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Telefonate con i figli minori, irragionevole la stretta per i condannati per reati di criminalità organizzata

Corte Costituzionale, Sentenza n.85 del 13/05/2024

Se un detenuto è stato condannato per un reato compreso nell’elenco dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, ma ha in concreto accesso a tutti i benefici penitenziari, è irragionevole sottoporlo a un regime più restrittivo rispetto a quello ordinario solo per quanto riguarda le telefonate con i propri figli minori.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 85 depositata il 13 maggio 2024, con la quale ha ritenuto fondata una questione sottopostale da un magistrato di sorveglianza di Padova.

La Corte ha ricordato che chi è condannato per uno dei reati elencati nel primo comma dell’art. 4-bis (i cosiddetti “reati ostativi”) è ordinariamente escluso dai benefici penitenziari, in forza della generale presunzione per cui i collegamenti con l’organizzazione criminale non vengono meno con l’ingresso in carcere del condannato, con conseguente persistere della sua pericolosità sociale. Questi detenuti hanno accesso ai benefici, di regola, soltanto quando collaborino con la giustizia, perché proprio la loro collaborazione costituisce “una sorta di prova legale della rottura del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso rieducativo”.

Tuttavia, come chiarito da sentenze recenti della Corte, la presunzione di persistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata deve sempre poter essere vinta da una prova contraria, valutabile caso per caso dal tribunale di sorveglianza. E in effetti la legge prevede oggi varie ipotesi in cui i condannati per reati “ostativi” possono in concreto essere ammessi ai benefici penitenziari, pur in mancanza di una loro collaborazione con la giustizia.

Tra queste ipotesi c’è quella di chi – come il detenuto oggetto del procedimento principale, che sta scontando una condanna a trent’anni di reclusione – abbia accesso ai benefici perché la sua collaborazione è stata ritenuta impossibile, e non risultino elementi che attestino un suo collegamento attuale con la criminalità organizzata.

Nel caso concreto, il detenuto aveva in effetti già goduto di permessi premio, concessi sulla base dei suoi progressi nel trattamento rieducativo attestati dall’amministrazione penitenziaria. Inoltre, in forza della normativa speciale adottata durante il periodo della pandemia, aveva fruito di una telefonata al giorno con i propri familiari, come tutti gli altri detenuti.

A questo punto la Corte ha ritenuto irragionevole sottoporre in queste situazioni il condannato – ammesso ai benefici in quanto ritenuto non più socialmente pericoloso – a una disciplina più sfavorevole rispetto a quella applicabile alla generalità dei detenuti.

In proposito, la Corte ha osservato che ogni disciplina – come l’art. 4-bis – che, a parità di pena inflitta, deroga in senso peggiorativo al regime penitenziario ordinario “può trovare legittimazione sul piano costituzionale – al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una speciale pericolosità sociale del condannato”; e non invece “in chiave di ulteriore punizione in ragione della speciale gravità del reato commesso. È, infatti, la misura della pena che nel nostro ordinamento deve riflettere la gravità del reato, non già la severità del regime sanzionatorio”.

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SENTENZA N. 85

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Padova nel procedimento a carico di E. C., con ordinanza del 2 agosto 2023, iscritta al n. 122 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 16 aprile 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 agosto 2023, il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, «nella parte in cui prevede che l’autorizzazione ai colloqui con i figli minori non può essere concessa più di una volta alla settimana nel caso di detenuti per reati ex art. 4 bis op per i quali non sussiste il divieto di concessione dei benefici ex art. 4 bis legge 26 luglio 1975 n. 354».

Tale disposizione violerebbe gli artt. 3, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché in relazione all’art. 3, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, e in relazione all’art. 24, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

1.1.– Il rimettente si trova a decidere di un reclamo presentato ai sensi dell’art. 35-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) da E. C., detenuto in esecuzione della pena presso la Casa di reclusione di Padova, avverso un provvedimento della direzione del carcere che, in applicazione della disposizione censurata, gli aveva negato il permesso di effettuare telefonate giornaliere al figlio minorenne.

Il rimettente riferisce:

– che il detenuto sta espiando la pena di trent’anni di reclusione in relazione a condanne relative a sei omicidi, commessi tra il 1992 e il 2000, associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, furto, detenzione abusiva di armi e ricettazione. Tutti i reati, ad eccezione di due omicidi non riconducibili alla sua partecipazione al sodalizio mafioso, sarebbero stati da lui commessi «in qualità di partecipe del clan camorristico “La Torre” e risultano aggravati ex art. 7 l. 203/91»;

– che il suo fine pena è attualmente fissato alla data del 26 luglio 2028;

– che per tutti gli omicidi riconducibili al sodalizio mafioso e ai reati aggravati dal metodo mafioso, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha accertato, con ordinanza del 24 maggio 2017, l’impossibilità della sua collaborazione, e conseguentemente l’inoperatività delle preclusioni normalmente associate alla condanna per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.;

– che dal 2020 il detenuto è stato ammesso a fruire dei permessi premio, circostanza che gli ha consentito di coltivare il legame affettivo con il figlio di nove anni, concepito durante la detenzione con fecondazione assistita; tali permessi sarebbero stati concessi «a fronte di atti dell’osservazione intramuraria che fotografavano non solo una condotta regolare ed esente da rilievi disciplinari e la partecipazione alle attività trattamentali disponibili nel circuito di Alta Sicurezza […] ma anche una importante rilettura critica dei gravi reati» da lui commessi;

– che l’Ufficio esecuzione penale esterna (UEPE) di Caserta ha evidenziato che il desiderio di genitorialità prima e poi la nascita del bambino avrebbero inciso in modo positivo sulla vita del detenuto, e che «la progettualità [di E. C.] è orientata attorno al nucleo familiare e alla volontà di poter, in futuro, allontanarsi dal multiproblematico contesto di provenienza»;

– che la Direzione distrettuale antimafia di Napoli – pur avendo sottolineato la persistente operatività dell’associazione mafiosa di cui il detenuto ha fatto parte, nonché il suo legame di parentela con uno dei soggetti che ebbe a gestirla negli anni 2004-2006 – ha evidenziato che da circa vent’anni il reclamante, «stante la detenzione, non risulta essere stato coinvolto in altre attività di indagine, sicché non risultano significativi elementi dai quali possa desumersi (ovvero escludersi) la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata»;

– che anche la Questura di Caserta ha confermato l’assenza di elementi indicativi di un collegamento attuale con la criminalità organizzata;

– che, come confermato dalla direzione del penitenziario, il detenuto «in occasione della pandemia e fino al 31.12.2022, aveva fruito di corrispondenza telefonica con il minore una volta al giorno, secondo la normativa emergenziale»;

– che il detenuto fruisce attualmente di sei videochiamate al mese («da intendersi equiparate ai colloqui visivi») con la propria famiglia, come previsto per i detenuti «non ostativi», nonché di due colloqui telefonici a settimana con il figlio («uno a settimana in base alla disciplina ordinaria prevista per detenuti per reati non ostativi e una supplementare a settimana come previsto per detenuti condannati per reati ostativi»).

Ciò premesso, il giudice a quo ritiene che il provvedimento impugnato sia conforme a quanto previsto dalla disposizione censurata, che – in aggiunta all’ordinaria corrispondenza telefonica settimanale con familiari e conviventi prevista dall’art. 39, comma 2, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) (d’ora in avanti: reg. penit.) – consente, tra l’altro, di autorizzare il detenuto a una conversazione telefonica al giorno con i figli minori, salvo che si tratti – come nel caso di specie – di detenuti o internati per un delitto di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit.: nel qual caso tale autorizzazione supplementare non può essere concessa più di una volta alla settimana.

1.2.– Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della disposizione in esame.

1.2.1.– Essa contrasterebbe, anzitutto, con l’art. 3 Cost.

Pur muovendo dalla premessa della ragionevolezza della differenziazione della disciplina della corrispondenza telefonica in ragione della maggiore pericolosità dei condannati, il rimettente osserva che quest’ultima «debba essere ancorata a criteri ragionevoli ed obiettivamente verificabili, coerenti con i principi dell’ordinamento penitenziario».

La disciplina dettata dal reg. penit., che differenzia tra detenuti “ordinari” e detenuti «per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4-bis» ordin. penit. tanto con riferimento alla corrispondenza telefonica (art. 39, comma 2), quanto con riferimento alle videochiamate e ai colloqui (art. 37, comma 8), troverebbe effettivamente fondamento nella presunzione di pericolosità dei detenuti “ostativi”: presunzione che però è superata dal riconoscimento della loro collaborazione con la giustizia, ovvero dal riconoscimento delle altre condizioni alternative previste dalla legge, che prevedono comunque una «valutazione circa l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e l’assenza del pericolo di collegamenti».

Lo stesso non potrebbe affermarsi del regime restrittivo introdotto dalla disposizione censurata, che farebbe riferimento alla generalità dei «detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis» ordin. penit., «senza distinguere a seconda che la persona abbia collaborato o meno o comunque sia stata ammessa ai benefici all’esterno».

Emblematico di tale irragionevolezza sarebbe il caso del reclamante nel giudizio a quo, il quale avrebbe «fruito per diversi giorni, e anche nel territorio di origine, di permessi premio; beneficio concesso previa valutazione della assenza di un pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, oltre che di una prognosi negativa quanto al profilo di pericolosità (e quindi al pericolo di reiterazione di reati), per coltivare il rapporto con il figlio minorenne».

L’irragionevolezza della disciplina, rispetto al reclamante, sarebbe resa ancor più evidente dalla circostanza che egli stesso «fruisce – in materia di colloqui – della disciplina “non ostativa” in relazione alla disciplina generale prevista dall’art. 39, co 2, e 37, co 9, d.P.R. 230/00 mentre (e solo) limitatamente alle ipotesi di ampliamento delle telefonate con i figli minori previste dall’art. 2 quinquies legge n. 70 del 2020 [recte: d.l. n. 28 del 2020] ricade nella disciplina “ostativa”».

L’art. 3 Cost. sarebbe, dunque violato «sotto i profili della ragionevolezza oltre che dell’uguaglianza rispetto ai detenuti per reati non ostativi (che potrebbero perfino non essere ammessi ai benefici penitenziari per profili di pericolosità sociale)».

1.2.2.– La disposizione censurata violerebbe, inoltre, l’art. 31 Cost.

I colloqui con i familiari e in particolare con i figli – osserva il rimettente – «rappresentano uno strumento cardine del trattamento penitenziario». La tutela del legame parentale non potrebbe considerarsi esaurita dopo l’instaurazione dell’esperienza detentiva del genitore (è citata la sentenza n. 18 del 2020 di questa Corte), «atteso che in questi casi lo sviluppo della personalità del minore si trova in condizioni di potenziale fragilità e richiede una tutela rafforzata che consenta di non rinunciare alle aspettative di un armonico sviluppo del bambino e dell’adolescente».

Il divieto di fruire di telefonate giornaliere con i figli minori per condannati ostativi che possano accedere ai benefici penitenziari costituirebbe, allora, un ostacolo ingiustificato al mantenimento del legame genitoriale e al pieno sviluppo della personalità del figlio, «soggetto incolpevole e bisognoso di scrupolose attenzioni anche nelle vicende penali che interessano i genitori».

1.2.3.– Infine, la disposizione censurata si porrebbe poi in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., anzitutto in relazione all’art. 8 CEDU, nel cui ambito di applicazione rientrerebbero i colloqui con i figli minori (è citata Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, sentenza 21 marzo 2023, Deltuva contro Lituania).

Osserva poi il rimettente che «[i]l preminente interesse del minore […] implica che tutte le decisioni di autorità pubbliche o istituzioni private che coinvolgono anche solo indirettamente la sfera giuridica di minorenni, debbano prendere atto e conformarsi a tale presa di coscienza sociale e giuridica». Tale affermazione sarebbe condivisa da plurime fonti normative, tra cui la Convenzione sui diritti del fanciullo e l’art. 24, paragrafo 2, CDFUE.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, come convertito, «nella parte in cui prevede che l’autorizzazione ai colloqui con i figli minori non può essere concessa più di una volta alla settimana nel caso di detenuti per reati ex art. 4 bis op per i quali non sussiste il divieto di concessione dei benefici ex art. 4 bis legge 26 luglio 1975 n. 354».

Le censure del rimettente si appuntano, dunque, sul solo terzo periodo dell’art. 2-quinquies, comma 1, del d.l. n. 28 del 2020, come convertito. A suo parere, tale disposizione violerebbe gli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, nonché all’art. 3, paragrafo 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo e all’art. 24, paragrafo 2, CDFUE.

Il rimettente si trova a decidere su un reclamo presentato da un detenuto, condannato per una serie di delitti rientranti nel novero indicato dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit., ma al quale non si applica il divieto di benefici ivi previsto, essendogli stata riconosciuta l’impossibilità della collaborazione con la giustizia ai sensi del comma 1-bis dello stesso art. 4-bis, nel testo previgente alle modifiche apportate dal decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di termini di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e di disposizioni relative a controversie della giustizia sportiva, nonché di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2, di attuazione del Piano nazionale contro una pandemia influenzale e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199.

Il reclamo ha ad oggetto un provvedimento della direzione del carcere con cui è stata respinta la richiesta del detenuto di poter continuare ad avere conversazioni telefoniche giornaliere con il proprio figlio di nove anni, secondo il regime del quale egli aveva già fruito in precedenza in forza di varie disposizioni adottate durante l’emergenza pandemica da COVID-19.

Il giudice a quo rileva che il provvedimento impugnato è effettivamente conforme alla disposizione censurata, che, quanto in particolare alla corrispondenza telefonica con i figli minori, prevede un regime più restrittivo di quello ordinario per i «detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis» ordin. penit., senza distinguere a seconda che agli stessi si applichi o meno il divieto di benefici ivi previsto; ma dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione, in riferimento ai parametri sopra menzionati.

2.– La questione formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 CDFUE, è inammissibile.

Il rimettente non ha, infatti, illustrato le ragioni per le quali la disposizione censurata ricadrebbe nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea; ciò che a sua volta condiziona, ai sensi dell’art. 51 CDFUE, la stessa applicabilità delle norme della Carta, inclusa la loro idoneità a costituire parametri interposti nel giudizio di legittimità costituzionale innanzi a questa Corte (ex multis, sentenza n. 183 del 2023, punto 7 del Considerato in diritto).

Ciò non impedisce peraltro – secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – che le norme della Carta possano essere utilizzate, anche al di fuori dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, come criteri interpretativi degli stessi parametri costituzionali pertinenti (ex multis, sentenze 219 del 2023, punto 4.1. del Considerato in diritto; n. 33 del 2021, punto 4 del Considerato in diritto).

3.– La questione formulata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata.

3.1.– Il giudice a quo dubita, in sostanza, della compatibilità della disposizione censurata con l’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo: in primo luogo, per la irragionevolezza intrinseca della disposizione stessa; in secondo luogo, per l’irragionevole disparità di trattamento da essa creata tra il regime relativo alla corrispondenza telefonica vigente per i detenuti o internati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit., ai quali tuttavia non si applichi il divieto di benefici ivi previsto, da un lato, e il regime che la medesima disposizione prevede in favore dei detenuti e internati per la generalità degli altri reati, dall’altro.

Appare a questa Corte opportuno esaminare per prima quest’ultima censura, con la quale si contesta – in definitiva – già il mero difetto di coerenza interna al sistema tra le scelte discrezionalmente compiute dal legislatore: vizio che questa Corte da sempre ritiene espressivo di una violazione dell’art. 3 Cost., il cui contenuto minimo è costituito dall’imperativo di eguale trattamento di casi simili (ex multis, da ultimo, sentenza n. 46 del 2024, punto 3.3. del Considerato in diritto).

3.2.– Sotto questo profilo, il rimettente non si duole, in via generale, dell’esistenza di regole penitenziarie differenziate – anche in materia di corrispondenza telefonica con i familiari – a detrimento dei detenuti e internati per i reati elencati nell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit. Piuttosto, egli lamenta che la disposizione censurata sottoponga alle medesime e più gravose regole in materia di corrispondenza telefonica l’intero insieme di tali detenuti e internati, senza distinguere tra quelli che non hanno accesso ai benefici, e quelli che invece ne possono usufruire. La disciplina applicabile a questi ultimi dovrebbe invece, nella sua prospettiva, essere equiparata a quella dei detenuti e internati “ordinari”.

3.3.– L’esame di questa censura esige un breve excursus sulla complessiva disciplina emergente dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. (infra, punto 3.3.1.) e sulla sua ratio (infra, punto 3.3.2.).

3.3.1.– Come è ampiamente noto, l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. prevede un regime penitenziario differenziato per i detenuti e internati per una nutrita serie di gravi reati, per lo più commessi in contesti di criminalità organizzata.

Tale regime è imperniato, essenzialmente, sulla preclusione all’accesso a molti degli ordinari benefici previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario in assenza di collaborazione con la giustizia.

Già dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. emerge dunque una prima, cruciale distinzione “interna” alla platea dei detenuti e internati per i reati ivi elencati: le preclusioni si applicano soltanto a coloro che non collaborano con la giustizia; i “collaboranti” hanno, invece, accesso a tutti i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, a condizioni – anzi – più favorevoli di quelle vigenti per la generalità degli altri detenuti, ai sensi dell’art. 58-ter, comma 1, ordin. penit.

Anche in mancanza di collaborazione con la giustizia, peraltro, ulteriori categorie di detenuti e internati per reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non sono sottoposti alle preclusioni ivi stabilite.

Per cominciare, il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., nella versione vigente prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 162 del 2022, come convertito, prevedeva tra l’altro che i benefici di cui al comma 1 potessero essere concessi a tali detenuti, ancorché “non collaboranti”, «purché [fossero] stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna» (collaborazione “inesigibile”), «ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, [rendessero] comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia» (collaborazione “impossibile”), o ancora nei casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, fosse stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116, secondo comma, del codice penale (collaborazione “irrilevante”). Tali deroghe alla preclusione generale di accesso ai benefici continuano oggi ad applicarsi ai condannati e agli internati che abbiano commesso i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 162 del 2022, come convertito, in forza dell’art. 3, comma 2, del medesimo decreto-legge, che ne ha sostanzialmente riprodotto il contenuto; e di una di tali deroghe, per l’appunto, continua oggi a beneficiare il reclamante nel giudizio a quo, al quale era a suo tempo stata riconosciuta l’impossibilità di collaborazione con la giustizia.

In questi casi, dunque, il detenuto o internato ha accesso ai benefici secondo le regole generali, come ogni altro detenuto o internato “ordinario”, salva la necessità puntuale di acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva» quale condizione per l’accesso ai singoli benefici.

Infine, il d.l. n. 162 del 2022, come convertito, – riformulando il comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit. nel solco tracciato da questa Corte con la sentenza n. 253 del 2019 e poi con l’ordinanza n. 97 del 2021– ha previsto in via generale (e dunque, a prescindere dal ricorrere delle ipotesi di cui al previgente comma 1-bis) che i condannati e gli internati per i reati di cui al comma 1, pur in assenza di collaborazione con la giustizia, possano comunque accedere ai benefici ivi indicati, in presenza di un’articolata serie di condizioni, tra le quali in particolare l’allegazione di «elementi specifici» che «consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile».

Anche in queste ultime ipotesi, dunque, per il detenuto o internato non operano le preclusioni di cui al comma 1.

In sintesi, il meccanismo preclusivo – o, “ostativo”, nel linguaggio ormai consolidato della prassi – stabilito dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non opera rispetto a tre specifici sottoinsiemi di detenuti e internati per i delitti ivi elencati:

– quelli che collaborino con la giustizia, per i quali vige addirittura un regime più favorevole di quello ordinario;

– quelli che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 162 del 2022, come convertito, i quali non collaborino invero con la giustizia, ma nei cui confronti sia stata riconosciuta la collaborazione “impossibile”, “inesigibile” o “irrilevante” alle condizioni oggi indicate dall’art. 3, comma 2, del medesimo decreto-legge, applicandosi agli stessi il regime ordinario di accesso ai benefici;

– quelli che non collaborino con la giustizia, ma rispetto ai quali sussistano le condizioni indicate dal comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., nel testo oggi vigente, e ai quali pure si applica il regime ordinario di accesso ai benefici.

3.3.2.– La ratio complessiva di questa disciplina, configurante ormai un vero e proprio sottosistema applicabile al trattamento penitenziario dei detenuti e internati per i reati elencati nel comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit., è stata oggetto di approfondita analisi da parte di questa Corte nella sentenza n. 253 del 2019.

In quella pronuncia si è sottolineato come il meccanismo preclusivo posto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. riposi sulla presunzione che, anche dopo l’ingresso in carcere, «i collegamenti con l’organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosità del condannato, con conseguente inaccessibilità ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti» (punto 7.1. del Considerato in diritto). In quest’ottica, la collaborazione processuale costituisce una sorta di prova legale della rottura del vincolo associativo rispetto al singolo detenuto, che a sua volta segnala l’inizio del suo percorso rieducativo, aprendo la strada alla successiva concessione dei vari benefici penitenziari.

Peraltro, già da epoca ben anteriore alla sentenza n. 253 del 2019 lo stesso legislatore aveva escluso che la presunzione in parola – e il conseguente meccanismo preclusivo – operasse nei casi in cui il condannato non avesse alcuna possibilità di offrire una efficace collaborazione alle indagini. Il che accadeva nelle ipotesi previste dal menzionato comma 1-bis dell’art. 4-bis ordin. penit., nella formulazione previgente al d.l. n. 162 del 2022, come convertito.

Nella sentenza n. 253 del 2019 e poi nell’ordinanza n. 97 del 2021 questa Corte ha, poi, evidenziato l’insostenibilità costituzionale di una presunzione assoluta del persistente mantenimento dei legami associativi – e pertanto della persistente pericolosità – del condannato per reati legati a un contesto associativo. «Non è affatto irragionevole» – si è scritto nell’ordinanza n. 97 del 2021 con formulazione calibrata sui condannati all’ergastolo che allora venivano in considerazione, ma generalizzabile a tutti i condannati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – «presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza». Ma una tensione con i principi costituzionali «si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza» (punto 7 del Considerato in diritto).

La nuova disciplina del comma 1-bis sopra menzionata intende, per l’appunto, dettare un meccanismo di presunzione meramente relativa di mantenimento dei legami del detenuto o internato con l’organizzazione di appartenenza, che può essere superata alle condizioni ivi indicate.

3.4.– Dalla ricostruzione precedente emerge che, ogniqualvolta il legislatore ritenga superata – per effetto della collaborazione processuale, ovvero sulla base dei puntuali accertamenti in punto di fatto di cui si è detto – la presunzione di persistente sussistenza del vincolo tra il condannato per un delitto di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. e l’associazione criminale, e dunque di una persistente pericolosità del condannato stesso, vengono meno al contempo le ragioni di una disciplina penitenziaria derogatoria sfavorevole rispetto a quella valevole per la generalità degli altri condannati.

Ciò non può non valere anche oltre l’orizzonte dei benefici cui si riferisce specificamente l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.

Una disciplina derogatoria in peius per questo sottoinsieme di detenuti e internati non potrebbe infatti giustificarsi, sul piano costituzionale, sulla base di ragioni puramente afflittive, in risposta alla particolare gravità dei delitti elencati nel comma 1 dell’art. 4-bis ordin. penit. Questa Corte ha già più volte escluso (sentenza n. 97 del 2020, punto 6 del Considerato in diritto; sentenza n. 351 del 1996, punto 5 del Considerato in diritto) che una simile finalità possa legittimare le severe restrizioni connesse al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., ritagliato sulla necessità di contenere la speciale pericolosità sociale di taluni detenuti e internati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin, penit. rispetto ai quali sussistano, in concreto, elementi tali da far ritenere l’attualità dei collegamenti con le associazioni criminose di appartenenza. E tale conclusione vale certamente anche rispetto al divieto di accesso ai benefici di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., fondato sulla presunzione di cui si è detto, così come rispetto alle altre regole che derogano in peius l’ordinaria disciplina penitenziaria nei confronti di questo insieme di condannati. Ogni misura che, a parità di pena inflitta, deroga in peius al regime penitenziario “ordinario” può, infatti, trovare legittimazione sul piano costituzionale – al cospetto della necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – soltanto in quanto sia necessaria e proporzionata rispetto al contenimento di una speciale pericolosità sociale del condannato (per una considerazione analoga, mutatis mutandis, sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto); e non invece, tout court, in chiave di ulteriore punizione in ragione della speciale gravità del reato commesso. È, infatti, la misura della pena che nel nostro ordinamento deve riflettere la gravità del reato, non già la severità del regime penitenziario.

3.5.– Ora, la disposizione censurata regola la corrispondenza telefonica del detenuto aggiuntiva (o “supplementare”) rispetto a quella già prevista dall’art. 39 reg. penit., e mira a sostituire, con una disciplina a regime, la normativa emergenziale adottata durante la pandemia da COVID-19, con la quale si era in effetti cercato di compensare la generalizzata sospensione dei colloqui in presenza potenziando l’accesso a videochiamate e telefonate supplementari con i familiari, rispetto ai limiti ordinariamente previsti dall’art. 39, comma 2, reg. penit.

Il segmento normativo di cui si duole il rimettente detta una regola – applicabile all’intero insieme dei detenuti o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit. – più restrittiva rispetto a quella che vale per la generalità degli altri detenuti e internati.

In particolare, questi ultimi possono essere ammessi a una telefonata “supplementare” giornaliera con i figli minori, con i figli maggiorenni portatori di una disabilità grave, ovvero con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, la persona stabilmente convivente o legata da relazione stabilmente affettiva, il padre, la madre o il fratello o la sorella qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. Tutti i detenuti o internati per i delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit., invece, sono ammessi a una sola telefonata settimanale con le medesime persone.

Come rileva il rimettente, questa disciplina è ictu oculi distonica rispetto a quella prevista per la corrispondenza telefonica “ordinaria” dall’art. 39 reg. penit., che attua la previsione generale in materia contenuta nell’art. 18, primo e settimo comma, ordin. penit. L’art. 39, comma 2, reg. penit. prevede infatti di regola, per la generalità dei condannati e internati, una telefonata alla settimana con i congiunti e i conviventi; e un regime più restrittivo di due telefonate al mese per quei soli detenuti o internati per i delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, ordin. penit. «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto».

La disciplina, pur di rango meramente regolamentare, dell’art. 39, comma 2, reg. penit. risulta espressiva del criterio generale sotteso all’art. 4-bis ordin. penit., che informa l’intero sottosistema delle regole penitenziarie applicabili ai detenuti e internati per i delitti ivi elencati: quello, cioè, in base al quale tali detenuti sono esclusi dalle regole ordinarie che vigono per la generalità degli altri detenuti soltanto nella misura in cui ad essi risulti in concreto applicabile la presunzione (oggi meramente relativa) di persistenza dei legami con l’associazione criminosa, e dunque di pericolosità sociale ancora attuale.

Laddove tale presunzione per qualsiasi motivo non operi, non v’è ragione per escluderli dall’applicazione delle regole ordinarie che vigono per la generalità dei detenuti e internati, ovvero per sottoporli a regole più restrittive.

La disposizione qui censurata equipara, invece, irragionevolmente quest’ultima categoria di detenuti e internati a quella composta da coloro che sono esclusi dai benefici in forza dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto presunti socialmente pericolosi; mentre l’intera logica sottostante al sistema penitenziario – recte: al sottosistema imperniato sull’art. 4-bis ordin. penit. – avrebbe piuttosto imposto di equiparare la categoria in esame alla generalità dei detenuti e internati, per i quali vige la più favorevole regola di una telefonata “supplementare” giornaliera (anziché soltanto settimanale) in presenza delle situazioni indicate nella disposizione in esame.

3.6.– L’irragionevolezza dell’equiparazione compiuta dalla disposizione censurata emerge, d’altra parte, con particolare evidenza laddove si consideri che i detenuti e internati in questione possono beneficiare, come ogni altro detenuto o internato, di misure che comportano l’uscita dal carcere, a cominciare dai permessi premio o dal lavoro all’esterno; ciò che consente loro di avere liberamente contatti con i rispettivi familiari, al di fuori di qualsiasi controllo da parte dell’amministrazione penitenziaria. Sicché risulta non ragionevole che, quando stiano in carcere, essi debbano soggiacere a una regolamentazione più restrittiva di quella vigente per la generalità dei detenuti con riguardo al solo regime della corrispondenza telefonica “supplementare”.

3.7.– Per altro verso ancora, a fronte della loro sottoposizione alle regole ordinarie per ciò che attiene alla corrispondenza telefonica “ordinaria” ai sensi dell’art. 39, comma 2, reg. penit., particolarmente irragionevole appare la drastica riduzione (da una telefonata al giorno a una alla settimana) delle possibilità di corrispondenza telefonica proprio con le speciali categorie di familiari elencate nella disposizione censurata – figli minori o portatori di disabilità grave, ovvero familiari o persone affettivamente legate ricoverati presso strutture ospedaliere –, rispetto alle quali è invece particolarmente importante assicurare la possibilità di contatti con il congiunto detenuto.

E ciò, segnatamente, per quanto riguarda il rapporto con i figli minori, che il vigente ordinamento penitenziario – in armonia con i principi sottesi all’art. 31 Cost., letti attraverso il prisma degli obblighi internazionali in materia di tutela dell’interesse preminente del minore – mira quanto più possibile a preservare nonostante le inevitabili limitazioni discendenti dall’esecuzione della pena (da ultimo, nella materia contigua dei colloqui “in presenza” con i figli minori, sentenza n. 105 del 2023, punto 9 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

3.8.– Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura.

4.– La reductio ad legitimitatem della disposizione censurata può essere effettuata semplicemente aggiungendo al terzo periodo la specificazione «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto,» subito dopo l’inciso iniziale del terzo periodo «[q]uando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354».

In tal modo, la regola speciale più restrittiva dettata dal terzo periodo – una sola telefonata a settimana – non varrà per tutti i detenuti o internati ai quali, per qualsiasi ragione, non si applichi il divieto di benefici previsto dall’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. A tali detenuti o internati sarà invece applicabile la regola generale di una telefonata giornaliera, valevole per la generalità degli altri detenuti, dettata dal secondo periodo della disposizione in esame.

Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte con l’ordinanza di rimessione concernono, nella loro formulazione letterale, la corrispondenza telefonica “supplementare” con il solo figlio minore. L’addizione dell’inciso «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto,» nel terzo periodo determinerà, peraltro, l’applicazione della regola generale di cui al secondo periodo anche per tutte le altre ipotesi in esso elencate, in relazione alle quali – del resto – risulterebbe del tutto irragionevole un trattamento deteriore, nei confronti di detenuti o internati per delitti di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ai quali non si applichi il divieto dei benefici ivi previsto, rispetto a quello vigente per la generalità della popolazione carceraria.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-quinquies, comma 1, del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28 (Misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70, nella parte in cui non prevede, al terzo periodo, dopo le parole «Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354,», le parole «per i quali si applichi il divieto dei benefici ivi previsto,».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 aprile 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Valeria EMMA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024

Il Cancelliere

F.to: Valeria EMMA

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