Corte Costituzionale, Sentenza n.6 del 19/01/2024

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SENTENZA N. 6

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), promossi dal Tribunale ordinario di Arezzo con quattro ordinanze del 3 e 7 marzo 2023, del 19 luglio e dell’8 agosto 2023, iscritte, rispettivamente, ai numeri 48, 49, 117 e 126 del registro ordinanze 2023 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 17, 38 e 40, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nella camera di consiglio del 6 dicembre 2023 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

deliberato nella camera di consiglio del 6 dicembre 2023.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 3 marzo 2023, iscritta al n. 48 del registro ordinanze 2023, il Tribunale ordinario di Arezzo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), «per come applicabile nell’ambito della liquidazione controllata del sovraindebitato», nella parte in cui «non prevede un limite temporale all’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura della procedura concorsuale».

2.– Il rimettente riferisce che, nel corso di una procedura di liquidazione controllata, aperta nei confronti di P. M., veniva sottoposto al suo esame, ai fini dell’approvazione prevista dall’art. 272 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito: CCII), il programma di liquidazione.

Il giudice a quo riporta che tale programma stabiliva l’acquisizione alla procedura non solo degli introiti derivanti da una esecuzione immobiliare, ma anche di quote della retribuzione mensile della debitrice.

Il rimettente precisa, inoltre, che i liquidatori, tenendo conto dell’esigenza di «garantire un minimo soddisfacimento per i creditori», determinavano la durata della procedura e della acquisizione dei crediti in quattro anni, facendo salvo «l’eventuale effetto esdebitativo ottenuto una volta decorsi tre anni». A tal riguardo, il programma – parzialmente riportato nell’ordinanza – stabiliva che, in caso di esdebitazione, vi sarebbe stata la «prosecuzione dell’attività liquidatoria […] solo sui beni già acquisiti nella massa concorsuale [sino] a tale momento».

2.1.– Il giudice a quo contesta che possa essere «rimessa al puro e semplice arbitrio dell’organo liquidatorio la determinazione di un limite minimo di apprensione dei redditi del debitore sovraindebitato» e lamenta che la riforma introdotta con il CCII non abbia previsto, per la liquidazione controllata, un termine per l’acquisizione dei beni sopravvenuti, diversamente da quanto disposto dalla legge 27 gennaio 2012, n. 3 (Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento) per la liquidazione del patrimonio.

In particolare, l’art. 14-undecies della citata legge, ancora applicabile alle procedure di liquidazione del sovraindebitato aperte prima dell’entrata in vigore del CCII, stabilisce che «[i] beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione di cui all’articolo 14-ter costituiscono oggetto della stessa, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi».

2.1.1.– Il giudice a quo rileva la mancanza di una norma che preveda l’acquisizione dei beni sopravvenuti nella disciplina della liquidazione controllata, ma ritiene applicabile a tale procedura quanto stabilito, con riferimento alla liquidazione giudiziale, dall’art. 142, comma 2, CCII.

Tale ultima disposizione prevede che «[s]ono compresi nella liquidazione giudiziale anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi», disposizione che riproduce – come osserva il giudice a quo – quanto in precedenza stabilito dall’art. 42, comma secondo, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa).

2.1.2.– La mancata previsione nel citato art. 142, comma 2, CCII, in quanto applicabile alla liquidazione controllata, di una durata di apprensione dei beni sopravvenuti, tale da tenere conto dell’interesse dei creditori, è il profilo di cui si duole il rimettente, il quale ritiene ricostruibile in via ermeneutica tutt’al più un limite temporale massimo, vòlto a escludere che «l’acquisizione possa durare vita natural durante».

A tal riguardo, passa in rassegna varie soluzioni interpretative.

2.1.2.1.– Prende, anzitutto, in esame il termine che implicitamente deriva dal meccanismo della esdebitazione, il quale, ai sensi dell’art. 282, comma 1, CCII, opera di diritto trascorsi tre anni dall’apertura della procedura di liquidazione.

Nondimeno, segnala che l’esdebitazione non opera sempre e che può essere ottenuta anche prima che sia spirato il triennio, se, antecedentemente, ricorrono i presupposti per chiudere la procedura. In ogni caso, ribadisce che quel termine non possa essere risolutivo del problema relativo alla durata minima di acquisizione dei crediti, in quanto potrebbe tutt’al più operare come limite temporale massimo.

2.1.2.2.– Di seguito, ritiene non soddisfacente anche la soluzione di parametrare la durata dell’apprensione sull’esigenza di assicurare una minima soddisfazione del ceto creditorio.

Ravvisa, infatti, da un lato, il rischio di assegnare un potere arbitrario al liquidatore e, da un altro lato, che questi, nell’interesse dei creditori, possa indicare una durata eccedente il termine della ragionevole durata del processo, evocato dall’art. 272, comma 3, CCII.

L’esito paradossale, che si potrebbe determinare, è quello di una apprensione prolungata disposta nell’interesse dei creditori, i quali potrebbero al contempo chiedere l’indennizzo per irragionevole durata del processo.

2.1.2.3.– Infine, il rimettente espone l’ultima soluzione, a suo avviso prospettabile per individuare un limite di durata dell’acquisizione dei crediti, che rinviene nella durata strettamente necessaria «a coprire i costi prededucibili della procedura».

Sennonché simile termine se, da un lato, è idoneo a impedire che l’acquisizione dei beni sopravvenuti del debitore operi vita natural durante, da un altro lato, susciterebbe censure di illegittimità costituzionale.

2.2.– Esclusa, in ragione delle argomentazioni sopra esposte, la possibilità di percorrere una interpretazione conforme alla Costituzione della norma censurata, il giudice a quo ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità dell’art. 142, comma 2, CCII, in quanto applicabile alla procedura di liquidazione controllata, per non aver previsto «un limite temporale all’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura della procedura concorsuale».

Partendo, dunque, dal presupposto secondo cui, «in assenza di un limite di legge, e non potendo mutuarsi il termine triennale previsto per le finalità dell’esdebitazione», la procedura dovrebbe rimanere aperta per il «solo tempo strettamente necessario a coprire le […] spese da essa stessa prodotte», rinviene un contrasto della norma censurata con gli artt. 3 e 24 Cost.

2.2.1.– A detta del rimettente, la norma censurata presterebbe «il fianco ad abusi da parte del debitore il quale avrebbe gioco facile a sottrarsi dall’esecuzione presso terzi intentata nei suoi confronti dai creditori, con conseguente ed ingiustificabile compressione del diritto di agire di quest’ultimi».

2.2.2.– Al contempo, la medesima norma, nel parametrare la durata dell’acquisizione dei beni sopravvenuti al tempo strettamente necessario a coprire le spese della procedura, determinerebbe – sempre secondo il giudice a quo – una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina di cui godono i creditori nel caso di procedure di liquidazione del sovraindebitato aperte prima dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Per tali procedure trova, infatti, applicazione l’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012, che fissa in quattro anni la durata di acquisizione dei beni sopravvenuti del debitore.

2.3.– Il giudice a quo ritiene che i citati vizi possano essere rimossi solo con un intervento di tipo additivo di questa Corte, che si dovrebbe plasmare sulla disciplina indicata quale tertiumcomparationis, vale a dire l’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012.

Tale intervento additivo – a detta del rimettente – dovrebbe essere limitato alle sole ipotesi in cui l’art. 142, comma 2, CCII trovi applicazione alla «liquidazione controllata “senza beni” e a mera vocazione reddituale».

2.4.– In punto di rilevanza, il rimettente osserva che il procedimento si trova nella fase regolata dall’art. 272, comma 2, CCII, avendo l’organo liquidatore sottoposto al giudice delegato, ai fini dell’approvazione, un programma di liquidazione, che prevede l’acquisizione di quote di reddito del debitore per una durata di quattro anni, salvo l’eventuale effetto esdebitativo.

Secondo il giudice a quo, a causa della lacuna presente nell’art. 142, comma 2, CCII, il programma di liquidazione sarebbe stato proposto sulla base di un potere arbitrario attribuito dalla norma ai liquidatori, non essendo possibile trarre «dall’ordito normativo» «un limite minimo di apprensione dei redditi del debitore sovraindebitato».

3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.

3.1.– Anzitutto, l’Avvocatura contesta il carattere manipolativo dell’intervento richiesto a questa Corte, là dove, a fronte della pluralità di soluzioni che il legislatore potrebbe adottare in relazione al termine, verrebbe invasa la sfera di discrezionalità legislativa.

Posto che «le opzioni (costituzionalmente legittime) rimesse alla discrezionalità del legislatore appaiono molteplici […] l’indicazione stessa di uno dei possibili termini di conclusione della procedura di liquidazione controllata da parte di codesta Ecc.ma Corte, assumerebbe il carattere di una “novità di sistema” che si porrebbe al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale essendo rimesso a scelte demandate al legislatore (sent. Corte Cost. n. 103/2021; n. 250/2018). In tal senso, la soluzione prospettata nell’ordinanza di rimessione non può ritenersi “a rime obbligate” ovvero costituzionalmente necessitata, rientrando, anche in questo caso, nella piena discrezionalità del legislatore la scelta di subordinare ad un determinato termine la procedura di liquidazione controllata».

Al contempo, la difesa statale rileva che, nella specifica ipotesi presa in esame, vi sarebbero «soluzioni interpretative che consent[irebbero] di individuare un preciso orizzonte temporale coincidente con il termine indicato per la esdebitazione» e che, anche nel giudizio di autorizzazione alla chiusura della procedura, dovrebbe «ritenersi consentita al giudice del merito, secondo il suo prudente apprezzamento, una valutazione comparativa della consistenza dei riparti parziali dei debiti esistenti rispetto a quanto complessivamente dovuto»: compito dell’interprete sarebbe «proprio quello di stabilire il termine idoneo, nella fattispecie concreta, a consentire da una parte l’assolvimento dell’esigenza del debitore di reinserirsi nel sistema economico […], dall’altra di evitare uno sbilanciamento del sistema in danno dei creditori».

La difesa statale ritiene pertanto percorribile una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, dal che inferisce l’inammissibilità delle questioni.

3.2.– Quanto alla non fondatezza, l’Avvocatura sottolinea che la mancata previsione di un limite temporale – a differenza di quanto previsto dall’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012 – si giustificherebbe in ragione della scelta del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza di assimilare la liquidazione controllata del sovraindebitato alla liquidazione giudiziale, uniformandone la disciplina.

4.– Con ordinanza del 7 marzo 2023, iscritta al n. 49 del registro ordinanze 2023, lo stesso Tribunale di Arezzo ha sollevato, nell’ambito di una procedura di liquidazione controllata sui beni di G. A., questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., aventi per oggetto sempre l’art. 142, comma 2, CCII, «per come applicabile nell’ambito della liquidazione controllata del sovraindebitato», nella parte in cui «non prevede un limite temporale all’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura della procedura concorsuale».

4.1.– Il giudice a quo riporta che il programma depositato dai liquidatori, ai sensi dell’art. 272, comma 2, CCII, stabiliva l’acquisizione alla procedura di quote della retribuzione mensile della debitrice e fissava la durata sia della procedura sia dell’acquisizione dei crediti in tre anni.

4.2.– Le argomentazioni del rimettente in merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni sono identiche a quelle riportate nell’ordinanza iscritta al n. 48 reg. ord. 2023.

5.– Anche nel giudizio in esame, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito la inammissibilità e la non fondatezza delle questioni.

5.1.– Le eccezioni di rito fanno perno sulla discrezionalità del legislatore e, comunque, sulla percorribilità di una interpretazione adeguatrice alla Costituzione e si avvalgono di motivazioni identiche a quelle invocate rispetto all’ordinanza iscritta al n. 48 reg. ord. 2023.

5.2.– Parimenti la non fondatezza viene argomentata in termini sovrapponibili a quelli fatti valere rispetto alla medesima ordinanza di rimessione.

6.– Con ordinanza del 19 luglio 2023, iscritta al n. 117 del registro ordinanze 2023, lo stesso Tribunale di Arezzo, nell’ambito della procedura di liquidazione controllata sui beni di G. G., ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., aventi per oggetto sempre l’art. 142, comma 2, CCII, «per come applicabile nell’ambito della liquidazione controllata del sovraindebitato», nella parte in cui «non prevede un limite temporale all’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura della procedura concorsuale».

6.1.– Il giudice a quo riferisce che il programma di liquidazione relativo ai beni del soggetto sovraindebitato prevedeva l’apprensione della quota parte della pensione e stabiliva una durata della procedura e dell’acquisizione dei crediti in quattro anni, «fatto salvo, tuttavia, l’eventuale effetto esdebitativo ottenuto una volta decorsi tre anni».

6.2.– Le motivazioni del rimettente sia in merito alla rilevanza sia alla non manifesta infondatezza delle questioni risultano identiche a quelle riportate nelle ordinanze su citate (iscritte al n. 48 e al n. 49 reg. ord. 2023).

7.– Anche nel giudizio in esame, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha fatto valere, con le stesse argomentazioni, le medesime eccezioni di inammissibilità e di non fondatezza prospettate rispetto alle ordinanze di rimessione già indicate.

8.– Con ordinanza dell’8 agosto 2023, iscritta al n. 126 del registro ordinanze 2023, il Tribunale di Arezzo, nell’ambito della procedura di liquidazione controllata sui beni di H. L., ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., aventi per oggetto sempre l’art. 142, comma 2, CCII, «per come applicabile nell’ambito della liquidazione controllata del sovraindebitato», nella parte in cui «non prevede un limite temporale all’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura della procedura concorsuale».

8.1.– Il rimettente riferisce che i liquidatori hanno depositato un programma di liquidazione che prevede l’acquisizione alla procedura degli introiti derivanti da un’esecuzione immobiliare nonché una quota parte della retribuzione.

Il giudice a quo precisa che la durata della procedura e dell’acquisizione dei crediti è stata indicata in sette mesi, sul presupposto che in tal modo sarebbe possibile soddisfare i creditori chirografari nella misura del 7,77 per cento.

Osserva il giudice a quo che la «fissazione da parte dei liquidatori del termine di durata, senza alcun tipo di “bussola” normativa, presta il fianco a inevitabili censure di arbitrarietà, giacché, se per un gestore con una certa sensibilità il pagamento del 7,77% dei creditori chirografari potrebbe essere considerato di per sé soddisfacente […], invece per un diverso gestore una simile misura percentuale potrebbe essere considerata troppo afflittiva per le aspettative del ceto creditorio».

8.2.– Il giudice a quo argomenta la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate negli stessi termini di cui si è avvalso con le ordinanze iscritte ai numeri 48, 49 e 117 reg. ord. 2023.

9.– Anche nel giudizio in esame, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, facendo valere le medesime eccezioni di inammissibilità e, in subordine, la non fondatezza delle questioni.

9.1.– In rito, la difesa statale eccepisce – come negli altri giudizi – l’inammissibilità, motivandola sia con riferimento all’esigenza di salvaguardare la discrezionalità del legislatore, sia con riguardo al mancato ricorso all’interpretazione adeguatrice alla Costituzione.

Sotto questo secondo profilo, l’Avvocatura dello Stato precisa che l’orientamento interpretativo prevalente (nella giurisprudenza di merito e in dottrina) sarebbe nel senso di ritenere che quello correlato alla esdebitazione vada considerato quale termine non solo massimo, ma anche minimo, fermo restando che «l’esdebitazione anticipata rispetto alla chiusura della liquidazione controllata costituisce il limite temporale entro il quale è possibile acquisire i beni sopravvenuti».

9.2.– Nel merito, la difesa statale obietta che – come lo stesso rimettente avrebbe ammesso – «l’attuale assetto […] è frutto di una precisa scelta del legislatore del Codice della Crisi dell’impresa e dell’insolvenza: non [sarebbe, pertanto,] sostenibile la fondatezza di una questione che assume come parametro una norma superata da disposizioni sopravvenute, tra loro uniformi e coerenti, come nel caso di specie».

Considerato in diritto

1.– Con quattro distinte ordinanze, riguardanti altrettanti procedimenti di liquidazione controllata del sovraindebitato e iscritte ai numeri 48, 49, 117 e 126 del registro ordinanze 2023, il Tribunale di Arezzo ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 142, comma 2, CCII, in quanto applicabile alla liquidazione controllata del sovraindebitato, nella parte in cui non prevede un limite temporale minimo all’acquisizione dei beni sopravvenuti all’apertura della procedura concorsuale.

1.1.– I rimettenti riferiscono che, nel corso di alcune procedure di liquidazione controllata, i liquidatori hanno depositato programmi concernenti l’acquisizione di beni sopravvenuti all’apertura delle procedure. I giudici a quibus ritengono che tale acquisizione sia consentita in virtù dell’applicabilità alla liquidazione controllata di quanto previsto, per la liquidazione giudiziale, dall’art. 142, comma 2, CCII.

Nondimeno, i medesimi giudici – chiamati ad approvare detti programmi di liquidazione, ai sensi dell’art. 272, comma 2, CCII – ritengono di non poter provvedere a riguardo, senza un previo intervento di questa Corte che colmi la lacuna normativa concernente la mancata previsione di una durata minima per l’acquisizione dei beni sopravvenuti.

Secondo quanto sostenuto nelle ordinanze, l’«ordito normativo» non consentirebbe, infatti, di individuare una durata minima riferita all’apprensione dei beni sopravvenuti, ma solo un limite temporale massimo, identificato nel tempo strettamente necessario alla copertura delle spese della procedura.

1.2.– La norma censurata – frutto dell’opzione ermeneutica sopra illustrata – determinerebbe, a giudizio dei rimettenti, un vulnus agli artt. 3 e 24 Cost.

1.2.1.– Da un lato, essa presterebbe «il fianco ad abusi da parte del debitore il quale avrebbe gioco facile a sottrarsi all’esecuzione presso terzi intentata nei suoi confronti dai creditori, con conseguente ed ingiustificabile compressione del diritto di agire di quest’ultimi».

1.2.2.– Da un altro lato, la medesima norma comporterebbe una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina di cui godono i creditori, nel caso di procedure di liquidazione del sovraindebitato aperte prima dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, per le quali trova, invece, applicazione l’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012, che fissa in quattro anni la durata di acquisizione dei beni del debitore sopravvenuti all’apertura della procedura di liquidazione.

1.3.– Per far cessare il ritenuto vulnus ai principi costituzionali, i rimettenti prospettano una pronuncia additiva di questa Corte, indicando – quale “rima obbligata” – proprio la disciplina di cui all’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012 e, dunque, il termine di quattro anni per l’apprensione dei beni del debitore, che pervengono nel corso della procedura.

2.– È intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha sollevato, con le medesime argomentazioni, due eccezioni di inammissibilità.

2.1.– In primo luogo, la difesa statale ha contestato il carattere eccessivamente manipolativo dell’intervento richiesto a questa Corte, rilevando che, a fronte della pluralità di soluzioni che il legislatore potrebbe adottare in relazione al termine, l’intervento additivo prospettato dai rimettenti andrebbe a invadere la discrezionalità legislativa e non si configurerebbe quale soluzione «a rime obbligate», ovvero costituzionalmente necessitata.

2.2.– In secondo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito che sarebbe percorribile una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata.

3.– Va premesso che, per l’identità dell’oggetto delle questioni sollevate e per la sostanziale coincidenza delle ragioni di illegittimità costituzionale indicate dai rimettenti, i giudizi possono essere riuniti al fine di essere decisi con un’unica sentenza.

4.– L’eccezione di inammissibilità per discrezionalità del legislatore non è fondata.

La giurisprudenza di questa Corte ammette la possibilità di adottare pronunce additive, sottolineando ripetutamente come, una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione, «non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 62 del 2022). È, infatti, sufficiente «la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore (ex plurimis, sentenze n. 28 del 2022, n. 63 del 2021, n. 252 e n. 224 del 2020, n. 99 e n. 40 del 2019, n. 233 e n. 222 del 2018)» (sentenza n. 95 del 2022). Ne consegue che «l’assenza di una soluzione a rime obbligate non è preclusiva di per sé sola dell’esame nel merito delle censure» (sentenza n. 48 del 2021).

Nel caso oggetto delle odierne ordinanze, i rimettenti non si limitano a invocare un intervento additivo, ma individuano una grandezza di riferimento già presente nell’ordinamento, costituita dal termine quadriennale previsto dall’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012 in materia di liquidazione del patrimonio, disciplina ancora applicabile alle procedure di liquidazione aperte prima dell’entrata in vigore del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

L’eccezione di rito va, pertanto, rigettata.

5.– Di seguito, non è fondata anche l’ulteriore eccezione, concernente la supposta inammissibilità delle questioni per mancato esperimento dell’interpretazione adeguatrice alla Costituzione.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «[a]i fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilità di una interpretazione conforme alla Carta fondamentale e […] la escluda consapevolmente» (sentenza n. 262 del 2015; in senso conforme sentenze n. 202 del 2023, n. 139 del 2022, n. 11 del 2020, n. 189, n. 133 e n. 78 del 2019, n. 42 del 2017).

È quanto si constata nei casi in esame, nei quali i giudici a quibus motivano con argomenti non implausibili la non percorribilità di una ricostruzione ermeneutica della disposizione censurata idonea a renderla conforme alla Costituzione.

Avendo, dunque, i rimettenti ottemperato a tale onere, l’effettiva correttezza o non correttezza della ricostruzione dagli stessi presupposta attiene al merito e non al rito (in tal senso, ex plurimis, sentenze n. 139 del 2022 e n. 189 del 2019).

6.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate.

7.– I giudici rimettenti censurano la norma secondo cui alla liquidazione controllata si possono ascrivere anche i beni che pervengono al debitore durante la procedura. Il profilo su cui si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale attiene alla mancata indicazione della durata del meccanismo acquisitivo.

La citata norma viene tratta dalla disciplina dettata per la liquidazione giudiziale dall’art. 142, comma 2, CCII, secondo il quale sono in essa ricompresi «i beni che pervengono al debitore durante la procedura, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi».

In particolare, i giudici a quibus ritengono che l’art. 142, comma 2, CCII trovi applicazione non solo alla liquidazione giudiziale, ma anche alla liquidazione controllata.

7.1.– Occorre precisare, in via preliminare, che la norma censurata non è desumibile necessariamente da quanto dispone, per la liquidazione giudiziale, l’art. 142, comma 2, CCII, ma può essere altresì dedotta da quanto prevede, direttamente per la liquidazione controllata, l’art. 268, comma 4, lettera b), CCII.

Quest’ultima disposizione stabilisce che non sono ricompresi nella procedura «i crediti aventi carattere alimentare e di mantenimento, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività nei limiti, indicati dal giudice, di quanto occorre al mantenimento suo e della sua famiglia».

A contrario, la norma, dunque, riconosce che alla procedura si possono ascrivere le quote di stipendi e pensioni che eccedano «quanto occorre al mantenimento» del debitore «sovraindebitato e della sua famiglia», vale a dire prestazioni periodiche, corrispondenti a crediti esigibili nel tempo.

Del resto, la possibilità di ascrivere alla procedura della liquidazione controllata anche i beni sopravvenuti, salve le eccezioni indicate dall’art. 268, comma 2, CCII, si pone in piena sintonia con quanto dispone, in generale, l’art. 2740 del codice civile, in base al quale «il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri».

7.2.– Quanto al profilo della disciplina di cui si dolgono i giudici rimettenti, esso attiene all’omessa previsione di un termine di durata minima della apprensione dei beni sopravvenuti, che sia idoneo a preservare le ragioni creditorie. Nello specifico, i giudici a quibus lamentano la mancata riproduzione, nella disciplina della liquidazione controllata introdotta dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di una disposizione analoga a quella che l’art. 14-undecies della precedente legge n. 3 del 2012 prevedeva con riguardo alla liquidazione del patrimonio.

In base a tale disposizione, costituivano oggetto della liquidazione del patrimonio anche i «beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione di cui all’articolo 14-ter […] dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi». Correlativamente, l’art. 14-quinquies, comma 4, della legge n. 3 del 2012 disponeva che la «procedura rimane[sse] aperta sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, ai fini di cui all’articolo 14-undecies, per i quattro anni successivi al deposito della domanda», così come l’art. 14-novies, comma 5, stabiliva che, «[a]ccertata la completa esecuzione del programma di liquidazione e, comunque, non prima del decorso del termine di quattro anni dal deposito della domanda, il giudice dispone[sse], con decreto, la chiusura della procedura».

8.– A fronte della denunciata lacuna e, in particolare, della mancata previsione di una durata minima di acquisizione dei beni pervenuti al debitore dopo l’apertura della procedura di liquidazione controllata, i giudici rimettenti assumono, quale presupposto interpretativo, quello secondo cui, non potendosi prospettare una apprensione «vita natural durante» dei beni sopravvenuti del debitore, sarebbe comunque necessario individuare un limite temporale.

In particolare, i giudici a quibus escludono che esso possa essere mutuato dall’istituto dell’esdebitazione, in quanto non sempre applicabile. In ogni caso, ritengono tale riferimento temporale inidoneo a garantire una durata minima di acquisizione dei beni sopravvenuti tale da preservare le ragioni creditorie.

Parimenti, escludono che la durata dell’apprensione si possa modellare sul tempo necessario a garantire una minima soddisfazione del ceto creditorio, sia poiché ne discenderebbe un potere arbitrario in capo ai liquidatori, sia perché il termine potrebbe eccedere la ragionevole durata della procedura, con il rischio che i creditori, avvantaggiati dalla prolungata apprensione dei beni sopravvenuti, possano poi anche pretendere l’indennizzo per irragionevole durata della procedura stessa.

Viceversa, reputano necessitata la ricostruzione in via ermeneutica del limite temporale costituito dalla durata strettamente necessaria a coprire le spese della procedura, norma sulla quale appuntano le censure di illegittimità costituzionale.

9.– Il presupposto interpretativo da cui muovono i rimettenti è errato nei suoi vari passaggi argomentativi.

Anzitutto, non è corretto ritenere che non si possa colmare l’asserita lacuna concernente la mancata previsione di un termine di acquisizione dei beni, che pervengono al debitore nel corso della procedura, con un criterio idoneo a fornire adeguate garanzie ai creditori.

Il parametro di riferimento deve essere, infatti, costituito proprio dal soddisfacimento dei crediti concorsuali e di quelli aventi a oggetto le spese della procedura, coerentemente con la funzione dell’istituto della liquidazione controllata, correlata alla responsabilità patrimoniale del debitore.

L’apertura della liquidazione controllata introduce, in particolare, «il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore» (art. 151 CCII, richiamato dall’art. 270, comma 5, dello stesso CCII), i cui beni compresi nella procedura devono soddisfare le ragioni creditorie.

Al contempo, il parametro che guarda alla realizzazione di tali pretese, oltre che all’adempimento delle spese della procedura, deve coordinarsi con due ulteriori istanze.

Da un lato, deve raccordarsi con l’istituto della esdebitazione, che comporta una responsabilità patrimoniale contenuta nel tempo e, pertanto, limita l’apprensione dei beni sopravvenuti del debitore.

Da un altro lato, va considerata l’esigenza di porre un limite alla durata della procedura concorsuale, che indirettamente si riverbera sulla durata del meccanismo acquisitivo, in quanto il procedimento giurisdizionale non può protrarsi per una durata irragionevole, tanto più ove si consideri che la sua apertura inibisce ogni azione individuale esecutiva o cautelare (art. 150 CCII).

9.1.– Quanto all’esdebitazione, tale istituto «comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura di liquidazione giudiziale o di liquidazione controllata» (art. 278 CCII).

La sua finalità – come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare – è quella «di “ricollocare utilmente [il debitore] all’interno del sistema economico e sociale, senza il peso delle pregresse esposizioni” (sentenza n. 245 del 2019)» (sentenza n. 65 del 2022).

Nel solco del diritto dell’Unione europea, l’istituto sacrifica le residue ragioni creditorie – comportando una responsabilità patrimoniale limitata nel tempo – onde consentire a debitori non immeritevoli una “ripartenza” (il cosiddetto fresh start).

E, infatti, l’accesso a tale istituto presuppone che il beneficiario non abbia «determinato la situazione di sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode» (art. 282, comma 2, CCII) e che ricorrano le condizioni previste dall’art. 280 CCII (il debitore non deve essere stato «condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, o altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa»; non deve aver «distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito»; non deve aver «ostacolato o rallentato lo svolgimento della procedura» e deve aver «fornito agli organi ad essa preposti tutte le informazioni utili e i documenti necessari per il suo buon andamento»; non deve aver «beneficiato di altra esdebitazione nei cinque anni precedenti la scadenza del termine per l’esdebitazione» e non deve aver «già beneficiato dell’esdebitazione per due volte»).

In presenza dei citati presupposti, l’esdebitazione opera di diritto a seguito del provvedimento di chiusura della procedura di liquidazione controllata e, in ogni caso, decorsi tre anni dalla sua apertura (art. 282, comma 1, CCII), in linea con quanto prevede il diritto dell’Unione europea (art. 21, comma 1, della direttiva 2019/1023/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132, riferito alla esdebitazione dell’imprenditore, e considerando n. 21 della medesima direttiva, che auspica un’estensione dell’istituto anche al consumatore).

Se, dunque, l’esdebitazione pone un limite temporale massimo alla apprensione dei beni sopravvenuti del debitore, poiché incide sulle stesse ragioni creditorie, d’altro canto, in presenza di crediti concorsuali non ancora soddisfatti prima del triennio, essa finisce per operare anche quale termine minimo.

Ove, infatti, per adempiere ai debiti relativi ai crediti concorsuali e a quelli concernenti le spese della procedura sia necessario acquisire i beni sopravvenuti del debitore (compresi i crediti futuri o non ancora esigibili), i liquidatori – salvo che riescano a soddisfare integralmente i citati crediti tramite la vendita di beni futuri o la cessione di crediti futuri o non ancora esigibili – sono tenuti a prevedere un programma di liquidazione che sfrutti tutto il tempo antecedente alla esdebitazione e che, dunque, sia di durata non inferiore al triennio.

Viceversa, l’ingiustificato sacrificio delle ragioni creditorie tradirebbe la funzione stessa della liquidazione controllata e derogherebbe al criterio di base che deve orientare la durata del meccanismo di apprensione dei beni, costituito – come già sopra precisato (punto 9) – dal pagamento dei debiti relativi ai crediti concorsuali, oltre che delle spese della procedura.

Di conseguenza, ben potrebbe il giudice delegato sindacare in sede di approvazione, ai sensi dell’art. 272, comma 2, CCII, un programma di liquidazione che stabilisca un termine di acquisizione dei beni sopravvenuti di durata inferiore a quella derivante dal meccanismo della esdebitazione, ove tale termine lasci parzialmente insoddisfatte le ragioni dei creditori concorsuali.

Pertanto, fintantoché vi siano debiti da adempiere nell’ambito della procedura concorsuale, il termine triennale correlato all’esdebitazione finisce per operare – diversamente da quanto assumono i giudici rimettenti – non solo quale termine massimo, ma anche quale termine minimo di apprensione dei beni sopravvenuti del debitore.

9.2.– Venendo ora al secondo passaggio argomentativo dei giudici rimettenti, deve ritenersi inesatto anche quanto sostengono per confutare che la durata di apprensione dei beni sopravvenuti del debitore possa dipendere dall’esigenza di soddisfare i diritti dei creditori concorsuali, oltre che di adempiere alle spese della procedura.

In particolare, non è corretto sostenere che, applicando tale criterio, i liquidatori possano – nei casi in cui non trovi applicazione il limite temporale derivante dall’esdebitazione – prevedere un programma di liquidazione che esorbiti rispetto alla ragionevole durata della procedura, determinando l’effetto di consentire ai creditori, avvantaggiati dal suo protrarsi, di poter anche conseguire l’indennizzo per irragionevole durata della procedura stessa.

In realtà, i liquidatori, se, da un lato, devono tendere alla massima soddisfazione delle ragioni creditorie, da un altro lato, sono tenuti a rispettare la prescrizione dell’art. 272, comma 3, CCII, secondo la quale «[i]l programma [di liquidazione] deve assicurare la ragionevole durata della procedura».

Tale paradigma si determina tenendo conto sia di elementi concreti, a partire dalla complessità della procedura liquidatoria e dalla stessa possibilità di acquisire beni sopravvenuti, sia di indici normativi, fra i quali, oltre alla previsione generale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), si segnala – da parte degli interpreti – il termine quadriennale, desumibile dall’art. 282 CCII, che si adatterebbe a una procedura “minore”, rispetto alla procedura “maggiore” della liquidazione giudiziale, per la quale il tempo della liquidazione non può eccedere il termine di cinque o sette anni, a seconda della sua complessità (art. 213, comma 5, CCII).

In sostanza, il criterio della massima soddisfazione delle ragioni creditorie, lungi dal confliggere con l’esigenza della ragionevole durata della procedura – come ritengono i giudici rimettenti – deve essere, viceversa, con essa contemperato.

L’organo liquidatore deve, sotto la supervisione del giudice delegato in sede di approvazione del programma, determinare il tempo di acquisizione dei beni sopravvenuti, perseguendo l’obiettivo della maggiore soddisfazione possibile delle ragioni creditorie, nel rispetto della ragionevole durata della procedura stessa.

Resta fermo che la chiusura della liquidazione controllata, a differenza della esdebitazione, non fa venire meno la responsabilità patrimoniale, ma consente ai creditori di riacquistare il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte dei loro crediti rimasta eventualmente insoddisfatta.

9.3.– Da ultimo, è altresì erroneo individuare, nel tempo strettamente necessario a coprire le spese della procedura di liquidazione controllata, il suo limite temporale massimo.

9.3.1.– In primo luogo, tale criterio non si desume da un diritto vivente formatosi rispetto all’istituto della liquidazione controllata.

Al più – come del resto gli stessi giudici a quibus riconoscono – essa può configurarsi quale interpretazione che parte della giurisprudenza di merito, compreso il Tribunale rimettente, ha riferito, in passato, all’art. 42 della legge fallimentare.

9.3.2.– In secondo luogo, non è corretto affermare che il tempo strettamente necessario a recuperare le spese della procedura possa ritenersi un termine massimo di durata della procedura stessa.

Se è vero, infatti, che, in base all’art. 146 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», le spese della procedura fallimentare (oggi procedura di liquidazione giudiziale), anticipate dall’erario o prenotate a debito (commi 2 e 3), «sono recuperate, appena vi sono disponibilità liquide, sulle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo» (comma 4), nondimeno, la loro copertura non basta certo a esaurire gli scopi per i quali la procedura concorsuale è stata aperta.

La liquidazione giudiziale, così come la liquidazione controllata che viene in considerazione nel presente giudizio, è finalizzata a liquidare il patrimonio del debitore a beneficio dei creditori concorsuali, sicché il criterio costituito dal tempo necessario a coprire le spese della procedura non identifica in alcun modo un implicito termine di durata massima della medesima.

10.– Evidenziato il carattere erroneo dei diversi passaggi ermeneutici che compongono il presupposto interpretativo dei rimettenti, risulta evidente la non fondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.

10.1.– Anzitutto, non sussiste alcuna irragionevole lesione del diritto alla tutela delle ragioni creditorie, per effetto del presunto limite temporale costituito dalla durata strettamente necessaria alla copertura delle spese di procedura.

Tale supposto limite – come si è sopra precisato (punti 9.3.1. e 9.3.2.) – invero non sussiste: esso non è radicato nel diritto vivente, non rinviene un fondamento ermeneutico e anzi è contraddetto dalla funzione che svolge l’istituto della liquidazione controllata.

D’altro canto, la mancata previsione nella norma censurata di un termine fisso per l’apprensione dei beni sopravvenuti non comprime irragionevolmente la tutela dei creditori.

Al contrario, tale durata deve plasmarsi sulle loro effettive ragioni, che possono essere sacrificate soltanto in presenza dei presupposti che consentono l’applicazione dell’esdebitazione (punto 9.1.). Quanto all’esigenza che la tutela delle ragioni creditorie siano soddisfatte, nell’ambito della procedura concorsuale, nel rispetto della ragionevole durata del procedimento, va ribadito che la chiusura del meccanismo concorsuale non incide comunque sulla responsabilità patrimoniale e, dunque, non sacrifica la tutela del credito (punto 9.2.).

10.2.– Parimenti non sussiste alcuna irragionevole disparità di trattamento fra la disciplina censurata, per come ricostruita dai giudici rimettenti, e quella prevista dall’art. 14-undecies della legge n. 3 del 2012.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «il criterio di discrimine nella applicazione di diverse discipline normative basato su dati cronologici non può dirsi, a meno che non sia affetto da manifesta arbitrarietà intrinseca, fonte di ingiustificata disparità di trattamento, poiché […] lo stesso naturale fluire del tempo è valido elemento diversificatore delle situazioni giuridiche (fra le ultime si vedano le sentenze n. 273 del 2011 e n. 197 del 2010 nonché le ordinanze n. 31 del 2011 e n. 61 del 2010)» (ordinanza n. 49 del 2012 proprio in materia di esdebitazione, nonché, in altri ambiti, le sentenze n. 92 del 2021, n. 104 del 2018, n. 53 del 2017 e n. 254 del 2014).

Ebbene, per un verso, come già precisato, non è corretto ritenere che la mancata previsione di un termine fisso debba essere integrata dal riferimento al tempo strettamente necessario alla copertura delle spese della procedura.

Per un altro verso, rientra nella discrezionalità del legislatore sostituire un termine “fisso” con un termine che si plasma sulle concrete esigenze che emergono, nella singola procedura, a tutela dei creditori. La durata dell’apprensione dei beni sopravvenuti dipende, infatti, dall’ammontare delle risorse complessive disponibili e dall’entità dei crediti concorsuali, oltre che delle spese di procedura, fatto salvo il limite temporale desumibile dall’istituto dell’esdebitazione e fermo restando il rispetto della ragionevole durata della procedura.

Anche la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento deve, pertanto, dichiararsi non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 142, comma 2, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 (Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Arezzo con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 2023.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 19 gennaio 2024

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

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