È irragionevole e non conforme al principio di proporzionalità far discendere in via automatica il rigetto dell’istanza di emersione del lavoratore straniero irregolare da una precedente condanna per un reato di lieve entità, anziché dall’accertamento in concreto della sua attuale pericolosità.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 43 del 19 marzo 2024, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’articolo 103, comma 10, lett. c), del decreto-legge n. 34 del 2020 nella parte in cui include fra i reati che comportano l’automatica esclusione dalla procedura di emersione del lavoro irregolare la previa condanna per il cosiddetto piccolo spaccio di cui all’art. 73, comma 5, del T.u. Stupefacenti (DPR 309/1990).
La Corte ricorda come il Legislatore abbia definitoo il reato di piccolo spaccio come un illecito di ridotta offensività, il quale rientra fra i reati per i quali opera l’arresto facoltativo in flagranza, vale a dire la regola utilizzata dallo stesso legislatore (all’art. 103, comma 10, lett. d), del decreto-legge n. 34 del 2020) per richiamare reati di minore gravità, ai quali non viene applicato il citato automatismo.
I giudici della Consulta evidenziano che una condanna per tale reato non costituisce un indice univoco di persistente pericolosità, permettendo così la possibilità che un individuo, considerando vari fattori come il tempo trascorso dalla condanna, la pena espiata, eventuali percorsi rieducativi seguiti e la condotta successiva, possa non rappresentare più un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza.
L’automatismo, quindii, non è coerente con la stessa finalità della legge introdotta nel corso dell’emergenza pandemica e volta a favorire l'integrazione lavorativa e sociale di individui che, nonostante la loro posizione irregolare, hanno contribuito significativamente alla comunità in un periodo di crisi.
Si apre dunque una nuova prospettiva per i lavoratori stranieri che in passato sono stati condannati per il reato di piccolo spaccio: la loro esclusione dalle procedure di emersione del lavoro irregolare sarà subordinata all'accertamento in concreto della loro attuale pericolosità per l'ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato, come previsto dall'art. 103, comma 10, lett. d), del decreto-legge n. 34 del 2020.
SENTENZA N. 43
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 10, lettera c), del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, nel procedimento vertente tra S. B. S. e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 14 febbraio 2023, iscritta al n. 65 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nella camera di consiglio del 6 febbraio 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;
deliberato nella camera di consiglio del 6 febbraio 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 febbraio 2023, iscritta al n. 65 del registro ordinanze 2023, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 10, lettera c), del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, nella parte in cui fa derivare il rigetto automatico della istanza di regolarizzazione del lavoratore straniero dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza di condanna, anche non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), senza prevedere che la pubblica amministrazione debba accertare che l’istante rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone.
1.1.– Il rimettente riferisce che, in data 12 agosto 2020, A. R. K., in qualità di datore di lavoro, presentava telematicamente un’istanza di emersione del lavoro irregolare, ai sensi dell’art. 103, comma 1, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, concernente S. B. S., cittadino indiano entrato in Italia nel 2003. A seguito di detta istanza, in data 30 novembre 2021, i due sottoscrivevano, presso lo sportello unico per l’immigrazione, un contratto di soggiorno per lavoro subordinato domestico.
La Prefettura di Novara, verificato che S. B. S. aveva riportato, nel 2008 e nel 2009, due condanne per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, comunicava agli interessati l’avvio del procedimento di cui all’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, che si concludeva, il 1° agosto 2022, con un provvedimento dello sportello unico per l’immigrazione di annullamento del citato contratto di lavoro e di rigetto dell’istanza di emersione del lavoro irregolare.
1.2.– Il rimettente riporta che, in data 26 ottobre 2022, S. B. S. ha proposto, avverso tale provvedimento, ricorso dinanzi al TAR Piemonte.
A sostegno dell’impugnativa, il ricorrente ha articolato un unico motivo di censura, con il quale ha contestato la mancata valutazione in concreto da parte della Prefettura della sua pericolosità sociale, sulla base di quanto già affermato da questa Corte con la sentenza n. 172 del 2012. In particolare, nel ricorso viene segnalato – secondo quanto riporta il rimettente – come tale pronuncia, pur con riferimento a una diversa fattispecie di emersione del lavoro irregolare, abbia già ritenuto costituzionalmente illegittimo «far derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla pronuncia […] di condanna per uno dei reati [di cui al]l’art. 381 c.p.p. […], senza prevedere che la Pubblica Amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato».
Il giudice a quo riferisce, di seguito, che si è costituito in giudizio il Ministero dell’interno, il quale ha chiesto il rigetto del ricorso, rilevando come l’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, contempli in maniera espressa, tra le condizioni automaticamente ostative alla regolarizzazione, la condanna per i reati in materia di stupefacenti. Pertanto, sarebbe stata impropriamente richiamata – secondo il Ministero – la citata sentenza.
2.– Il TAR Piemonte ha, dunque, sollevato dinanzi a questa Corte, nei termini enunciati in apertura, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU.
2.1.– Ad avviso del rimettente, le questioni sarebbero anzitutto rilevanti.
Risulterebbe incontestato sia che lo straniero richiedente ha riportato condanne per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, sia che tale fattispecie rientra tra «i reati inerenti agli stupefacenti», espressamente menzionati dalla disposizione censurata fra le cause automaticamente ostative all’ammissione dei cittadini stranieri alle procedure di cui ai commi 1 e 2 del citato art. 103.
In mancanza della decisione sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate, il giudice a quo dovrebbe dunque rigettare il ricorso, non essendo percorribile una interpretazione adeguatrice a Costituzione che «colliderebbe frontalmente con il dato letterale e sistematico» della disposizione censurata.
2.2.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il rimettente ripercorre, anzitutto, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale riguardante la fattispecie di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, che sarebbe andata progressivamente acquisendo, per effetto di ripetuti interventi legislativi e dei conseguenti adeguamenti giurisprudenziali, la natura di fattispecie di reato autonoma «espressiva di una carica di disvalore vieppiù contenuto» rispetto alla fattispecie-base di cui al comma 1 dello stesso art. 73.
Inoltre, il rimettente ricorda l’evoluzione giurisprudenziale di questa Corte «in ordine al meccanismo degli automatismi legali e alla logica presuntiva insita in essi». A tal riguardo, rammenta la sentenza n. 172 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di un’altra disciplina concernente l’emersione del lavoro irregolare – contenuta nell’art. 1-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini e della partecipazione italiana a missioni internazionali), convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102 – censurando l’automatismo che essa, al comma 13, prevedeva in caso di condanne riportate dallo straniero per uno dei reati previsti dall’art. 381 cod. proc. pen.
Muovendo dai citati passaggi motivazionali, il rimettente argomenta le due censure di illegittimità costituzionale.
2.2.1.– In primo luogo, ritiene che la previsione censurata, nel far derivare in via di automatismo il rigetto dell’istanza di regolarizzazione e del permesso di soggiorno per ragioni di lavoro dalla previa condanna per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, sarebbe contraria ai canoni della ragionevolezza e della proporzionalità, di cui all’art. 3 Cost.
Tra la fattispecie del cosiddetto piccolo spaccio e gli altri reati inerenti agli stupefacenti vi sarebbe, infatti, un ampio iato sanzionatorio, che si rifletterebbe, sul piano processuale, nella espressa esclusione, rispetto ai delitti in materia di stupefacenti, del solo reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dalle ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato (art. 380, comma 2, lettera h, cod. proc. pen.).
Ne deriverebbe la palese irragionevolezza della persistente omologazione, nell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, di un reato di ridotta offensività a reati gravi, con l’effetto di generalizzare «una presunzione assoluta di pericolosità sociale che non necessariamente trov[erebbe] corrispondenza nell’id quod plerumque accidit».
A causa delle precedenti condanne per un reato che l’ordinamento reputa di ridotta offensività, il richiedente vedrebbe proiettato a proprio danno «un cono di effetti inibitori illimitato e perpetuo, a nulla rilevando la risalenza nel tempo e […] la storia personale dello straniero successivamente alla regolare espiazione della propria pena».
In tal modo, sarebbe violato anche il canone di proporzionalità, avendo il legislatore previsto una misura che, «pur perseguendo efficacemente la salvaguardia degli interessi pubblici alla sicurezza dello Stato e all’ordine pubblico», rifiuta un approccio ispirato a maggior gradualità, «in guisa di affidare all’apprezzamento discrezionale della pubblica amministrazione titolare del potere la valutazione della pericolosità concreta del soggetto richiedente».
2.2.2.– In secondo luogo, il TAR Piemonte argomenta il contrasto della disciplina censurata con l’art. 117, primo comma, Cost., relativamente all’art. 8 CEDU.
Il rimettente richiama, in proposito, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, al fine di garantire il rispetto della vita privata e familiare degli stranieri soggiornanti nei Paesi aderenti alla CEDU, censura le misure nazionali che fanno derivare in via automatica dalla commissione di reati il diniego di soggiorno e l’espulsione dello straniero, senza consentire un’adeguata ponderazione del carattere necessario di simili misure rispetto all’obiettivo di perseguire pubblici interessi in una società democratica.
2.3.– In conclusione, il giudice a quo ritiene che la fattispecie di reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 debba essere espunta dal novero dei reati ostativi all’emersione del lavoro irregolare espressamente elencati dalla lettera c), del comma 10, dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito.
Da ciò deriverebbe una attrazione della condanna per tale reato nell’alveo della lettera d), del medesimo comma dell’articolo citato, che consentirebbe di valutare in concreto se la richiesta di emersione comporti una attuale minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza, assumendo «quale indice di pericolosità dello straniero […] la sussistenza di eventuali condanne per uno dei reati di cui all’art. 381 c.p.p.», ai quali si ascrive anche quello di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
3.1.– In rito, la difesa statale ha chiesto a questa Corte di valutare la possibilità di una restituzione degli atti al giudice a quo, in quanto, nell’intervallo di tempo trascorso tra l’ordinanza di rimessione e la trattazione delle odierne questioni, è intervenuta la sentenza n. 88 del 2023, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui condizionava il rinnovo del permesso di soggiorno in favore dello straniero all’assenza di condanne per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, lo ius superveniens rappresentato dalla sentenza n. 88 del 2023 giustificherebbe una restituzione degli atti al giudice a quo, atteso lo «spiccato parallelismo» tra la norma oggi censurata e quella dichiarata costituzionalmente illegittima.
3.2.– Nel merito, la difesa statale sostiene la non fondatezza delle questioni sollevate.
Da un lato, la disciplina dettata dall’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, sarebbe connotata da forti tratti di straordinarietà, che contribuirebbero a escludere la fondatezza delle censure poste in riferimento all’art. 3 Cost.
Da un altro lato, la giurisprudenza della Corte EDU sul rispetto della vita privata degli stranieri in relazione a procedimenti che determinino, in via diretta o indiretta, l’allontanamento dal territorio nazionale, lascerebbe agli Stati membri ampi margini di apprezzamento, il che escluderebbe il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
3.3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha successivamente depositato, in data 15 gennaio 2024, una memoria integrativa, con la quale ha reiterato le eccezioni già formulate, aggiungendo a sostegno della propria posizione la sentenza di questa Corte n. 209 del 2023, anch’essa resa su una questione avente a oggetto l’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito.
Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, tale ultima pronuncia avrebbe riconosciuto l’eccezionalità della disciplina di emersione del lavoro irregolare contenuta nell’art. 103 e avrebbe ribadito che ogni disciplina di regolarizzazione esprimerebbe una propria specificità, rimessa alla discrezionalità del legislatore.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 14 febbraio 2023, iscritta al n. 65 del registro ordinanze 2023, il TAR Piemonte, sezione prima, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, nella parte in cui fa derivare il rigetto automatico dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore straniero dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza di condanna, anche non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, senza prevedere che la pubblica amministrazione debba accertare che l’istante rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone.
1.1.– Il rimettente è chiamato a decidere sul ricorso di un cittadino straniero avverso il provvedimento di annullamento di un contratto di soggiorno per lavoro subordinato domestico e della relativa istanza di emersione del lavoro irregolare, motivato con la duplice condanna riportata dal ricorrente nel 2008 e nel 2009 per il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 (che sanziona la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope di lieve entità: cosiddetto piccolo spaccio).
Il TAR Piemonte, preso atto che l’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, nel prevedere casi di esclusione automatica dalle procedure di regolarizzazione, ricomprende anche il piccolo spaccio attraverso il riferimento ai «reati inerenti agli stupefacenti», ritiene di dover rigettare il ricorso, qualora non siano accolte le questioni di legittimità costituzionale che solleva.
1.2.– Motivata la rilevanza delle questioni, il giudice a quo argomenta la loro non manifesta infondatezza.
Il TAR Piemonte lamenta, in primo luogo, la violazione dell’art. 3 Cost. per contrasto con i canoni di ragionevolezza e proporzionalità. La disposizione censurata si avvarrebbe, a fini ostativi, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale «che non necessariamente trov[erebbe] corrispondenza nell’id quod plerumque accidit». Inoltre, la previsione violerebbe il principio di proporzionalità, in quanto non sarebbe ispirata a un criterio di gradualità, che imporrebbe di affidare «all’apprezzamento discrezionale della pubblica amministrazione […] la valutazione della pericolosità concreta del soggetto richiedente».
In secondo luogo, a giudizio del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza convenzionale. Quest’ultima, al fine di garantire il rispetto della vita privata e familiare degli stranieri soggiornanti nei Paesi aderenti alla CEDU, censura le misure nazionali che fanno derivare in via di automatismo dalla commissione di reati il diniego di soggiorno e l’espulsione dello straniero, senza consentire un’adeguata ponderazione del carattere necessario di simili misure rispetto al fine di perseguire pubblici interessi in una società democratica.
2.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale, prima ancora di argomentare la non fondatezza delle questioni sollevate, ha chiesto di valutare la restituzione degli atti al giudice a quo, essendo nel frattempo intervenuta la sentenza di questa Corte n. 88 del 2023, con cui è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una norma che denoterebbe uno «spiccato parallelismo» rispetto alla previsione censurata nell’odierno giudizio.
3.– Questa Corte esclude di dover restituire gli atti al giudice rimettente.
La sentenza n. 88 del 2023 ha dichiarato costituzionalmente illegittima una diversa norma, recata da una disposizione differente rispetto a quella su cui si appuntano le censure in esame.
La norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 88 del 2023, pur stabilendo una condizione ostativa identica a quella oggetto delle questioni poste nel presente giudizio, nondimeno riguarda il rinnovo del permesso di soggiorno e non l’emersione del lavoro irregolare e la possibile stipula di contratti di lavoro; inoltre, si riferisce al procedimento amministrativo disciplinato dagli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998 e non a quello regolato dal censurato art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito.
Tanto appare sufficiente a escludere una incidenza in via diretta del dictum contenuto nella sentenza n. 88 del 2023 sulle odierne censure.
4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.
5.– La norma censurata si colloca nell’ambito di una disciplina (recata dal d.l. n. 34 del 2020, come convertito), vòlta a introdurre «misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19».
Fra le misure previste, l’art. 103 delinea, per alcuni settori economici (comma 3 dell’articolo citato), tre procedure riguardanti l’emersione del lavoro irregolare e la possibile stipula di nuovi contratti di lavoro con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale.
Le prime due procedure, regolate al comma 1 del citato art. 103, operano su impulso del datore di lavoro, il quale può presentare istanza «per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri», oppure «per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri». Tali previsioni, ove fanno riferimento ai cittadini stranieri, riguardano solo quelli che, oltre a dover essere presenti nel territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020 e a dover essere rimasti nel territorio dopo quella data, devono essere stati sottoposti, prima dell’8 marzo 2020, «a rilievi fotodattiloscopici ovvero […] devono aver soggiornato in Italia […], in forza della dichiarazione di presenza, resa ai sensi della legge 28 maggio 2007, n. 68 o di attestazioni costituite da documentazione di data certa proveniente da organismi pubblici». In tali ipotesi, lo sportello unico per l’immigrazione – se non sussistono ragioni ostative – «convoca le parti per la stipula del contratto di soggiorno, per la comunicazione obbligatoria di assunzione e la compilazione della richiesta del permesso di soggiorno per lavoro subordinato» (comma 15).
La terza procedura – di cui all’art. 103, comma 2 – attribuisce, invece, ai cittadini stranieri un permesso di lavoro temporaneo della durata di sei mesi, suscettibile di essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro se lo straniero, nel corso dei sei mesi, «esibisce un contratto di lavoro subordinato ovvero la documentazione retributiva e previdenziale comprovante lo svolgimento dell’attività lavorativa in conformità alle previsioni di legge nei settori di cui al comma 3». La citata procedura si rivolge solo ai cittadini stranieri che, oltre a «risultare presenti sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020, senza che se ne siano allontanati dalla medesima data», devono altresì essere stati in possesso di un permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, e «aver svolto attività di lavoro, nei settori di cui al comma 3, antecedentemente al 31 ottobre 2019, comprovata secondo le modalità di cui al comma 16».
L’accesso alle procedure di cui ai commi 1 e 2 dell’indicato art. 103 non è, tuttavia, consentito ai «cittadini stranieri», aspiranti al contratto di lavoro o lavoratori irregolari, che si trovino nelle situazioni delineate al comma 10 del medesimo art. 103.
In particolare, la lettera c) del comma 10 indica, quale ipotesi di esclusione automatica dalle procedure appena richiamate, quella in cui lo straniero abbia riportato una condanna, anche non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., «per uno dei reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale» o per talune tipologie di reati, che sono espressamente menzionati: «i delitti contro la libertà personale ovvero […] i reati inerenti agli stupefacenti, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o […] reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite».
Un secondo gruppo di ipotesi è, invece, individuato dalla successiva lettera d), che inibisce ai cittadini stranieri l’ammissione alle citate procedure solo se, in concreto, siano reputati «una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza» sulla base di un accertamento «della pericolosità » che tiene conto «anche di eventuali condanne […] per uno dei reati previsti dall’articolo 381 del codice di procedura penale».
Il giudice rimettente lamenta che, nel raggio applicativo dell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, sia stato ricompreso il reato di piccolo spaccio, che andrebbe invece attratto nell’alveo della lettera d), in quanto illecito di limitata gravità al quale, fra l’altro, trova applicazione l’arresto facoltativo in flagranza ex art. 381 cod. proc. pen.
6.– La tecnica normativa adottata dal comma 10, lettera c), dell’art. 103 del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, nell’affiancare – sulla falsariga di quanto già previsto dall’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato – a un paradigma evocativo della gravità di taluni reati (quelli per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, ai sensi dell’art. 380 cod. proc. pen.) un criterio di identificazione tipologica di ulteriori illeciti penali, finisce in effetti per ricomprendere, con la categoria dei «reati inerenti agli stupefacenti», anche una condotta – quella che integra gli estremi dell’illecito di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 – che lo stesso legislatore disegna con i tratti di una ridotta offensività.
6.1.– Simile reato, che un tempo costituiva una fattispecie attenuata rispetto al reato-base di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope, si delinea oggi quale illecito autonomo (sentenze n. 88 del 2023 e n. 223 del 2022) che, «per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità» (art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, nel testo sostituito, da ultimo, dall’art. 1, comma 24-ter, lettera a, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36, recante «Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n 309, nonché di impiego di medicinali», convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n. 79).
In particolare, come sottolinea la giurisprudenza di legittimità, la funzione di tale autonomo reato è quella di individuare fatti di «ridotta offensività, allo scopo di sottrarli al regime sanzionatorio previsto dall’art. 73 DPR 309/90 […] nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente ai principi sanciti dall’art. 27 Cost.» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 13 maggio 2022-29 agosto 2022, n. 31768; sezioni unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n. 51063).
Il legislatore, dunque, ha disegnato il reato di piccolo spaccio con tratti di ridotta offensività, che segnano la sua marcata distanza dalle altre fattispecie di reato «inerenti agli stupefacenti».
6.2.– A tale considerazione deve poi aggiungersi che la stessa disposizione censurata – l’art. 103, comma 10, lettera c) – adotta, fra gli indici idonei a fondare la presunzione iuris et de iure di pericolosità, anche quello della condanna per reati che comportano l’obbligo di arresto in flagranza, ai sensi dell’art. 380 cod. proc. pen.; previsione che, nel caso del reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, non trova applicazione.
L’art. 380 cod. proc. pen. – che, a sua volta, individua i reati più gravi cui riferire l’arresto obbligatorio in flagranza adottando sia il criterio della gravità della sanzione sia quello tipologico – esclude, infatti, espressamente (al comma 2, lettera h), dalla categoria dei reati concernenti sostanze stupefacenti e psicotrope, la previsione di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, per la quale opera l’arresto in flagranza facoltativo, ai sensi dell’art. 381, comma 1, cod. proc. pen., trattandosi di un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni.
In sostanza, al reato di piccolo spaccio si applica proprio quella disciplina dell’art. 381 cod. proc. pen., di cui si avvale l’art. 103, comma 10, lettera d), per attrarre i reati rispetto ai quali l’avvenuta condanna può essere adottata solo come indice di pericolosità da accertare in concreto, e non da presumere in astratto.
7.– Quanto appena illustrato evidenzia come il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 – sia per come viene concepito dal legislatore nel sistema, sia per come si rapporta all’indice di pericolosità connesso all’arresto in flagranza – denoti una limitata offensività che contrasta in maniera sensibile con la presunzione assoluta di pericolosità, tanto più in quanto comporta l’automatica esclusione da procedure che consentono di addivenire alla regolarizzazione del rapporto di lavoro o alla stipula del contratto di lavoro.
7.1.– Questa Corte ha già in passato chiarito che le presunzioni assolute «violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali ovvero “se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”» (sentenza n. 253 del 2019, che richiama sul punto la sentenza n. 57 del 2013). Si disvela, dunque, una irragionevolezza della «presunzione assoluta tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (ex plurimis, sentenza n. 213 del 2013, nello stesso senso, sentenze n. 202 e n. 57 del 2013)» (sentenza n. 88 del 2023).
Ebbene, la norma oggetto dell’odierna censura associa alla condanna per un reato di lieve entità una presunzione assoluta di pericolosità che inibisce la possibilità stessa di verificare in concreto se lo straniero continui o meno a rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza, al momento in cui viene presentata l’istanza di accesso alle procedure di cui all’art. 103, commi 1 e 2, del d.l. n. 34 del 2020, come convertito.
Sennonché questo contraddice l’id quod plerumque accidit, poiché, con riguardo a un reato di ridotta offensività, ben può desumersi la non pericolosità attuale di chi in passato ha subito per tale reato una condanna da una combinazione di indici che tengano conto: del tempo trascorso dal momento della condanna, dell’avvenuta espiazione della pena, del percorso rieducativo eventualmente seguito, del comportamento tenuto successivamente alla condanna e di ulteriori eventuali fattori ritenuti idonei (sentenze n. 88 del 2023, n. 202 del 2013 e n. 172 del 2012).
L’irragionevolezza manifesta sottesa alla citata presunzione assoluta si dimostra tanto più evidente, in quanto determina l’automatica esclusione dalle procedure di cui all’art. 103, commi 1 e 2, di cittadini stranieri che, attraverso l’emersione del lavoro irregolare e la stipula di contratti di lavoro, possono acquisire tutti i diritti riconosciuti al lavoratore dal nostro ordinamento.
La scelta di «subordinare la regolarizzazione del rapporto di lavoro al fatto che la permanenza nel territorio dello Stato non sia di pregiudizio ad alcuno degli interessi coinvolti dalla disciplina dell’immigrazione […] deve costituire il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento degli stessi, soprattutto quando sia suscettibile di incidere sul godimento dei diritti fondamentali dei quali è titolare anche lo straniero extracomunitario (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010), posto che la condizione giuridica dello straniero non deve essere “considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati o peggiorativi” (sentenza n. 245 del 2011)» (sentenza n. 172 del 2012).
7.2.– L’automatismo previsto, con riferimento al reato di piccolo spaccio, dall’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, non solo vìola in maniera manifesta il principio di ragionevolezza, ma contrasta altresì con quello della proporzionalità, poiché inibisce l’accesso alle procedure di emersione del lavoro irregolare e di stipula di contratti di lavoro, quando in concreto può non sussistere alcuna minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza.
L’estromissione assoluta di chi sia stato condannato per il piccolo spaccio dalle procedure di emersione e di conclusione di contratti di lavoro – stante la ridotta gravità di tale reato che non può di per sé escludere la dimostrazione della cessata pericolosità – esorbita dallo scopo di negare l’accesso a chi si dimostri una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza. A tal fine, infatti, basta consentire un accertamento in concreto della pericolosità, come quello previsto dal medesimo art. 103, comma 10, lettera d), che considera la condanna per i reati meno gravi, quelli di cui all’art. 381 cod. proc. pen., «quale indice di pericolosità dello straniero» da porre a base di un accertamento da effettuare in concreto e non da postulare in astratto.
Di conseguenza, l’inquadramento del reato di piccolo spaccio nell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, vìola in maniera manifesta i principi di ragionevolezza e di proporzionalità, tradendo la stessa ratio dell’art. 103, ispirata all’istanza di favorire l’integrazione lavorativa e sociale di persone che con il proprio lavoro avevano contribuito, spesso in condizioni di carenza di tutele, (o che potevano contribuire) ad apportare significativi benefici alla comunità dei consociati nel contesto dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.
7.3.– In definitiva, pur dovendosi riconoscere alla disciplina in esame una natura speciale, rispetto alla quale «il legislatore gode di ampia discrezionalità» (sentenza n. 209 del 2023), nondimeno, la norma censurata travalica il limite della manifesta irragionevolezza e sproporzione (ancora sentenza n. 209 del 2023 e, in senso conforme, sentenze n. 88 del 2023 e n. 172 del 2012) e, pertanto, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.
8.– Resta assorbita la censura concernente la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU.
9.– Per le ragioni esposte, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 10, lettera c), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti», non esclude il reato di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
La condanna per tale reato rimane nell’ambito di applicazione dell’art. 103, comma 10, lettera d), del d.l. n. 34 del 2020, come convertito, in quanto illecito per il quale opera la previsione di cui all’art. 381 cod. proc. pen.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 103, comma 10, lettera c), del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, nella parte in cui, nel prevedere i «reati inerenti agli stupefacenti», non esclude il reato di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 febbraio 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Emanuela NAVARRETTA, Redattrice
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 19 marzo 2024
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA