto fondamentale. La protezione del lavoro del convivente di fatto doveva essere la stessa di quella del coniuge e non poteva essere inferiore a quella riconosciuta finanche all’affine di secondo grado che prestasse la sua attività lavorativa nell’impresa familiare.
Risulta pertanto la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.). Anche l’art. 3 Cost. risulta violato «non per la sua portata eguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente» (sentenza n. 213 del 2016), ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma posta a tutela del diritto al lavoro che va riconosciuto quale strumento di realizzazione della dignità di ogni persona, sia come singolo che quale componente della comunità, a partire da quella familiare (ancora, art. 2 Cost.).
12.– La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata va operata inserendo il convivente di fatto dell’imprenditore nell’elenco dei soggetti legittimati a partecipare all’impresa familiare di cui al terzo comma dell’art. 230-bis cod. civ., e quindi prevedendo come impresa familiare quella cui collabora anche «il convivente di fatto».
Ai conviventi di fatto, intendendosi come tali «due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale» (art. 1, comma 36, della legge n. 76 del 2016), vanno dunque riconosciute le stesse prerogative patrimoniali e partecipative del coniuge e della persona unita civilmente all’imprenditore.
13.– Pertanto – assorbito l’esame degli ulteriori parametri evocati (art. 9 CDFUE e art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 12 CEDU) – si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto».
14.– L’ampliamento della tutela apprestata dall’art. 230-bis cod. civ. al convivente di fatto per effetto della predetta pronuncia di illegittimità costituzionale fa sì che la previsione dell’art. 230-ter cod. civ. avrebbe oggi il significato non più di apprestare per quest’ultimo una garanzia prima non prevista, come nell’intendimento del legislatore del 2016, bensì quella di restringere – ingiustificatamente e in modo discriminatorio (in violazione dell’art. 3, primo comma, Cost.) – la più ampia tutela qui riconosciuta; un abbassamento di protezione che viola il diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), oltre che il diritto alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.).
Pertanto, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa in via consequenziale all’art. 230-ter cod. civ., che attribuisce al convivente di fatto una tutela dimidiata dal mancato riconoscimento del lavoro «nella famiglia», del diritto al mantenimento, del diritto di prelazione nonché dei diritti partecipativi, e quindi significativamente più ridotta rispetto a quella che consegue all’accoglimento della questione sollevata in riferimento all’art. 230-bis cod. civ.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto»;
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter cod. civ.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 4 luglio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2024
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA