La previsione dell’automatica rimozione del magistrato condannato a una pena detentiva non sospesa è costituzionalmente illegittima.
Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 51 depositata il 28 marzo 2024, accogliendo una questione sollevata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione.
Nel caso di specie, un magistrato era stato condannato, con sentenza passata in giudicato, alla pena non sospesa della reclusione di due anni e quattro mesi per avere apposto – con il consenso della presidente del collegio di cui era componente – la firma apocrifa della presidente stessa in tre provvedimenti giurisdizionali. il Consiglio superiore della magistratura aveva quindi applicato al magistrato la sanzione disciplinare della rimozione.
Le Sezioni Unite della Cassazione, investite della questione, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 109 del 2006, nella parte in cui prevedeva la rimozione di un magistrato dall'ordine giuridico in maniera automatica, senza lasciare spazio a valutazioni individuali o alla gravità del reato commesso.
La Corte costituzionale ha ricoordato che, secondo la propria costante giurisprudenza:
La norma in questione contrasta con questi principi poiché ricollega la sola sanzione della rimozione alla condanna per qualsiasi reato, purché la pena inflitta dal giudice penale superasse una certa soglia quantitativa, finendo così per spogliare il CSM di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione da applicare nel caso concreto.
Nella vicenda in esame, la Corte ha sottolineato l'impossibilità, sotto la norma precedente, di valutare la proporzionalità della sanzione rispetto al reato commesso, osservando che non tutti i reati che comportano condanne detentive non sospese dovrebbero necessariamente condurre alla rimozione. La Corte ha riconosciuto che, in determinate circostanze, sanzioni disciplinari meno severe possono essere considerate adeguate, specialmente se il reato non compromette la capacità del magistrato di svolgere le proprie funzioni.
La Consulta ha infine chiarito che il CSM ha la discrezionalità di stabilire la sanzione più adeguata, che può ancora essere la rimozione, ma solo dopo aver valutato attentamente se il reato commesso rifletta una completa inidoneità del magistrato a esercitare le proprie funzioni. In altre parole, la decisione apre la strada a un approccio più maturo e riflessivo, che considera la complessità delle singole situazioni anziché affidarsi a una regola indiscriminata.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 51 del 28/03/2024
SENTENZA N. 51
ANNO 2024
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», promosso dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, nel procedimento disciplinare a carico di F. L., con ordinanza del 18 settembre 2023, iscritta al n. 143 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visti l’atto di costituzione di F. L., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 marzo 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi gli avvocati Massimo Luciani e Patrizio Ivo D’Andrea per F. L. e l’avvocato dello Stato Paola Maria Zerman per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 6 marzo 2024.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 18 settembre 2023, la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», in riferimento agli artt. 3, 97, 105 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, «nella parte in cui dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso codice, senza prevedere che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria».
1.1.– Le Sezioni unite rimettenti sono investite del ricorso avverso la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura del 22 dicembre 2022, n. 186.
Più in particolare, riferisce il giudice a quo:
– che il magistrato in questione era stato sottoposto a procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006 in relazione alla pendenza, nei suoi confronti, di un procedimento penale per concorso in abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio e falso in atto pubblico aggravato ai sensi dell’art. 476, secondo comma, del codice penale;
– che il procedimento disciplinare era stato sospeso per pregiudizialità del processo penale;
– che, in esito a giudizio abbreviato, il magistrato era stato assolto dalle prime due imputazioni, ed era stato invece condannato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, per avere egli apposto, con il consenso della presidente del collegio di cui era componente, la firma apocrifa della presidente stessa in calce a tre provvedimenti giurisdizionali;
– che la sentenza era stata integralmente confermata in appello e poi dalla Corte di cassazione, sezione quinta penale, con sentenza 23 novembre 2021-24 marzo 2022, n. 10671.
Conclusosi il procedimento penale, la Sezione disciplinare del CSM, con la sentenza impugnata nel giudizio a quo, aveva dichiarato il magistrato colpevole per le medesime condotte, applicandogli la sanzione disciplinare della rimozione, come previsto dalla disposizione censurata.
1.2.– In punto di rilevanza, osserva il giudice rimettente che se il comma 5 dell’art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006 fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, da tale illegittimità dovrebbe derivare la cassazione della sentenza della Sezione disciplinare. Infatti, «escluso l’automatismo sanzionatorio di cui all’indicata norma, la pronuncia andrebbe riformata per violazione degli artt. 4 e 12 del medesimo decreto legislativo per non avere il Collegio dell’Organo di governo autonomo scelto con la dovuta discrezionalità la risposta al fatto contestato sulla base del giudizio di proporzionalità e appropriatezza tipico del procedimento disciplinare».
Una tale considerazione, secondo il rimettente, non sarebbe inficiata dal passaggio motivazionale contenuto nella sentenza della Sezione disciplinare, in cui si afferma che la gravità delle condotte oggetto di incolpazione «avrebbe reso necessaria la sanzione estrema della rimozione anche ove mai, per avventura, la sanzione penale comminata fosse stata mantenuta al di sotto del minimo oltrepassato il quale l’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 impone la conseguenza della rimozione». Una tale argomentazione avrebbe infatti un carattere meramente ipotetico, non essendo dubbio che la sanzione sia stata irrogata ai sensi dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, e costituendo dunque l’automatismo stabilito dalla disposizione censurata «elemento condizionante ed ineludibile della motivazione della sentenza, così da relegare al campo delle ipotesi le ulteriori considerazioni che seguono una logica differente, presupponente una (inesistente) graduabilità delle sanzioni».
1.3.– Le Sezioni unite rimettenti dubitano della compatibilità della disposizione censurata con gli artt. 3, 97, 105 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU.
1.3.1.– Escluso il dubbio di legittimità costituzionale, sollevato dalla difesa del ricorrente, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 CEDU (per non potersi considerare la sanzione disciplinare impugnata come di natura punitiva), non manifestamente infondato pare, invece, al giudice a quo il dubbio di costituzionalità relativo all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU.
Osserva il rimettente che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, talune ingerenze nella vita lavorativa – come il licenziamento, la retrocessione, il diniego di accesso a una professione – rientrano nell’ambito di applicazione della nozione di vita privata di cui all’art. 8 CEDU (sono citate Corte EDU, grande camera, sentenze 25 settembre 2018, Denisov contro Ucraina e 17 dicembre 2020, Mile Novakovic contro Croazia). Rammenta, inoltre, che nell’adempiere gli obblighi positivi e negativi imposti dall’art. 8 CEDU, ciascuno Stato deve trovare un giusto equilibrio tra i concorrenti interessi generali e quelli dei singoli, nell’ambito del margine di apprezzamento che gli è riconosciuto, e nel rispetto di «un principio di proporzionalità tra la misura [contestata] e lo scopo perseguito», oltreché di una procedura decisionale equa.
Il giudice a quo ritiene indubbio che, nel caso in esame, le conseguenze derivanti dall’automatica rimozione siano «inevitabilmente incidenti sulla vita privata del ricorrente, rimasto senza lavoro quando non aveva ancora compiuto sessanta anni (e, dunque, un’età che, da un lato, non consente di accedere al trattamento pensionistico e, dall’altro, rende del tutto illusoria la possibilità di intraprendere altra professione, diversa da quella oggetto della rimozione)». D’altra parte, la mancanza di un’alternativa concreta alla rimozione, pur essendo ricollegata ad una condanna penale, contrasterebbe «con i principi di gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare che soli garantiscono, nell’ottica della Corte europea, una reazione adeguata al pur legittimo fine perseguito». In effetti, la semplice deduzione, in via presuntiva, della proporzionalità della sanzione disciplinare dall’esistenza di una condanna penale sovrapporrebbe indebitamente il piano punitivo statuale e quello disciplinare; e ciò sarebbe «tanto più evidente se si considera che la norma in questione non specifica neppure quali siano i fatti penalmente rilevanti in relazione ai quali la prevista condanna determina la automatica rimozione del magistrato, introducendo così, di fatto, una interdizione dai pubblici uffici non prevista dal legislatore penale». Dunque, l’automatismo censurato, «precludendo all’Organo di governo autonomo la possibilità di una graduazione della sanzione da applicare in rapporto al caso concreto, integr[erebbe] la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del principio di proporzionalità tra la misura e lo scopo perseguito».
1.3.2.– Il rimettente ritiene poi dubbia la compatibilità della disposizione censurata con gli artt. 3 e 105 Cost.
Il giudice a quo sottolinea gli elementi che differenzierebbero la disciplina ora all’esame rispetto a quella oggetto della sentenza n. 197 del 2018 di questa Corte. In quell’occasione si controverteva, infatti, della sanzione fissa della rimozione per chi fosse ritenuto responsabile dal giudice disciplinare di un preciso illecito, anch’esso di natura disciplinare. Il riferimento sarebbe stato dunque all’individuazione di una precisa «species facti». Ora invece si dubita della legittimità costituzionale di un automatismo legato al sopravvenire di una condanna ad una pena superiore a un certo quantum: sicché la disciplina censurata non indicherebbe una vera e propria species facti, ma si limiterebbe a individuare una «species poenae». E ciò nonostante «l’eterogeneità delle situazioni di fatto che, in astratto, potrebbero rientrare nell’ambito della suddetta previsione».
A fronte di tale eterogeneità, «comprensiva anche di condotte estranee ai profili dell’imparzialità e della terzietà dell’amministrazione della giustizia», non sarebbe rimessa alla Sezione disciplinare alcuna possibilità di graduazione, non potendosi considerare utile, a tale fine, la previsione contenuta nell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, secondo la quale «[l]’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza». Questa disposizione, pur essendo stata ritenuta dalla giurisprudenza applicabile anche all’illecito di cui all’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, non consentirebbe al giudice disciplinare di operare una vera a propria graduazione, lasciandogli soltanto «l’alternativa tra escludere l’illecito per scarsa rilevanza del fatto o irrogare la sanzione della rimozione»: «o tutto o niente», insomma, «senza possibilità di articolazioni intermedie».
Si tratterebbe, allora, di una situazione simile a quella scrutinata da questa Corte nella sentenza n. 170 del 2015, nella quale si è ravvisato un vulnus ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza «in presenza di un sistema punitivo fondato sull’automatismo ed assolutamente disattento alla consistenza e gravità delle singole svariate condotte», pur a fronte di un «ventaglio eccessivamente ampio (e non omogeneo) di presupposti ai quali è collegata la sanzione automatica». Come ribadito in quella sentenza, il principio di eguaglianza – e quello di proporzione che ne deriva – presupporrebbe invece «che la valutazione del giudice debba avvenire “in concreto”, tenendo conto dei comportamenti posti in essere nel commettere l’illecito, per cui sarebbero “tendenzialmente” illegittime le sanzioni rigide, vale a dire, quelle che sono applicate prescindendo da una verifica di adeguatezza al caso concreto e dalla valutazione sulla gradualità applicativa».
L’eterogeneità delle condotte sanzionate non consentirebbe d’altra parte «di individuare l’idoneità della sanzione a raggiungere lo scopo di preservare la fiducia dei consociati nell’indipendenza e nell’imparzialità del sistema giudiziario, [nonché] l’inefficacia di misure meno afflittive a raggiungere il medesimo obiettivo oltre che l’insussistenza di una lesione globale dei diritti del magistrato».
La disciplina censurata impedirebbe altresì al giudice di «far emergere gli aspetti materiali del fatto, le sue circostanze, facendo in modo che dette peculiarità si riflettano sulla commisurazione della sanzione, che sarà “giusta” solo ove adeguata al fatto, tenuto conto di tutta una serie di elementi che devono essere oggetto di valutazione da parte del giudice».
L’automatismo censurato introdurrebbe «nella sostanza una interdizione dai pubblici uffici ulteriore rispetto a quella specificamente ipotizzata (quoad delicta) dal legislatore penale, il che, anche sotto tale profilo, determina un vulnus quanto alla previa individuazione delle conseguenze derivanti dalla commissione di un determinato reato». Si tratterebbe, più in particolare, di una «presunzione assoluta di incompatibilità con il rapporto di servizio in ragione dell’intervenuta condanna penale»: presunzione che potrebbe considerarsi costituzionalmente legittima soltanto ove non sia agevole, come invece nel caso ora all’esame, formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione stessa (sono citate la sentenza n. 268 del 2016 di questa Corte e le altre pronunce ivi richiamate).
La rimozione quale sanzione conseguente a condanna in sede penale potrebbe, allora, essere considerata costituzionalmente legittima solo ove risultasse «comunque conservato in capo all’Organo disciplinare il potere-dovere della valutazione discrezionale in ordine alla proporzionale graduazione della misura da applicare al caso concreto».
1.3.3.– La disposizione censurata violerebbe anche l’art. 97 Cost., «in rapporto all’interesse dell’Amministrazione di privarsi di un magistrato a fronte di una condotta che, grave dal punto di vista della reazione punitiva statuale, potrebbe non esserlo se valutata in termini di offensività del fatto, con riferimento sia alla lesione dell’interesse specifico tutelato dall’illecito disciplinare, sia alla compromissione dell’immagine del magistrato e del prestigio di cui deve godere nell’esercizio dell’attività giurisdizionale». L’automatismo descritto dalla disposizione censurata si tradurrebbe allora anche in una violazione dell’art. 97 Cost., poiché realizzerebbe «una eterogenesi dei fini cui la disposizione costituzionale è preordinata».
1.3.4.– Sottolinea infine il rimettente che la possibilità di accedere alle misure alternative potrebbe scongiurare l’espiazione in carcere della pena, di talché non sussisterebbe necessariamente una preclusione oggettiva alla prosecuzione del rapporto di lavoro pur in presenza di una sentenza di condanna non sospesa.
2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.
2.1.– In via preliminare, l’interveniente prospetta l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza.
Il passaggio motivazionale contenuto nella sentenza della Sezione disciplinare, in cui si afferma che la gravità delle condotte oggetto di incolpazione avrebbe reso necessaria la sanzione estrema della rimozione anche ove fosse stata inflitta una pena inferiore alla soglia oltre la quale tale sanzione scatta automaticamente, costituirebbe infatti non un’argomentazione ipotetica – come affermato dal rimettente – bensì una motivazione subordinata o alternativa. Di conseguenza, la questione risulterebbe «formulata in termini astratti, al solo scopo di aggredire una norma che, anche ove rimossa, non muterebbe l’esito del giudizio nel quale è sollevata la questione».
2.2.– Nel merito, la questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU non sarebbe fondata.
Pur non contestando l’applicabilità della norma convenzionale anche ad avvenimenti della vita lavorativa, l’interveniente osserva che la Corte EDU avrebbe chiarito come l’art. 8 CEDU non possa essere invocato quando l’effetto negativo sulla vita privata sia costituito da una conseguenza prevedibile delle proprie azioni, come ad esempio la commissione di un reato o, comunque, quando gli effetti negativi lamentati si limitino alle conseguenze prevedibili del comportamento illecito (sono citate: sentenza 27 luglio 2004, Sidabras e Džiautas contro Lituania; sentenza 7 febbraio 2012, Axel Springer AG contro Germania; sentenza 3 aprile 2012, Gillberg contro Svezia; sentenza Denisov).
2.3.– Non fondata dovrebbe ritenersi anche la questione relativa alla violazione dell’art. 97 Cost. L’interesse dell’amministrazione, infatti, non potrebbe in alcun modo venire in considerazione nell’ambito dell’applicazione di una sanzione disciplinare. Anzi, proprio nel combinato disposto degli artt. 97 e 54 Cost. – che impongono, da un lato, alla pubblica amministrazione di agire secondo principi di imparzialità e buon andamento e, dall’altro, ai funzionari pubblici di agire con onore – l’automatismo sanzionatorio troverebbe una espressa legittimazione costituzionale a fronte di una condanna a pena detentiva non sospesa per un fatto illecito doloso.
2.4.– Parimenti non fondate sarebbero le questioni relative agli artt. 3 e 105 Cost.
Pur riconoscendo, in via generale, l’illegittimità costituzionale degli automatismi sanzionatori a seguito di condanna penale nel procedimento disciplinare, l’interveniente sostiene che tale principio non sia assoluto, e che esso possa cedere a fronte della preminenza di interessi collettivi in relazione al ruolo svolto dal dipendente pubblico e alla peculiarità e delicatezza dei compiti a lui assegnati (è citata la sentenza di questa Corte n. 112 del 2014). Sarebbe questo anche il caso del magistrato, come questa Corte avrebbe affermato nella sentenza n. 197 del 2018 con riferimento ad un illecito disciplinare, ma con un ragionamento che dovrebbe valere a fortiori per la commissione di un reato. «Coerenza logica e giuridica, oltre che necessità di salvaguardare il rigore di un’istituzione fondamentale della società, fanno ritenere sufficienti per l’interessato le garanzie processuali offerte nell’ambito del processo penale, nell’ambito dei tre gradi di giudizio, al punto da non ritenersi non solo ultronea ma anche intrinsecamente contraddittoria la previsione di un ulteriore passaggio presso l’organo disciplinare», la cui valutazione rischierebbe così di porsi in contrasto con quella del giudice penale.
In ogni caso, la disposizione censurata tutelerebbe il magistrato «da eventuali derive giustizialiste», subordinando la rimozione alla commissione di un delitto doloso e alla pena inflitta superiore a un anno non condizionalmente sospesa. La valutazione del giudice penale in ordine ai requisiti di cui agli artt. 163 e 164 cod. pen., allora, costituirebbe un’ulteriore garanzia: essa infatti presupporrebbe «una valutazione da parte di un collega del Giudice incriminato, che, ben consapevole delle conseguenze sul piano personale, professionale e disciplinare, abbia ritenuto sussistere tutti gli elementi per negare all’interessato la sospensione della pena». Di conseguenza, consentire al CSM di irrogare una sanzione disciplinare meno severa della rimozione comporterebbe un’evidente deminutio della valutazione del giudice penale. E, inoltre, «[a]pplicare sanzioni meno gravi della rimozione nonostante la previsione del giudice penale del pericolo di reiterazione del reato comprometterebbe irrimediabilmente la fiducia dei consociati nell’amministrazione della giustizia da parte di un organo terzo ed imparziale».
3.– Il magistrato incolpato si è costituito in giudizio a mezzo dei propri difensori, i quali nell’atto di costituzione hanno insistito per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, confutando poi – nella memoria depositata in prossimità dell’udienza – le eccezioni dell’Avvocatura generale dello Stato.
3.1.– La difesa replica, innanzi tutto, all’eccezione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per difetto di rilevanza. Osserva che spetta alle Sezioni unite rimettenti, nella loro funzione di scrutinio della decisione della Sezione disciplinare del CSM, vagliare il contenuto di tale pronuncia e trarne le opportune conclusioni. Il rimettente avrebbe chiarito, motivando esaurientemente sul punto, il carattere meramente ipotetico delle affermazioni della Sezione disciplinare; d’altronde, osserva la parte, «il giudice decide tota lege perspecta: nella specie, dunque, la Sezione disciplinare ha ragionato come ha ragionato perché la norma sull’automatismo faceva parte della normativa perspecta e diversamente avrebbe fatto se quella norma non fosse stata una componente del suo patrimonio di regole da applicare».
La parte rammenta, inoltre, come la giurisprudenza di questa Corte ribadisca costantemente che la rilevanza si configura come necessità di applicare la disposizione censurata nell’iter che conduce alla decisione del giudizio principale (sono citate le sentenze n. 253, n. 194, n. 31, n. 30 e n. 13 del 2022; n. 202 e n. 15 del 2021).
3.2.– La pretesa non fondatezza della questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU deriverebbe, secondo la parte, da una parziale e fuorviante ricostruzione, da parte dell’Avvocatura generale dello Stato, della giurisprudenza della Corte EDU sul punto. Più in particolare, tale giurisprudenza si riferirebbe a casi in cui l’art. 8 CEDU è stato ritenuto inapplicabile in ragione di una mera condanna a pena detentiva (è citata la sentenza Gillberg). Nel caso di specie, invece, non si contesterebbe la legittimità, al metro della Convenzione, della condanna penale in sé, bensì di un effetto ulteriore ed esterno – la condanna in sede disciplinare – che si tradurrebbe in difetto di proporzionalità. Gli effetti ulteriori ed indiretti rispetto alla condanna in sede penale ben potrebbero, allora, rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU e determinarne una violazione (sono citate: sentenza Denisov; sentenza 28 maggio 2020, Evers contro Germania; sentenza 14 ottobre 2021, M.L. contro Slovacchia; sentenza 28 giugno 2018, M.L. e W.W. contro Germania; sentenza 27 giugno 2017, Jankauskas contro Lituania (No. 2)).
3.3.– Apodittico sarebbe, poi, l’iter argomentativo che conduce l’interveniente a negare che vi sia una violazione dell’art. 97 Cost. Poiché non tutte le condotte idonee ad arrecare nocumento all’immagine della magistratura sono sanzionate con la rimozione, sarebbe evidente l’esigenza di infliggere la sanzione più grave solo a coloro che abbiano irrimediabilmente compromesso l’immagine di terzietà e imparzialità della magistratura, anche nell’interesse generale e oggettivo della collettività.
3.4.– Prive di pregio dovrebbero, infine, ritenersi le osservazioni volte a negare la paventata violazione degli artt. 3 e 105 Cost.
Innanzi tutto, inconferente sarebbe il paragone con la sentenza n. 112 del 2014 di questa Corte, che riguarderebbe una fattispecie concreta radicalmente diversa e ben più grave rispetto a quella oggetto dell’odierna questione di legittimità costituzionale. Né sarebbe maggiormente conferente riferirsi alla sentenza n. 197 del 2018 per ritenere non fondato, a fortiori, il dubbio di costituzionalità, poiché pure quel caso non potrebbe paragonarsi a quello di specie: si trattava infatti di un illecito disciplinare (e, dunque, di una fattispecie in cui giudice era, anche per l’accertamento dell’an della responsabilità, la Sezione disciplinare del CSM), corrispondente ad un ben definito comportamento, certamente carico di disvalore.
In secondo luogo, non fondata sarebbe anche la considerazione – svolta dall’Avvocatura generale dello Stato – che la ragionevolezza della sanzione sarebbe assicurata dalla possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena, e che la sua mancata concessione sarebbe frutto di una prognosi di pericolosità operata dal giudice penale. Da un lato, la mancata concessione della sospensione condizionale potrebbe derivare, come nel caso di specie, dal superamento del tetto di legge di due anni stabilito per l’operatività dell’istituto; dall’altro, tale mancata concessione non discenderebbe necessariamente da un giudizio di pericolosità sociale. Né tale pericolosità potrebbe desumersi, senza alcuna concreta valutazione del giudice, dall’inflizione di una pena di entità superiore a due anni di reclusione. Niente affatto ultronea e contraddittoria sarebbe, allora, l’ulteriore valutazione demandata al CSM, volta ad apprezzare la rilevanza disciplinare della condotta, nel rispetto degli artt. 105 e 106 Cost.
Infine, si osserva come il magistrato incolpato stia scontando la pena inflittagli con le modalità di cui all’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Tale considerazione sarebbe rilevante sotto un duplice profilo: dimostrerebbe, intanto, l’esistenza in astratto della possibilità di non scontare la pena in carcere, in assenza di una prognosi di pericolosità del condannato, diversa e ulteriore rispetto alla sospensione condizionale della pena; ed evidenzierebbe, in concreto, l’insussistenza di tale pericolosità con riferimento all’odierno incolpato. Il positivo esito dell’affidamento in prova, d’altra parte, estinguerebbe la pena detentiva e ogni altro effetto penale: con ciò evidenziandosi, ancora, in astratto l’irragionevolezza di consentire l’estinzione del reato e degli effetti penali della condanna, ma non dell’effetto extrapenale maggiormente incisivo sulla vita del condannato; e in concreto, l’assenza di pericolosità del magistrato incolpato, e la sua idoneità a continuare a svolgere le proprie funzioni.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 97, 105 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, «nella parte in cui dispone che si applica la sanzione della rimozione al magistrato che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso codice, senza prevedere che sia comunque rimessa all’Organo di governo autonomo la valutazione concreta della offensività della condotta al fine di una eventuale graduazione della misura sanzionatoria».
Il d.lgs. n. 109 del 2006 prevede, all’art. 5, sei diverse sanzioni disciplinari, di gravità crescente, a carico del magistrato che viola i suoi doveri: l’ammonimento, la censura, la perdita dell’anzianità, l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, la sospensione dalle funzioni da tre mesi a due anni, e infine la rimozione. Ove non diversamente stabilito, la Sezione disciplinare è libera di scegliere, tra tutte queste sanzioni, quella più adeguata alla gravità dell’illecito di cui il magistrato sia ritenuto responsabile.
L’art. 12 del d.lgs. n. 109 del 2006 prevede poi una serie di regole che limitano la discrezionalità della Sezione disciplinare del CSM nella selezione delle sanzioni, imponendo l’adozione di una sanzione minima, di gravità progressiva, nelle ipotesi di illecito previste nei commi da 1 a 4. Il comma 5, in questa sede censurato, vincola invece la stessa Sezione ad irrogare la rimozione in tre distinte ipotesi:
– quella in cui il magistrato sia stato condannato in sede disciplinare per i fatti previsti dall’art. 3, comma 1, lettera e), dello stesso d.lgs. n. 109 del 2006;
– quella in cui il magistrato incorra nella interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici in seguito a condanna penale;
– quella in cui il magistrato incorra «in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
La prima di tali ipotesi è stata oggetto della sentenza n. 197 del 2018, che ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale allora sollevate dalla Sezione disciplinare del CSM in riferimento all’art. 3 Cost.
Sulla terza ipotesi si appuntano ora i dubbi di legittimità costituzionale delle Sezioni unite della Corte di cassazione, adite da un magistrato nei cui confronti la Sezione disciplinare del CSM ha già applicato la sanzione della rimozione, in conseguenza di una sua precedente condanna, in sede penale, a due anni e quattro mesi di reclusione: condanna non suscettibile di sospensione condizionale, in quanto superiore al limite massimo previsto dall’art. 163 cod. pen.
Le Sezioni unite rimettenti assumono, in sintesi, che l’automatismo stabilito dal segmento normativo censurato violi i parametri costituzionali menzionati, vincolando la Sezione disciplinare del CSM alla rimozione del magistrato e impedendole, così, di graduare la sanzione, in modo da assicurarne la proporzionalità rispetto alla concreta gravità dell’illecito.
2.– Le questioni sono ammissibili.
Non è fondata, in particolare, l’eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato secondo cui le questioni sarebbero irrilevanti, avendo la Sezione disciplinare del CSM affermato che la gravità delle condotte addebitate al magistrato incolpato ne renderebbe comunque necessaria la rimozione, anche laddove la pena a lui inflitta si fosse mantenuta al di sotto del limite oltre il quale tale sanzione disciplinare è imposta dalla disposizione censurata; affermazione dalla quale si evincerebbe che l’esito del giudizio non muterebbe, anche laddove le odierne questioni fossero accolte.
L’eccezione non coglie nel segno, per l’assorbente ragione che il giudizio a quo rispetto al quale deve vagliarsi la rilevanza delle questioni non è il giudizio disciplinare, come pare ritenere l’Avvocatura generale, bensì quello di cassazione. Rispetto a quest’ultimo, le Sezioni unite hanno già preannunciato – sulla base di ampia argomentazione, che certamente supera il vaglio di non implausibilità operato da questa Corte (da ultimo, sentenza n. 22 del 2024) – che la sentenza impugnata dovrà essere annullata, laddove la disposizione censurata sia dichiarata costituzionalmente illegittima, sì da consentire alla Sezione disciplinare del CSM – una volta rimosso l’automatismo normativo – una nuova valutazione sulla sanzione disciplinare più appropriata da applicare al magistrato incolpato.
Il che dimostra la rilevanza delle questioni prospettate.
3.– La questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.
3.1.– Nella menzionata sentenza n. 197 del 2018, si è affermato che «alcune almeno delle garanzie che, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, circondano la pena in senso stretto non si applicano, o si applicano con un maggior grado di flessibilità, alla sfera delle sanzioni disciplinari. Oltre che a logiche punitive e deterrenti comuni alle pene, tali sanzioni possono legittimamente rispondere, quanto meno nei casi concernenti pubblici funzionari cui sono affidati compiti essenziali a garanzia dello Stato di diritto, anche alla finalità di assicurare la definitiva cessazione dal servizio di persone dimostratesi non idonee, o non più idonee, all’assolvimento dei propri doveri» (punto 11 del Considerato in diritto). E si è aggiunto che in particolare i magistrati, «ai quali è affidata in ultima istanza la tutela dei diritti di ogni consociato», proprio «per tale ragione sono tenuti – più di ogni altra categoria di funzionari pubblici – non solo a conformare oggettivamente la propria condotta ai più rigorosi standard di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio nell’esercizio delle funzioni, secondo quanto prescritto dall’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006, ma anche ad apparire indipendenti e imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni. E ciò per evitare di minare, con la propria condotta, la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario, che è valore essenziale per il funzionamento dello Stato di diritto» (punto 9 del Considerato in diritto).
Fermi tali principi, che costituiscono lo sfondo sul quale deve essere decisa anche la questione ora all’esame di questa Corte, vanno subito evidenziati gli elementi che la distinguono rispetto a quella esaminata con la sentenza n. 197 del 2018.
Il segmento dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 109 del 2006 allora censurato stabilisce la sola sanzione della rimozione nel caso in cui il magistrato sia stato ritenuto responsabile – dalla stessa Sezione disciplinare – di un illecito disciplinare, puntualmente tipizzato dall’art. 3, comma 1, lettera e), dello stesso decreto legislativo come il fatto di «ottenere, direttamente o indirettamente, per sé o per altri, prestiti o agevolazioni da soggetti che il magistrato sa essere parti o indagati in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario di appartenenza o presso altro ufficio che si trovi nel distretto di Corte d’appello nel quale esercita le funzioni giudiziarie, ovvero dai difensori di costoro, nonché ottenere, direttamente o indirettamente, prestiti o agevolazioni, a condizioni di eccezionale favore, da parti offese o testimoni o comunque da soggetti coinvolti in detti procedimenti».
Nel caso ora all’esame, invece, la previsione dell’unica sanzione disciplinare della rimozione discende dalla circostanza che il magistrato sia stato in precedenza condannato in via definitiva per qualsiasi reato, per il quale – però – il giudice penale gli abbia inflitto una pena detentiva non sospesa di durata superiore all’anno (ovvero nel caso in cui la sospensione condizionale, concessa al magistrato in sede di condanna, sia stata in seguito revocata).
3.2.– Questa Corte non ha mai, sinora, esaminato la legittimità costituzionale di una disposizione che preveda, come quella ora all’esame, un vincolo alla discrezionalità della Sezione disciplinare del CSM nella scelta della sanzione applicabile a un magistrato che abbia subito una condanna in sede penale.
Numerose sentenze di questa Corte hanno però ritenuto in contrasto, tra l’altro, con l’art. 3 Cost. disposizioni che prevedevano l’automatica destituzione di altri pubblici dipendenti, ovvero l’automatica cancellazione di professionisti dall’albo, in conseguenza della loro condanna in sede penale per determinati reati.
3.2.1.– Già la sentenza n. 971 del 1988 aveva colpito la previsione della destituzione di diritto degli impiegati civili dello Stato e dei dipendenti degli enti locali della Regione Siciliana a seguito di condanna per taluni delitti. «L’indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria» – si era affermato in quell’occasione – «importa […] che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost.» (punto 3 del Considerato in diritto).
Poco dopo, in relazione ai notai, la sentenza n. 40 del 1990 affermò essere «indispensabile che il “principio di proporzione” che è alla base della razionalità che domina il “principio di eguaglianza”, regoli sempre l’adeguatezza della sanzione al caso concreto». Conseguentemente, essa dichiarò costituzionalmente illegittimo l’«automatismo di un’unica massima sanzione [la destituzione], prevista indifferentemente per l’infinita serie di situazioni che stanno nell’area della commissione di uno stesso pur grave reato». Automatismo che si ritenne non potesse «reggere il confronto con il principio di eguaglianza che, come esige lo stesso trattamento per identiche situazioni, postula un trattamento differenziato per situazioni diverse» (punto 3 del Considerato in diritto).
Identica ratio decidendi si riscontra:
– nella sentenza n. 158 del 1990, relativa alla radiazione automatica dei dottori commercialisti;
– nella sentenza n. 16 del 1991, concernente la destituzione di diritto del dipendente regionale;
– nella sentenza n. 197 del 1993, sulla destituzione di diritto del personale dipendente delle amministrazioni pubbliche a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per taluni reati, ovvero della definitività del provvedimento applicativo di una misura di prevenzione per appartenenza ad associazione di tipo mafioso;
– nella sentenza n. 2 del 1999, in materia di radiazione automatica dall’albo dei ragionieri e periti commerciali.
In epoca più recente, rispetto al personale militare, la sentenza n. 268 del 2016 (riprendendo e approfondendo principi già espressi nella precedente sentenza n. 363 del 1996) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disciplina che non prevedeva l’instaurazione del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici irrogata dal giudice penale. «[A] causa dell’ampiezza dei presupposti a cui viene collegata l’automatica cessazione dal servizio», si è in questa occasione osservato, «le disposizioni impugnate non possono validamente fondare, in tutti i casi in esse ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneità o indegnità morale o, tanto meno, di pericolosità dell’interessato, tale da giustificare una sanzione disciplinare così grave come la perdita del grado con conseguente cessazione dal servizio. L’automatica interruzione del rapporto di impiego è, infatti, suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalità di casi, rispetto ai quali è agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito» (punto 6.4. del Considerato in diritto).
3.2.2.– Rispetto a questo altrimenti compatto panorama, la sola sentenza n. 112 del 2014 ha rigettato le censure formulate in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. a proposito di una disciplina che prevedeva, per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, la destituzione di diritto quale conseguenza automatica dell’applicazione di una misura di sicurezza personale da parte del giudice penale. Decisiva nella valutazione di questa Corte è stata qui la circostanza che l’applicazione di una misura di sicurezza presuppone un accertamento individualizzato, da parte del giudice penale, della pericolosità sociale dell’interessato, e cioè (in base all’art. 203 cod. pen.) della probabilità che egli commetta nuovi reati; probabilità ritenuta ex se incompatibile con la speciale delicatezza dei compiti del personale della polizia, la cui funzione essenziale è proprio quella di prevenire e reprimere reati.
Non rappresenta invece un’eccezione rispetto alle linee essenziali della giurisprudenza sin qui illustrata la sentenza n. 234 del 2015, che ha escluso l’illegittimità costituzionale di una disposizione che vietava la riabilitazione del notaio già destituito a seguito di condanna per una serie di reati. Come chiarito dalla pronuncia, la destituzione è disposta soltanto in ragione di un ponderato e discrezionale apprezzamento dell’organo disciplinare, impugnabile in sede giurisdizionale, relativo alla necessità di precludere al notaio l’ulteriore esercizio della professione, alla luce anche di una valutazione – compiuta direttamente dall’organo disciplinare stesso – della gravità dei fatti di reato per il quale è stato condannato in sede penale. La sanzione disciplinare prevista dalla disposizione censurata, dunque, non poteva ritenersi indifferente ai profili peculiari del caso di specie, ma era al contrario calibrata con riferimento ad essi ed applicata dall’organo disciplinare solo in ipotesi estreme e senza alcun automatismo, ben potendosi nel procedimento disciplinare applicare una sanzione meno gravosa.
3.3.– Dal quadro giurisprudenziale sin qui tracciato si ricavano due principi essenziali che, ai fini dello scrutinio in esame, vanno posti in correlazione tra loro: un requisito generale di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla gravità della condotta (infra, punto 3.3.1.), e l’autonomia della valutazione in sede disciplinare rispetto a quella del giudice penale, fatta salva la vincolatività di quanto accertato in fatto nel giudizio penale (infra, punto 3.3.2.).
3.3.1.– Quanto alla proporzionalità della sanzione disciplinare, il requisito può, normalmente, essere soddisfatto soltanto da una valutazione individualizzata della gravità dell’illecito, alla quale la risposta sanzionatoria deve essere calibrata (su questo corollario del principio di proporzionalità rispetto a ogni tipologia di sanzione, sentenza n. 112 del 2019, punto 8.1.4. del Considerato in diritto, nonché – in materia penale – sentenza n. 197 del 2023, punti 5.2.1. e 5.5.1. del Considerato in diritto). Le sanzioni fisse sono, per contro, tendenzialmente in contrasto con questo principio, a meno che – come questa Corte ha ritenuto nel caso deciso con la sentenza n. 197 del 2018 (punto 8 del Considerato in diritto) – esse risultino non manifestamente sproporzionate rispetto all’intera gamma dei comportamenti riconducibili alla fattispecie astratta dell’illecito sanzionato (ancora in materia penale, sentenze n. 195 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto; n. 94 del 2023, punto 13 del Considerato in diritto; n. 222 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto; nonché, in materia di sanzioni amministrative, sentenze n. 40 del 2023, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 266 del 2022, punto 5.4.3. del Considerato in diritto; n. 185 del 2021, punto 6 del Considerato in diritto).
Al di fuori di questa ipotesi, che presuppone un certo grado di omogeneità della fattispecie astratta sotto il profilo della gravità delle condotte a essa riconducibili, il corollario dell’individualizzazione della sanzione esige una gradualità della risposta, affinché essa possa risultare adeguata al concreto disvalore della condotta.
3.3.2.– Dalla giurisprudenza citata si evince, inoltre, l’idea della centralità della valutazione discrezionale dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione che a tale organo compete: valutazione che questa Corte ha sinora ritenuto non possa mai essere in toto pretermessa, per essere semplicemente surrogata da quella del giudice penale. E ciò specie quando si tratta di applicare sanzioni disciplinari definitive come la destituzione o la cancellazione dall’albo professionale (salvo che nel caso – del tutto peculiare – deciso dalla sentenza n. 112 del 2014, di cui si è detto supra, punto 3.2.2.).
Il significato della riserva di uno spazio autonomo di valutazione all’organo disciplinare pur a fronte di una condanna penale è, d’altronde, chiaro: spetta a quest’ultimo apprezzare non già la (generica) gravità dell’illecito commesso, ma – più specificamente – la significatività di tale illecito rispetto al giudizio di persistente idoneità dell’interessato a svolgere le proprie funzioni o la propria professione.
3.4.– È dunque alla luce di questi principi che deve essere vagliata la disposizione oggi all’esame di questa Corte.
3.4.1.– Sotto il profilo della necessaria proporzionalità della sanzione (supra, punto 3.3.1.), la disciplina censurata ricollega l’applicazione automatica della rimozione alla irrogazione nei suoi confronti, da parte del giudice penale, di una pena detentiva non sospesa di durata superiore ad un anno. Come osserva efficacemente il giudice a quo, l’automatismo è qui ancorato non già a una «species facti», bensì a una mera «species poenae».
Un tale meccanismo rende strutturalmente impossibile a questa Corte compiere la valutazione di proporzionalità della previsione sanzionatoria, che si impone – secondo la giurisprudenza appena passata in rassegna – anche laddove il legislatore preveda una sanzione fissa per una determinata fattispecie di illecito: fattispecie qui definita semplicemente dall’ammontare della pena inflitta (e dalla sua mancata sospensione condizionale, ovvero dalla revoca della stessa) nell’ambito del giudizio penale. Affinché una siffatta sanzione fissa – in quanto tale “indiziata” di illegittimità costituzionale (da ultimo, sentenza n. 195 del 2023, punto 6.1. del Considerato in diritto) – possa superare indenne lo scrutinio da parte di questa Corte, occorrerebbe infatti dimostrare che la sanzione della rimozione – la più grave tra quelle previste nel sistema degli illeciti disciplinari dei magistrati – risulti proporzionata rispetto all’intera gamma dei comportamenti tipizzati. Comportamenti che, però, la fattispecie di illecito disciplinare qui sanzionata non indica in alcun modo, e che potrebbero anzi essere i più diversi, a differenza di quanto accadeva rispetto alla fattispecie di illecito esaminata nella sentenza n. 197 del 2018.
Sotto questo profilo dunque – come parimenti osserva il rimettente – la disciplina oggi all’esame è simile a quella scrutinata da questa Corte nella sentenza n. 170 del 2015, in cui è stata ritenuta costituzionalmente illegittima la previsione dell’obbligatorio trasferimento del magistrato ad altra sede o ufficio nell’ipotesi di una sua condanna per l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, integrato dall’aver tenuto un comportamento che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, e di rispetto della dignità della persona, arrechi ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti. Fattispecie astratta, quest’ultima, che questa Corte ha ritenuto essere comprensiva di condotte di disvalore concreto assai eterogeneo, non necessariamente indicative dell’incompatibilità del magistrato interessato a continuare a svolgere le proprie funzioni nel medesimo ufficio.
3.4.2.– Quanto, poi, alla necessaria centralità della valutazione dell’organo disciplinare nell’irrogazione della sanzione (supra, punto 3.3.2.), la dispozione oggi censurata finisce, in pratica, per spogliare la Sezione disciplinare del CSM di ogni margine di apprezzamento sulla sanzione disciplinare da applicare (che il legislatore individua nella sola rimozione).
In questa situazione, non solo l’an ma anche il quomodo della responsabilità disciplinare sono interamente determinati dalla previa decisione del giudice penale: al cui orizzonte conoscitivo e valutativo resta, però, del tutto estranea la questione se possa considerarsi proporzionata, rispetto allo specifico fascio di interessi di cui si fa carico la responsabilità disciplinare, la successiva sanzione della rimozione del magistrato, che – pure – discenderà automaticamente dalla condanna da lui pronunciata.
Emblematico delle conseguenze provocate dalla rigidità della disposizione censurata è il caso concreto oggetto del giudizio a quo, nel quale il giudice penale è addivenuto all’irrogazione di una pena così severa senza che, come è ovvio, gli sia stato possibile considerare l’effetto che il quantum di pena inflitta avrebbe, indefettibilmente, prodotto nel successivo procedimento disciplinare.
A fronte dell’entità delle ripercussioni che l’espulsione definitiva dall’ordine giudiziario è suscettibile di produrre sui diritti fondamentali, e sull’esistenza stessa, della persona interessata, è invece necessario che il giudice disciplinare sia posto in condizioni di valutare la proporzionalità di una tale sanzione rispetto al reato da questi commesso, dal peculiare angolo visuale della eventuale inidoneità del magistrato a continuare a svolgere le proprie funzioni. E ciò anche in relazione alle esigenze di salvaguardia del prestigio dell’ordine giudiziario, e della conseguente necessità di mantenere la fiducia dei consociati nei suoi confronti.
Questa valutazione costituisce, anzi, il proprium del procedimento disciplinare innanzi alla Sezione disciplinare del CSM: procedimento nel quale è assicurata all’incolpato la pienezza delle garanzie difensive, ivi compreso il diritto al ricorso alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione contro la sentenza disciplinare.
Tutte queste garanzie finiscono, però, per essere svuotate di ogni significato pratico per effetto della disciplina censurata, che riserva alla Sezione disciplinare del CSM la mera adozione di conseguenze sanzionatorie automaticamente discendenti da una statuizione del giudice penale, al cui orizzonte genetico quella specifica valutazione è rimasta del tutto estranea.
Né potrebbe obiettarsi che un margine di discrezionalità alla Sezione disciplinare del CSM sarebbe comunque assicurato dalla possibilità di escludere l’illecito disciplinare quando ritenga il fatto «di scarsa rilevanza», ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006. Infatti, per quanto la giurisprudenza di legittimità non ritenga in assoluto incompatibile tale esimente con le ipotesi in cui il magistrato sia stato condannato per avere commesso un reato (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 7 agosto 2023, n. 24048 e 21 marzo 2023, n. 8034), è evidente che ben difficilmente potrà ritenersi «di scarsa rilevanza», pur nella peculiare prospettiva del giudizio disciplinare, un fatto per il quale il giudice penale abbia ritenuto congrua l’applicazione di una pena non sospesa, o comunque superiore al limite massimo entro il quale il beneficio della sospensione condizionale può essere concesso.
D’altra parte, per effetto della disciplina censurata il giudice disciplinare resta irragionevolmente vincolato all’alternativa se applicare (soltanto) la massima sanzione della rimozione, ovvero rinunciare del tutto a qualsiasi sanzione in applicazione del citato art. 3-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, pur a fronte di fatti di reato di gravità significativa, ancorché non tali da giustificare la radicale preclusione all’esercizio delle proprie funzioni da parte del magistrato. In effetti, non può in assoluto escludersi che un fatto di reato per il quale il giudice penale abbia inflitto una pena detentiva non sospesa possa essere ritenuto, sia pure in casi verosimilmente rari, meritevole di sanzioni disciplinari meno drastiche della rimozione. E ciò – come giustamente rilevato dalla difesa della parte – anche in considerazione del fatto che la mancata concessione della sospensione condizionale non deriva necessariamente da una prognosi circa la possibile commissione di nuovi reati da parte del condannato (come invece sempre accade nel caso di applicazione di una misura di sicurezza); ma può semplicemente discendere – come nel caso oggetto del giudizio a quo – dal superamento del limite di due anni di reclusione, entro il quale il beneficio può essere concesso. Ipotesi, quest’ultima, nella quale il condannato per il quale non sussista pericolo di reiterazione del reato può, in molti casi, essere ammesso ad espiare la propria pena in regime di affidamento in prova al servizio sociale, tale regime essendo di solito associato alla prescrizione di proseguire l’attività lavorativa.
Dal che non discende affatto – contrariamente a quanto ritenuto dall’Avvocatura generale dello Stato – una inammissibile «deminutio della valutazione del Giudice penale». Semplicemente, si tratta di trarre le necessarie conseguenze dalla distinzione di oggetto e di finalità tra la valutazione del giudice penale, da un lato, e quella del giudice disciplinare, dall’altro.
3.5.– In conclusione, l’automatismo stabilito dalla disciplina censurata è suscettibile di produrre, in concreto, risultati sanzionatori sproporzionati rispetto alle specifiche finalità della responsabilità disciplinare, in conseguenza dell’eterogeneità delle condotte suscettibili di essere sanzionate (supra, punto 3.4.1.) e della irragionevole sottrazione alla Sezione disciplinare di ogni potere di apprezzamento sulla inidoneità del magistrato condannato a continuare a svolgere le proprie funzioni (supra, punto 3.4.2.).
Ciò si traduce, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte poc’anzi richiamata, in una violazione dell’art. 3 Cost.
3.6.– Restano assorbite le ulteriori censure.
4.– Il rimedio appropriato alla riscontrata violazione è, ad avviso di questa Corte, la mera ablazione del segmento normativo oggetto delle censure del rimettente («o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice»).
Tale segmento individua una specifica sottofattispecie riconducibile alla fattispecie generale di illecito disciplinare di cui all’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006, che comprende tutti i «fatti per i quali è intervenuta condanna irrevocabile o è stata pronunciata sentenza ai sensi dell’articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale, per delitto doloso o preterintenzionale, quando la legge stabilisce la pena detentiva sola o congiunta alla pena pecuniaria».
Conseguentemente, il venir meno della sottofattispecie in parola determinerà la riespansione della disciplina generale applicabile all’illecito disciplinare di cui all’art. 4, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 109 del 2006: e dunque restituirà alla Sezione disciplinare la possibilità di applicare – secondo il proprio discrezionale apprezzamento – una tra le sanzioni previste dal successivo art. 5. Tra le quali, naturalmente, la stessa rimozione, laddove ritenga che il delitto per cui è stata pronunciata condanna sia effettivamente indicativo della radicale inidoneità del magistrato incolpato a continuare a svolgere le sue funzioni.
Ben potrà, poi, il legislatore modulare diversamente la disciplina sanzionatoria dell’illecito in questione, in particolare vincolando la Sezione disciplinare alla scelta di alcune soltanto delle sanzioni disciplinari previste dall’art. 5 del d.lgs. n. 109 del 2006, sulla falsariga di quanto già oggi accade per le ipotesi disciplinate dai commi da 1 a 4 dell’art. 12 del medesimo decreto. Ma una tale opzione spetterà, appunto, al legislatore, non sussistendo allo stato le condizioni indicate dalla recente giurisprudenza di questa Corte per individuare essa stessa specifiche soluzioni sanzionatorie già esistenti, destinate a sostituirsi a quelle dichiarate costituzionalmente illegittime (sentenza n. 185 del 2021, punto 7 del Considerato in diritto e precedenti ivi richiamati; nonché, da ultimo, sentenza n. 46 del 2024, punto 4.2. del Considerato in diritto).
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, recante «Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150», limitatamente alle parole «o che incorre in una condanna a pena detentiva per delitto non colposo non inferiore a un anno la cui esecuzione non sia stata sospesa, ai sensi degli articoli 163 e 164 del Codice penale o per la quale sia intervenuto provvedimento di revoca della sospensione ai sensi dell’articolo 168 dello stesso Codice».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2024.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2024
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA