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Reddito cittadinanza non può aiutare chi si rovina al gioco

Corte Costituzionale, Sentenza n.54 del 29/03/2024

In un contesto socio-economico in cui il reddito di cittadinanza (Rdc) si pone come strumento di sostegno alle fasce più vulnerabili della popolazione, emerge una questione di particolare rilevanza giuridica legata alla ludopatia.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 54 depositata il 29 marzo 2024, ha affrontato il dibattito sulla legittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 che regolano l'accesso al Rdc, in particolare per coloro che hanno subito perdite significative a seguito di attività di gioco d'azzardo.

La questione sollevata dal Tribunale di Foggia riguardava un individuo che, nonostante avesse accumulato vincite da gioco, non le aveva dichiarate al momento della richiesta del Rdc, entrando in conflitto con le normative che ne disciplinano l'erogazione. La legge, infatti, prevede la penalizzazione per l'omessa dichiarazione di tali entrate, basandosi sull'assunto che il Rdc non debba finanziare direttamente o indirettamente attività ludiche.

La Corte ha esaminato la legittimità di tale disposizione alla luce degli artt. 3 e 25 della Costituzione, giungendo alla conclusione che la normativa non viola il principio di eguaglianza né il principio di determinatezza della legge penale. La sentenza sottolinea che non è irragionevole escludere dall'accesso al Rdc le persone che, avendo avuto vincite da gioco, le hanno omesse nella loro dichiarazione redditi, poiché la ludopatia "rappresenta uno di quegli ostacoli di fatto che è compito della Repubblica rimuovere", piuttosto che compensare tramite aiuti economici.

Secondo la Corte, accettare la legittimità di un sostegno economico a chi si è impoverito giocando potrebbe risultare in un incentivo pernicioso alla ludopatia, contrariamente agli obiettivi di solidarietà pubblica e responsabilità individuale che il Rdc intende promuovere. Inoltre, la Corte chiarisce che le vincite da gioco devono essere considerate alla stregua di qualsiasi altro reddito disponibile, la cui dissipazione in attività ludiche non può giustificare l'accesso a misure di sostegno destinate a chi si trova in stato di necessità per cause indipendenti da comportamenti volontariamente rischiosi.

La conclusione della Corte costituzionale enfatizza la necessità di un approccio equilibrato tra il diritto alla solidarietà sociale e l'importanza della responsabilità individuale, negando così la possibilità di un trattamento preferenziale nel contesto del Rdc a chi si trova in difficoltà economiche a causa di scelte personali legate al gioco d'azzardo.

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SENTENZA N. 54

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia, nel procedimento penale a carico di A. D.G., con ordinanza del 29 dicembre 2022, iscritta al n. 24 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 20 febbraio 2024.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024 il Giudice relatore Luca Antonini;

deliberato nella camera di consiglio del 22 febbraio 2024.

 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 29 dicembre 2022 (reg. ord. n. 24 del 2023) il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, in riferimento agli artt. 2, 3, 25 e 27 della Costituzione.

Il giudice a quo deve decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato al quale il pubblico ministero ha contestato: a) il delitto di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in quanto, al fine di conseguire indebitamente il reddito di cittadinanza (di seguito, anche: Rdc), presentava nel marzo del 2019 la relativa domanda utilizzando una dichiarazione sostitutiva unica nella quale ometteva di dichiarare, quali informazioni dovute, le vincite al gioco conseguite negli anni 2017 e 2018, rispettivamente pari a circa 44.000,00 euro e circa 69.000,00 euro; b) il delitto di cui all’art. 7, comma 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, per avere omesso di comunicare, nel gennaio del 2020, le informazioni dovute e rilevanti ai sensi dell’art. 3, comma 11, dello stesso decreto-legge, ossia le variazioni del reddito e del patrimonio derivanti dalle vincite al gioco on line conseguite nell’anno 2019, pari a circa 160.000,00 euro.

Nella sua previsione astratta, il citato art. 7 prevede, al comma 1: «[s]alvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni» e, al comma 2: «[l]’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni».

Infine, il richiamato comma 11 dell’art. 3, dopo avere fatto obbligo al beneficiario di comunicare all’ente erogatore ogni variazione patrimoniale che comporti la perdita dei requisiti reddituali e patrimoniali stabiliti per l’accesso al Rdc, precisa che «[l]a perdita dei requisiti si verifica anche nel caso di acquisizione del possesso di somme o valori superiori» alle suddette soglie di accesso «a seguito di donazione, successione o vincite, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 5, comma 6, e deve essere comunicata entro quindici giorni dall’acquisizione».

2.– Ad avviso del giudice rimettente le questioni di legittimità costituzionale, prospettate dalla difesa dell’imputato, sarebbero rilevanti poiché la decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio dipenderebbe da quella sulla legittimità delle disposizioni censurate.

Le stesse sarebbero altresì non manifestamente infondate in riferimento ai «principi costituzionali di uguaglianza sostanziale» e «di tassatività» delle norme penali di cui, rispettivamente, agli artt. 3 e 25 Cost.

In primo luogo, l’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, non «fare[bbe] alcun riferimento [a] cosa debba essere ricompreso» nelle «altre informazioni dovute e rilevanti» ai fini della revoca o della riduzione del beneficio.

Parimenti, l’art. 3 dello stesso decreto-legge «in alcun modo indic[herebbe] le modalità con cui comunicare» all’ente erogatore le variazioni patrimoniali, tra le quali sono comprese le vincite da gioco.

Quanto a queste ultime, il giudice a quo lamenta, inoltre, che verrebbe fatto «un implicito rinvio» al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) – contenente disposizioni «ormai arcaiche e non menzionate» nel d.l. n. 4 del 2019, come convertito –, in base al quale le vincite da gioco «costituiscono reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione».

Da un lato, tale testo normativo, «piuttosto datato», non terrebbe conto dei nuovi giochi on line; dall’altro lato, nell’escludere la deduzione dalle vincite «dell’importo giocato», determinerebbe «la paradossale circostanza» che il reddito dichiarato «in sede ISEE» non sarebbe «di fatto esistente per il cittadino». Tale reddito risulterebbe «sulla carta altamente incrementato», così da «fuoriuscire […] dai parametri previsti per ottenere il sussidio statale», mentre di fatto non aumenterebbe la «ricchezza» del soggetto.

Ad avviso del rimettente, a fronte della «evidente […] disarmonia nella norma», questa «dovrebbe espressamente prevedere la revoca del beneficio allorquando[,] in concreto, siano superati i limiti di reddito previsti».

3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare la manifesta inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

3.1.– In via generale, l’ordinanza di rimessione sarebbe «totalmente lacunosa» quanto: a) alla descrizione della fattispecie; b) alle censure di costituzionalità; c) alla impossibilità di interpretare le norme censurate in modo costituzionalmente conforme; d) al petitum.

In particolare, le questioni sollevate sarebbero inammissibili anzitutto perché l’affermazione della rilevanza delle stesse si poggerebbe su una «mera clausola di stile», inidonea a comprendere le ragioni della stessa: oltre a mancare la descrizione della fattispecie, limitata al richiamo dei capi d’imputazione, l’ordinanza prospetterebbe questioni «in modo ipotetico e prematuro», non avendo chiarito se sussistevano o meno gli elementi per il rinvio a giudizio dell’imputato.

Sarebbe inoltre del tutto mancante la motivazione a sostegno della violazione dei parametri costituzionali, «evoca[ti] solo formalmente» senza che sia sviluppato alcun ragionamento sul contrasto con gli stessi. Soltanto in riferimento all’art. 25 Cost. l’ordinanza conterrebbe una «scarna motivazione», ma meramente apparente.

3.2.– Nel merito, quest’ultima censura, l’unica considerata, stante l’assenza totale di motivazione «sulle altre norme costituzionali evocate», sarebbe comunque manifestamente infondata.

Le condotte incriminate risulterebbero infatti «compiutamente definite», essendo specificamente perimetrati gli obblighi dichiarativi gravanti sul singolo interessato, definiti in funzione della ricostruzione del suo patrimonio, secondo l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). A tali fini, il legislatore avrebbe espressamente menzionato le vincite da gioco nella esemplificazione contenuta nell’art. 3, comma 11, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.

Quanto alle modalità di comunicazione, l’obbligo di aggiornamento della dichiarazione sarebbe pienamente esigibile e la dichiarazione sostitutiva unica (DSU) costituirebbe il «veicolo ordinario per la rappresentazione dei dati richiesti» al soggetto che abbia percepito vincite da gioco.

L’Avvocatura osserva poi che il giudice a quo, sebbene non censuri le disposizioni del t.u. imposte redditi, incentrerebbe in modo contraddittorio ed errato la sua motivazione «sulla mancata previsione della deduzione, dalle vincite, dei costi di giochi e scommesse, fondando le sue argomentazioni su motivi ultronei rispetto all’oggetto del giudizio».

In particolare, oltre a ritenere «quanto mai incomprensibile» l’affermazione sulla pretesa obsolescenza del t.u. imposte redditi, tuttora fonte normativa di riferimento per la disciplina delle imposte sui redditi, la difesa statale rileva che i giochi, rientrando nei contratti di scommessa, sarebbero caratterizzati dall’alea, ossia dalla situazione di incertezza circa il vantaggio economico realizzabile.

Gli argomenti del giudice rimettente sarebbero dunque errati e irrilevanti rispetto all’oggetto del giudizio, né terrebbero conto della giurisprudenza costituzionale che, con riguardo al principio di tassatività o di determinatezza della norma penale, ne escluderebbe la violazione quando il giudice possa stabilire il significato dell’elemento descrittivo «mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato» e il destinatario della norma possa avere «una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (è citata la sentenza di questa Corte n. 25 del 2019).

 

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 24 del 2023), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in riferimento agli artt. 2 e 27 Cost., nonché ai principi «di uguaglianza sostanziale» e «di tassatività» delle norme penali, di cui agli artt. 3, secondo comma, e 25 Cost.

Il rimettente deve decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio di un imputato, al quale sono contestati sia il delitto di cui al comma 1 del citato art. 7, per avere omesso di dichiarare vincite conseguite al gioco nei due anni precedenti la presentazione della domanda volta a ottenere il reddito di cittadinanza (Rdc), sia il delitto di cui al comma 2 della stessa previsione, per avere omesso di comunicare, come prescritto dal parimenti censurato art. 3, comma 11, gli importi delle vincite da gioco on line conseguite nel 2019, anno in cui egli ha percepito il beneficio del Rdc.

Entrambe le fattispecie incriminatrici violerebbero il principio di tassatività, prevedendo la punizione per l’omessa dichiarazione e comunicazione di «informazioni dovute», ma «senza fare alcun riferimento [a] cosa debba essere ricompreso» in tale locuzione. Inoltre, la disposizione di cui all’art. 7, comma 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, si porrebbe in contrasto con il suddetto principio anche perché, pur richiamando il precedente art. 3, comma 11, «in alcun modo indic[herebbe] le modalità con cui comunicare» le vincite.

Con riferimento al principio di uguaglianza sostanziale, il rimettente rileva che le disposizioni censurate rinvierebbero implicitamente alla previsione del t.u. imposte redditi secondo cui le vincite costituirebbero reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo d’imposta, senza alcuna deduzione. In tal modo, da un lato, esse non terrebbero conto delle caratteristiche dei nuovi giochi on line; dall’altro lato, nell’escludere la deduzione dalle vincite «dell’importo giocato», determinerebbero «la paradossale circostanza» che il reddito dichiarato «in sede ISEE» non sarebbe «di fatto esistente per il cittadino». Tale reddito risulterebbe «sulla carta altamente incrementato», così da «fuoriuscire […] dai parametri previsti per ottenere il sussidio statale», mentre di fatto non aumenterebbe la «ricchezza» del soggetto.

2.– In via preliminare, occorre dare conto di due interventi legislativi che hanno interessato le disposizioni censurate: l’uno, in coincidenza con il deposito dell’ordinanza di rimessione, avvenuto il 29 dicembre 2022; l’altro, a breve distanza dallo stesso.

Anzitutto, l’art. 1, comma 318, della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025), ha stabilito, nel testo originario, che «[a] decorrere dal 1° gennaio 2024 gli articoli da 1 a 13 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, sono abrogati». La prefigurata abrogazione ha quindi coinvolto anche le disposizioni sanzionatorie censurate, oltre a quelle nel complesso concernenti la istituzione e la disciplina del Rdc, di cui i commi da 313 a 318 del citato art. 1 hanno delineato una graduale cessazione, «[n]elle more di un’organica riforma delle misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva» (così il comma 313).

Le disposizioni appena richiamate sono entrate in vigore il 1° gennaio 2023, ai sensi dell’art. 21 della citata legge di bilancio.

Successivamente, il decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 (Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro), convertito, con modificazioni, nella legge 3 luglio 2023, n. 85, all’art. 1 ha previso la istituzione, «a decorrere dal 1° gennaio 2024, [del]l’Assegno di inclusione, quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro». Il successivo art. 12, al comma 1, ha anche disposto la istituzione, dal 1° settembre 2023, del «Supporto per la formazione e il lavoro quale misura di attivazione al lavoro, mediante la partecipazione a progetti di formazione, di qualificazione e riqualificazione professionale, di orientamento, di accompagnamento al lavoro e di politiche attive del lavoro comunque denominate».

Per quanto qui rileva, i commi 1 e 2 dell’art. 8 dello stesso decreto hanno configurato due fattispecie di reato che, strutturate in maniera identica a quelle oggetto delle disposizioni censurate, rispettivamente, puniscono «chiunque, al fine di ottenere indebitamente» i suddetti benefici, «rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute» (comma 1), nonché «[l]’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini del mantenimento del beneficio indicato al comma 1» (comma 2).

Inoltre, al comma 3 delle «[d]isposizioni transitorie, finali e finanziarie» recate dal successivo art. 13, è previsto che «[a]l beneficio di cui all’articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, [nella legge] 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023».

2.1.– Ciò premesso, nella specie non ricorrono i presupposti per la restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché valuti il descritto duplice ius superveniens, dovendosi escludere che quest’ultimo possa produrre effetti in mitius rispetto alle disposizioni censurate (nello stesso senso, con riferimento a modifiche sopravvenute relative a previsioni sanzionatorie amministrative di carattere sostanzialmente punitivo, sentenza n. 112 del 2019, punto 4 del Considerato in diritto).

Infatti, sotto un primo profilo, l’entrata in vigore dell’art. 1, comma 318, della legge n. 197 del 2022, avvenuta il 1° gennaio 2023, non ha prodotto alcun immediato effetto abrogativo delle disposizioni censurate, essendo stato questo espressamente rinviato dallo stesso comma «[a] decorrere dal 1° gennaio 2024», cioè a distanza di un anno.

Sotto un secondo, e più rilevante, profilo, con il suddetto art. 13, comma 3, del d.l. n. 48 del 2023, come convertito, entrato in vigore ben prima che, per effetto del richiamato art. 1, comma 318, potesse prodursi l’abrogazione (tra le altre) delle disposizioni censurate, il legislatore ha chiaramente manifestato la volontà che le condotte previste e punite dall’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, continuino a essere considerate penalmente rilevanti, escludendo dunque il prodursi di una abolitio criminis dal 1° gennaio 2024.

Tale esclusione ha trovato uniforme conferma nella giurisprudenza della Corte di cassazione, già formatasi sul punto in esame, la quale ha escluso «soluzioni di continuità» nella rilevanza penale della condotta di cui all’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, poiché la iniziale abrogazione di questa disposizione è «stata superata da una previsione di segno contrario entrata in vigore» prima che l’altra producesse il suo effetto (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 27 ottobre 2023-6 febbraio 2024, n. 5151). La stessa giurisprudenza ha parimenti escluso che la dinamica della successione delle norme «prest[i] il fianco a censure, essendo indubbiamente sorretta da una del tutto ragionevole giustificazione», dal momento che la disposizione di cui all’art. 13, comma 3, del d.l. n. 48 del 2023, come convertito, «semplicemente assicura tutela penale all’erogazione del reddito di cittadinanza, in conformità ai presupposti previsti dalla legge, sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di tale beneficio», coordinandosi con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 dello stesso decreto, espressione del «medesimo disvalore penale delle condotte di mendacio e di omessa comunicazione volte all’ottenimento o al mantenimento» dell’assegno di inclusione (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 24 gennaio-21 febbraio 2024, n. 7541 e 30 novembre 2023-6 febbraio 2024, n. 5163).

3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito plurime ragioni di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

3.1.– Innanzitutto, la rilevanza sarebbe stata motivata utilizzando una «mera clausola di stile», omettendo la descrizione della fattispecie, limitata al richiamo dei capi d’imputazione, e le questioni di legittimità costituzionale sarebbero state prospettate «in modo ipotetico e prematuro», senza chiarire se sussistessero o meno gli elementi per il rinvio a giudizio dell’imputato.

L’eccezione non è fondata, sotto entrambi i profili.

3.1.1.– I capi di imputazione riportati nell’atto introduttivo forniscono una descrizione sufficiente della fattispecie oggetto del giudizio principale, poiché, senza risolversi in una mera e generica parafrasi della disposizione incriminatrice, specificano la condotta penalmente rilevante nella omessa dichiarazione e comunicazione delle vincite derivanti da giochi on line effettuati dall’imputato, richiedente, prima, e beneficiario, poi, del reddito di cittadinanza.

Ciò consente di ritenere che le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo riguardino disposizioni che questi deve applicare, trattandosi delle previsioni sanzionatorie in cui le condotte descritte appaiono sussumibili.

3.1.2.– È anche da escludere l’eccepito carattere prematuro e ipotetico delle questioni medesime, considerato che il rimettente dà conto di trovarsi in sede di udienza preliminare e di dovere decidere sul rinvio a giudizio dell’imputato; questa valutazione dipende, infatti, da quella delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Tale motivazione sorregge in maniera essenziale e plausibile la rilevanza dei dubbi prospettati, che investono sia la formulazione della disposizione sanzionatoria, asseritamente carente nel descrivere la portata della locuzione «informazioni dovute», sia la mancata previsione, ritenuta irragionevole, della deduzione dell’importo giocato da quello delle vincite da comunicare.

Il dubbio sulla conoscibilità del precetto penalmente sanzionato e quello sulla effettiva consistenza del fatto da comunicare si inseriscono nell’iter logico-giuridico della decisione spettante al rimettente, influendo sulla valutazione sia della rappresentazione del fatto tipico da parte dell’imputato, sia della sussistenza del dolo nella omessa dichiarazione o comunicazione da quest’ultimo realizzata. L’assunto dell’Avvocatura, secondo cui l’ordinanza avrebbe dovuto chiarire se sussistevano o meno gli elementi per il rinvio a giudizio dell’imputato, si rivela quindi privo di fondamento.

Quanto allo specifico dubbio prospettato in riferimento all’art. 3 Cost., il rimettente muove invero dal presupposto che la norma sanzioni l’omessa dichiarazione e comunicazione di vincite anche quando la situazione reddituale del percettore sia rimasta di fatto inalterata per effetto degli importi giocati infruttuosamente, che non potrebbero essere dedotti dalle prime.

Sotto questo profilo, sebbene l’ordinanza non espliciti il dato delle somme giocate dall’imputato, non può per questo ritenersi il carattere ipotetico della questione sollevata.

Al riguardo l’ordinanza indica, come già si è notato, che le vincite rilevanti nel giudizio principale proverrebbero dallo svolgimento di giochi on line, così implicitamente richiamando le disposizioni che disciplinano i giochi a distanza, nel cui ambito i primi si inseriscono. In particolare, la normativa in materia consente di giocare con questa modalità solo previa registrazione telematica presso un concessionario dell’Agenzia dei monopoli e delle dogane, acquisizione di password per l’accesso a distanza e sottoscrizione di un contratto di conto di gioco nel quale sono registrate tutte le operazioni di gioco, gli importi giocati e vinti, le ricariche e i prelievi (come si ricava dall’art. 24, commi 17, lettere ceh e i, e 19, lettere cde ed f, della legge 7 luglio 2009, n. 88, recante «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2008»).

Non è, dunque, implausibile che il rimettente abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale in esame sulla base della documentazione delle movimentazioni dei conti di gioco riferibili all’imputato acquisita al procedimento penale, dalla quale egli avrebbe tratto tanto gli importi delle vincite menzionati nei capi di imputazione, quanto quelli delle giocate che, a suo avviso, andrebbero dedotte dai primi.

3.2.– Ad avviso dell’Avvocatura generale, le questioni di legittimità costituzionale sarebbero inammissibili anche perché la motivazione della non manifesta infondatezza risulterebbe del tutto mancante o comunque solo apparente.

L’eccezione è parzialmente fondata. Infatti, nonostante l’ordinanza menzioni cumulativamente, nel dispositivo, gli artt. 2, 3, 25 e 27 Cost., essa contiene una illustrazione adeguata soltanto in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost.; pertanto, le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo agli artt. 2 e 27 Cost., del tutto immotivate, sono inammissibili (ex plurimis, sentenze n. 198, n. 186 e n. 46 del 2023).

3.3.– Infine, non fondate sono le ulteriori ragioni di inammissibilità eccepite dall’Avvocatura, secondo la quale il rimettente non avrebbe chiarito, da un lato, perché le disposizioni censurate non possano interpretarsi in modo costituzionalmente conforme e, dall’altro lato, i termini del petitum.

Quanto al primo dei due profili, dagli argomenti utilizzati a sostegno delle censure emerge che il giudice a quo ha escluso motivatamente la possibilità di una interpretazione conforme e tanto basta ai fini del vaglio della rilevanza delle questioni sollevate.

Quanto al secondo profilo, la costante giurisprudenza della Corte afferma che «l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga[no] con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 136 del 2022).

Ciò è quanto ricorre nella specie, in cui il dispositivo non avanza una richiesta puntuale, limitandosi a richiamare i parametri evocati negli stessi termini prospettati dalla difesa dell’imputato e, tuttavia, gli argomenti illustrati a sostegno delle due censure sollevate conducono agevolmente a comprendere che il rimettente ambisce a vedere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, nella parte in cui utilizza l’espressione «informazioni dovute», senza chiarire quali esse siano, e in quella in cui non consente di sanzionare solo le ipotesi in cui le vincite determinino, dedotti gli importi giocati, un reddito in concreto tale da comportare la perdita del beneficio del reddito di cittadinanza.

4.– Nel merito, va esaminata per prima la radicale censura di violazione del principio di tassatività di cui all’art. 25 Cost., incentrata sull’utilizzo della locuzione «informazioni dovute», che il legislatore ha inserito nelle fattispecie incriminatrici di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, dirette a punire, rispettivamente, il mendacio e le omissioni informative commesse da chi chiede di accedere al beneficio del Rdc, nonché l’omessa comunicazione, da parte di chi ne sta usufruendo, delle variazioni reddituali e patrimoniali che determinano la perdita o la riduzione dell’importo erogato.

In materia penale, questa Corte è particolarmente attenta al rispetto dei requisiti minimi di chiarezza e precisione che debbono possedere le disposizioni incriminatrici, «in forza – in particolare – del principio di legalità e tassatività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 110 del 2023), da cui deriva un «imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di “formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati”» (sentenza n. 98 del 2021, che richiama la sentenza n. 96 del 1981).

Sottesi al principio di legalità e tassatività vi sono, infatti, due obiettivi fondamentali consistenti, «per un verso, nell’evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito; e, per un altro verso, nel garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta» (sentenza n. 327 del 2008).

Più in particolare, ai fini della verifica del rispetto del principio di tassatività di cui all’art. 25 Cost., la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che l’impiego, nella formula descrittiva dell’illecito, «di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus» del suddetto parametro costituzionale, «“quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (sentenza n. 25 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004)» (sentenza n. 141 del 2019).

4.1.– Alla luce di tali criteri, si deve escludere che le disposizioni censurate violino il principio costituzionale evocato.

Il rimettente ne prospetta il vulnus sotto due profili: a) anzitutto, perché i commi 1 e 2 del censurato art. 7 non farebbero alcun riferimento a cosa debba essere ricompreso nella locuzione «informazioni dovute» – la cui omessa dichiarazione o comunicazione è penalmente sanzionata; b) inoltre, in quanto il comma 2, nel richiamare il precedente art. 3, comma 11, e così l’obbligo di comunicare tempestivamente l’acquisizione di vincite, non indicherebbe le modalità con cui portare a conoscenza dell’ente erogatore tali variazioni.

4.1.1.– Con riguardo al primo profilo di censura rileva che, all’interno del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, il cui Capo I reca «[d]isposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza», l’art. 7 contiene la figura di reato che il legislatore ha inteso appositamente introdurre per sanzionare le condotte illecite connesse alla percezione di tale beneficio.

Pertanto, l’espressione «informazioni dovute» che compare nella descrizione della fattispecie incriminatrice, per quanto sommaria e non ulteriormente declinata in contenuti analitici, non può che collegarsi in via immediata ai requisiti previsti per l’accesso e per il godimento continuativo del Rdc, stabiliti dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.

Ai fini del presente giudizio rilevano quelli reddituali e patrimoniali, che sono declinati dalla lettera b) del suddetto comma 1 e commisurati al valore dell’ISEE.

Alla determinazione del suddetto indicatore provvede l’INPS «sulla base delle componenti autodichiarate dal dichiarante, degli elementi acquisiti dall’Agenzia delle entrate e di quelli presenti nei propri archivi amministrativi. […]», come previsto dall’art. 11, comma 4, del d.P.C.m. 5 dicembre 2013, n. 159, recante «Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)».

In particolare, ai sensi dell’art. 10, comma 1, del citato decreto, il richiedente la prestazione deve presentare un’unica dichiarazione sostitutiva (DSU) in riferimento al nucleo familiare, «concernente le informazioni necessarie per la determinazione dell’ISEE», che il successivo comma 7 indica analiticamente comprendendo, alla lettera e), alcune delle «componenti reddituali di cui all’articolo 4, comma 2, lettera b)», ossia i «redditi soggetti a imposta sostitutiva o a ritenuta a titolo d’imposta».

In tale categoria rientrano le vincite da gioco, perché il regime tributario delle stesse ne prevede la tassazione proprio mediante l’applicazione di una ritenuta a titolo d’imposta.

L’art. 67, comma 1, lettera d), t.u. imposte redditi dispone, infatti, che «[s]ono redditi diversi se non costituiscono redditi di capitale ovvero se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni o di imprese commerciali o da società in nome collettivo e in accomandita semplice, né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente: […] d) le vincite […] dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico e i premi derivanti da prove di abilità o dalla sorte […]». Ai sensi del successivo art. 69, comma 1, inoltre, le stesse vincite «costituiscono reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione». Infine, l’art. 30 (Ritenuta sui premi e sulle vincite) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), al primo comma, stabilisce che «[i] premi derivanti da operazioni a premio […] e le vincite derivanti dalla sorte, da giuochi di abilità, quelli derivanti […] da pronostici e da scommesse, corrisposti dallo Stato, da persone giuridiche pubbliche o private […], sono soggetti a una ritenuta alla fonte a titolo di imposta, con facoltà di rivalsa, con esclusione dei casi in cui altre disposizioni già prevedano l’applicazione di ritenute alla fonte […]».

Sulla base della richiamata disciplina generale dell’ISEE, il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto, all’art. 5, comma 5, che i requisiti economici di accesso al Rdc «si considerano posseduti per la durata della attestazione ISEE in vigore al momento di presentazione della domanda», mentre il comma 1, settimo periodo, della stessa disposizione chiarisce che, se il richiedente ha già reso le informazioni a fini ISEE, «il modulo di domanda rimanda alla corrispondente DSU, a cui la domanda è successivamente associata dall’INPS».

Se, invece, il richiedente il Rdc non dispone già di un ISEE attestato, all’atto della domanda del beneficio dovrà rendere contestualmente la DSU necessaria alla determinazione dell’ISEE stesso.

Da quanto fin qui esposto emerge che, nonostante una complessa serie di rimandi normativi, è comunque possibile individuare con precisione le «informazioni dovute», la cui omessa dichiarazione o comunicazione integra le fattispecie penali di cui all’art. 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito.

Le disposizioni censurate non possono dunque ritenersi, in ultima analisi, in contraddizione con il principio di tassatività; del resto, sul piano pratico, a fronte della suddetta complessità, va considerata anche la possibilità, riconosciuta dall’art. 5, comma 1, del suddetto decreto, di presentare le richieste del Rdc presso i centri di assistenza fiscale.

4.2.– Ugualmente non fondato è il secondo profilo di violazione del medesimo principio, che si appunta sulla disposizione di cui all’art. 7, comma 2, in relazione all’art. 3, comma 11, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, in quanto sarebbero oscure le modalità con cui comunicare le variazioni del reddito del beneficiario conseguenti alle vincite.

È pur vero che quest’ultima voce (vincite) è menzionata soltanto nel modello predisposto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali per le comunicazioni dei beneficiari del Rdc, ma proprio a tale modalità fa espresso riferimento l’art. 5, comma 1, dello stesso d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che ha previsto, appunto, l’approvazione di un apposito modello di comunicazione delle variazioni reddituali che avvengano durante il periodo di godimento del Rdc.

Il beneficiario del Rdc, destinatario della fattispecie incriminatrice, è dunque in grado di conoscere le modalità per informare l’INPS delle variazioni intervenute.

5.– La seconda questione di legittimità costituzionale sollevata dall’ordinanza di rimessione evoca il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che definisce «compito della Repubblica» rimuovere gli ostacoli che limitano «di fatto» – piuttosto che al solo livello dell’eguaglianza formale – «la libertà e l’eguaglianza» e impediscono «il pieno sviluppo della persona umana».

In questi termini la suggestiva prospettazione del rimettente pone in luce la situazione della persona che, pur titolare di un’importante vincita lorda, è in realtà rimasta povera, perché tale vincita non ha per nulla incrementato la sua ricchezza, una volta considerata al netto delle giocate effettuate, che per la normativa fiscale non rilevano.

La questione non è fondata.

Questa Corte, «[s]ulla scia di alcuni precedenti (sentenze n. 137, n. 126 e n. 7 del 2021)», ha precisato che «“il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale”, e che “[a] tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari”, il cui inadempimento implica la decadenza dal beneficio» (sentenza n. 34 del 2022, che richiama la sentenza n. 19 del 2022).

Risulta quindi coerente con tale natura del Rdc la previsione, contenuta nell’art. 5, comma 6, sesto periodo, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che «[a]l fine di prevenire e contrastare fenomeni di impoverimento e l’insorgenza dei disturbi da gioco d’azzardo (DGA), [ha] in ogni caso fatto divieto di utilizzo del beneficio economico per giochi che prevedono vincite in denaro o altre utilità» – norma peraltro confermata anche in riferimento all’assegno di inclusione, istituito a decorrere dal 1° gennaio 2024, in sostituzione del Rdc, dall’art. 4, comma 9, del d.l. n. 48 del 2023, come convertito.

Alla luce di tale divieto si deve escludere la violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost. prospettata dal rimettente in relazione all’art. 7, comma 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, con riguardo a persone che sono già titolari del Rdc e che utilizzano, pur senza ottenere alcuna vincita netta, il relativo beneficio economico nei suddetti giochi. Il principio di eguaglianza sostanziale, alla cui attuazione il Rdc è peraltro riconducibile, non può certo essere invocato a sostegno di una questione di legittimità costituzionale nell’interesse di chi ha travolto le regole fondamentali dell’istituto, alterandone così la natura.

L’omessa comunicazione della variazione reddituale derivante dalla vincita lorda potrebbe invero riguardare, in ipotesi, persone che utilizzano per il gioco risorse diverse da quelle percepite con il Rdc: anche in questo caso, tuttavia, non può ravvisarsi una violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost. per le stesse ragioni attinenti alla titolarità delle vincite e alla indeducibilità delle perdite, esposte qui di seguito (punto 5.3.), che dimostrano una dissipazione di risorse di cui non irragionevolmente il sistema del Rdc non si fa carico.

5.1.– L’altra situazione che il rimettente sottopone a questa Corte è quella di chi sia richiedente per la prima volta il Rdc e pertanto sia tenuto a dichiarare, tra gli altri, i requisiti reddituali previsti per l’accesso alla misura, che, essendo determinati in relazione all’ISEE, comprendono anche le pregresse vincite (lorde) da gioco. L’omissione di tale dato, infatti, integra il reato di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, anch’esso contestato all’imputato del giudizio a quo.

In questo caso, le operazioni di gioco precedono il riconoscimento del Rdc: non è quindi applicabile l’espresso divieto prima citato, né viene in considerazione la natura del Rdc, potendo il soggetto essere disposto ad assumersi gli impegni ivi previsti.

5.2.– In tale fattispecie, come si è visto (punto 4.1.1.), viene in considerazione, al fine di valutare la posizione reddituale del richiedente, il rimando alle norme fiscali e in particolare all’art. 69, comma 1, t.u. imposte redditi, che prevede: «[…] i premi e le vincite di cui alla lettera d) del comma 1 dell’articolo 67 costituiscono reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo di imposta, senza alcuna deduzione».

Secondo il rimettente si tratterebbe di un testo legislativo «piuttosto datato» e quindi non idoneo a considerare le nuove forme di giochi, in particolare quelli on line, strutturati secondo procedure diverse da quelli tradizionali, sia per la tecnologia utilizzata, sia per la disciplina pubblicistica, che prevede la registrazione in appositi conti di gioco di tutte le operazioni effettuate dal giocatore, consentendo la piena “tracciabilità” non solo delle vincite, ma anche delle “perdite” incontrate dal giocatore, che pertanto ben potrebbero essere dedotte.

5.3.– Anche in questa prospettiva, la questione non è fondata.

Essa non considera che la vincita, pur se derivante da giochi on line, una volta ottenuta, entra comunque nella disponibilità del soggetto, per cui l’esistenza di un saldo negativo «non esclude che gli importi vinti siano stati accreditati sul conto gioco» del percettore e che da questo «siano stati utilizzati per effettuare altre giocate o, comunque, destinati a compensare pregresse perdite, che rappresentavano altrettante poste debitorie da pagare: il che denota l’effettiva disponibilità delle somme» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 24 settembre 2021-15 febbraio 2022, n. 5309).

Alla luce di queste conclusioni, la Corte di cassazione ha altresì escluso, sempre con riguardo al reato di cui all’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, che si possa parlare – nel caso delle perdite relative alle vincite da gioco, che riguardano «singoli contratti non espressivi di una unitaria attività produttiva di reddito e, pertanto, non connessi fra loro ma da esaminare in maniera atomistica» – «di spese necessarie per la produzione del reddito in relazione a tutte le passività finanziarie derivanti dalle volte in cui [l’indagato] ha partecipato, infruttuosamente, alle scommesse on line» (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 15 settembre - 1° dicembre 2021, n. 44365).

Una volta esclusa questa ipotesi, quindi, la giocata on line assume il carattere di una qualunque spesa, in questo caso voluttuaria, che la persona ha effettuato con un reddito di cui ha la disponibilità, coincidente con l’accreditamento delle vincite sul suo conto gioco; non si può, quindi, pretendere che la solidarietà pubblica si faccia carico di una spesa di tal genere.

5.4.– Da quanto precede si chiarisce che il Rdc risulta strutturato in modo da non poter venire in aiuto alle persone che, in forza delle vincite lorde da gioco conseguite nel periodo precedente alla richiesta, superino le soglie reddituali di accesso, anche se, a causa delle perdite subite, sono rimaste comunque povere. Da ciò consegue, non irragionevolmente, la pena prevista dall’indubbiato art. 7, comma 1, di chi, ai fini dell’ammissione al beneficio, non dichiari le vincite lorde ottenute rilevanti per la determinazione dell’ISEE.

Certo, si potrebbe obiettare che, paradossalmente, chi ha subito solo perdite può accedere al Rdc, mentre tale possibilità risulta preclusa a chi ha avuto la “sfortuna” di ottenere anche una consistente vincita tra molte perdite.

A ben vedere non è così, perché le giocate presuppongono comunque l’esistenza di una ricchezza, derivante da un patrimonio o da un reddito, utilizzata per il gioco e la cui dissipazione diventa irrilevante ai fini dell’accesso al Rdc.

In definitiva, quindi, non è configurabile la violazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., evocato dal rimettente, in quanto non è irragionevole che il legislatore abbia escluso che sia compito della Repubblica quello di assegnare il Rdc a chi, poco prima, si è rovinato con il gioco.

L’eventuale situazione di povertà in cui la persona si sia venuta a trovare nonostante le vincite è, insomma, comunque quella di chi, avendo una disponibilità economica, l’ha dissipata giocando.

A ragionare altrimenti, del resto, non solo si rischierebbe, in ipotesi, di alimentare la ludopatia in chi ancora ne soffre, ma anche di creare, in ogni caso, una rete di salvataggio che si risolverebbe in un deresponsabilizzante incentivo al gioco d’azzardo, i cui rischi risulterebbero comunque coperti dal beneficio statale del Rdc.

Tale finalità non può certo rientrare tra i compiti che l’art. 3, secondo comma, Cost. assegna alla Repubblica, perché, da un lato, la «“dipendenza da gioco d’azzardo” (cosiddetto gioco d’azzardo patologico o ludopatia) [costituisce un] “fenomeno da tempo riconosciuto come vero e proprio disturbo del comportamento, assimilabile, per certi versi, alla tossicodipendenza e all’alcoolismo” (sentenza n. 108 del 2017), con riflessi, talvolta gravi, sulle capacità intellettive, di lavoro e di relazione di chi ne è affetto, e con ricadute negative altrettanto rilevanti sulle economie personali e familiari» (sentenza n. 185 del 2021).

Dall’altro, perché frequentemente tale patologia risulta incoraggiata dall’illusione di un miglioramento sociale legato alla fortuna, che ha spesso come conseguenza l’attrazione verso il gioco d’azzardo di quelle componenti più deboli e meno facoltose della società che sono proprio i principali soggetti al centro dell’attenzione dell’art. 3, secondo comma, Cost.

5.5.– In conclusione, non è la povertà da ludopatia, ma è piuttosto la ludopatia stessa a rappresentare uno di quegli ostacoli di fatto che è compito della Repubblica rimuovere.

Da questo punto di vista, non si può omettere di considerare, come del resto questa Corte ha già ricordato (sentenze n. 185 del 2021 e n. 27 del 2019), che sono diverse le misure di carattere preventivo e dissuasivo stabilite dalla legislazione vigente, prima tra tutte il divieto di «qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media» (art. 9, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese», convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96).

Nella disciplina dei giochi on line, inoltre, sono, tra l’altro, anche previsti dei meccanismi di autolimitazione (ad esempio, sull’orario e sul tempo massimo di gioco e sull’importo delle giocate) che il giocatore deve impostare prima di operare nella piattaforma telematica del concessionario, il quale è tenuto a dare esecuzione a tali indicazioni.

Infine, il legislatore ha previsto fin dal 2012 l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA) «con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia, intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (G.A.P.)» (art. 5, comma 2, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, recante «Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute», convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 27 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 25 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 11, e 7, commi 1 e 2, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 3, secondo comma, Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Foggia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 febbraio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Luca ANTONINI, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 29 marzo 2024

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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