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Domiciliari al padre se la madre non può farsi carico dei figli

Corte Costituzionale, Sentenza n.52 del 18/04/2025

È costituzionalmente illegittimo il divieto di concedere al padre la detenzione domiciliare quando la madre sia deceduta o impossibilitata a occuparsi dei figli, ma questi possano essere affidati a terze persone.

Non viola, invece, i principi costituzionali il diverso trattamento, stabilito dall’ordinamento penitenziario, per la donna e l’uomo condannati che abbiano figli di età non superiore a dieci anni ovvero gravemente disabili.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 52 del 18 aprile 2025.

Il caso trae origine da due ordinanze dei Tribunali di sorveglianza di Bologna e Venezia, relative a padri detenuti con figli minori, uno dei quali gravemente disabile.

La normativa in materia

La norma oggetto di scrutinio è l'art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354, secondo cui il padre può accedere alla detenzione domiciliare solo se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri.

I giudici rimettenti sollevano questioni di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 2, 3, 27, 29, 30, 31 della Costituzione e agli artt. 8 e 14 della CEDU. Si contesta la disparità di trattamento tra madri e padri detenuti, fondata esclusivamente sul genere, che non rispetterebbe i principi di eguaglianza e di bigenitorialità.

La decisione

La Corte riconosce che, sebbene la legge tenda a privilegiare la madre in nome della tutela della maternità (art. 31 Cost.), la norma censurata introduce una doppia discriminazione: verso il padre, ridotto a figura genitoriale residuale, e verso i figli, che vengono privati di una relazione con almeno uno dei due genitori.

La Consulta chiarisce che:

  • è legittimo un trattamento più favorevole per la madre condannata, nel rispetto del principio costituzionale di tutela della maternità;

  • è illegittimo, invece, subordinare l'accesso del padre alla domiciliare alla mancanza di terze persone affidatarie.

Infatti, l'interesse del minore, in caso di assenza o impossibilità della madre, deve prevalere su esigenze astratte di esecuzione penale, se non vi è pericolo di recidiva. La disposizione censurata, afferma la Corte, è in contrasto con l'art. 3 Cost. (eguaglianza), l'art. 30 Cost. (dovere di mantenere, istruire ed educare i figli) e l'art. 31 Cost. (protezione della gioventù).

La Corte richiama anche la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui ogni distinzione basata sul sesso dev'essere giustificata da ragioni particolarmente pregnanti, non essendo ammissibili mere consuetudini sociali.

Conclusione

La Corte dichiara l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui prevede che il padre condannato possa ottenere la detenzione domiciliare solo se non vi è modo di affidare i figli a terzi.

Resta invece valida la parte della norma che limita la concessione al padre al caso in cui la madre sia deceduta o impossibilitata, purché questa "impossibilità" venga interpretata in modo estensivo, includendo anche situazioni in cui il carico assistenziale è oggettivamente insostenibile per la madre sola.

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SENTENZA N. 52

ANNO 2025

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da: Presidente: Giovanni AMOROSO; Giudici : Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promossi con ordinanze del 10 aprile 2024 dal Tribunale di sorveglianza di Bologna e del 26 settembre 2024 dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, nei procedimenti di sorveglianza nei confronti di M. C. e D. M.G., rispettivamente iscritte ai numeri 174 e 197 del registro ordinanze 2024 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 40 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2025 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 10 marzo 2025.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 10 aprile 2024 (iscritta al n. 174 del reg. ord. 2024), il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollevato, in via principale, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare può essere concessa al padre detenuto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

In via subordinata, la medesima disposizione è censurata, in riferimento agli stessi parametri, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare può essere concessa al padre detenuto se «non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

1.1.– Il rimettente deve provvedere sulla richiesta di M. C., detenuto presso la Casa circondariale di Ferrara dal 10 settembre 2023 per scontare una pena di quattro anni, undici mesi e dodici giorni di reclusione, volta ad ottenere la concessione della misura della detenzione domiciliare speciale ai sensi dell’art. 47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit., al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli minori.

Il giudice a quo espone che i figli del richiedente, a lui affidati dal Tribunale per i minorenni, sono attualmente accuditi dalla loro sorella maggiore.

L’istanza del detenuto dovrebbe, pertanto, essere rigettata. Da un lato, la madre avrebbe comunque diritto di vedere i figli e di mantenere un rapporto con gli stessi, seppur non continuativo; dall’altro, i figli vivrebbero attualmente in una situazione serena presso la famiglia della sorella, senza che emergano carenze di cura e di assistenza.

1.2.– Il rimettente dubita, tuttavia, della compatibilità con i parametri costituzionali menzionati della disposizione censurata.

Ciò, anzitutto, in relazione alla «scelta legislativa di operare a monte una differenziazione tra le due figure genitoriali, padre e madre, nella cura del minore (o del figlio affetto da handicap) stabilendo una cornice normativa evidentemente più favorevole per le detenute di sesso femminile rispetto ai detenuti di sesso maschile, in cui l’elemento discretivo è dato esclusivamente dal genere del genitore». Tale scelta si tradurrebbe in una discriminazione irragionevole, tenuto conto dello scopo della disposizione censurata, «in cui l’interesse costituzionale prevalente non è tanto quello della tutela della maternità, bensì quello di garantire assistenza al soggetto bisognoso di cura in modo da non pregiudicarne lo sviluppo psico-affettivo».

Il rimettente ripercorre dettagliatamente l’evoluzione normativa e gli interventi di questa Corte che hanno, a partire dagli anni Ottanta, introdotto e poi progressivamente esteso misure alternative alla detenzione, benefici penitenziari e misure cautelari specifiche in favore dei genitori di figli in tenera età ovvero con disabilità, nonché il differimento della pena in favore della madre di prole di età inferiore ai tre anni; e ciò parallelamente allo sviluppo della normativa giuslavoristica e previdenziale, parimenti rivolta a tutelare l’«esercizio della genitorialità quale attività di cura ed educazione della prole nell’interesse di quest’ultima».

Peraltro, il legislatore, in un contesto storico in cui ancora «il lavoro di cura era culturalmente prerogativa della madre-donna», avrebbe «scelto di non realizzare una esatta parificazione tra i due sessi, attribuendo al padre un ruolo di mera supplenza rispetto alla madre».

Tale scelta normativa risulterebbe oggi inadeguata rispetto alle recenti acquisizioni della letteratura scientifica, che avrebbero «messo in discussione l’assunto per cui le funzioni dei genitori siano biologicamente determinate in ragione del genere del soggetto accudente». Se è pur vero, afferma il giudice a quo, «che nella maggior parte delle società umane in genere è una donna – ma non sempre la madre biologica – o un gruppo di donne ad occuparsi dei bambini, si sono registrate anche opzioni sociali differenti, in cui il ruolo di cura della prole (parenting) è o affidato direttamente al padre (raramente) o modellato su una cooperazione tra i genitori, fino a forme di intercambiabilità diffusa tra le figure genitoriali». Sebbene «non possa negarsi che la madre può avere, quantomeno in una fase iniziale dello sviluppo del bambino, un ruolo di cura primario, legato prevalentemente all’allattamento al seno, successivamente le differenze nel rapporto di interazione tra le figure genitoriali e la prole» sarebbero «più propriamente condizionate da condizioni ecologiche […] e da costrutti sociali-ambientali, piuttosto che dal sesso del genitore».

Gli studi più recenti evidenzierebbero inoltre che «l’ambiente più confacente all’armonico sviluppo della personalità del minore è quello in cui si realizza il cosiddetto coparenting, vale a dire la cooperazione tra i ruoli genitoriali fondata sulla intercambiabilità e condivisione del ruolo di cura, piuttosto che su una rigida separazione di funzioni fondata sul genere».

Tali acquisizioni avrebbero trovato riconoscimento normativo – nel diritto di famiglia italiano e, a livello sovranazionale, nella Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 – attraverso l’affermazione di un «generale diritto del minore alla c.d. bigenitorialità», quale corollario del dovere di entrambi i genitori di garantire cura ed educazione alla prole.

Importanti statuizioni di principio potrebbero trarsi in proposito dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale ogni differenziazione di trattamento sulla base del sesso deve essere sorretta da ragioni particolarmente pregnanti, non risultando sufficienti, in particolare, «riferimenti alle tradizioni, ad assunti generali o ad attitudini sociali prevalenti in un dato paese» (sono citate Corte EDU, terza sezione, sentenza 19 marzo 2024, B.T. contro Russia, paragrafo 38; grande camera, sentenze 11 ottobre 2022, Beeler contro Svizzera, paragrafo 113 e 22 marzo 2012, Konstantin Markin contro Russia, paragrafo 127).

Alla luce di tutto ciò, dovrebbe ritenersi che «la inesatta parificazione del padre e della madre detenuti per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale sia il frutto di una scelta intrinsecamente irragionevole e fondata su una tradizione culturale priva di effettivo portato empirico». In assenza di pericoli per la collettività, «un’esecuzione penale esterna che mediante il ripristino della convivenza con il figlio bisognoso di cura consenta l’esercizio della genitorialità» sarebbe in via generale «da ritenersi costituzionalmente preferibile ad una esecuzione inframuraria che, irragionevolmente, sacrifichi la tutela della prole in età di sviluppo e dei soggetti affetti da handicap». In un siffatto contesto, una «differenziazione uomo-donna» risulterebbe «ingiustificata rispetto all’oggetto di tutela», dal momento che la figura maschile e quella femminile sarebbero entrambe adeguatamente in grado di assolvere al ruolo genitoriale.

La disposizione censurata si porrebbe, così, in contrasto con l’art. 3, secondo comma (recte: primo comma), Cost., poiché disciplinerebbe «situazioni che si ritengono equivalenti in modo diseguale».

Essa violerebbe inoltre gli artt. 29, 30 e 31, secondo comma, Cost., in quanto la previsione di favore da essa stabilita non sarebbe giustificabile rispetto alle esigenze di tutela della famiglia, della genitorialità e della parità tra coniugi-genitori, nonché della protezione della gioventù.

In particolare, effetti discriminatori si verificherebbero nei confronti della madre-lavoratrice, la quale, in assenza del padre detenuto, dovrebbe farsi carico tanto della cura della prole quanto del mantenimento economico della famiglia, sacrificando eventualmente la propria capacità lavorativa; mentre il padre-lavoratore non si troverebbe mai in questa situazione, potendo contare sulla concessione della misura alternativa per la madre detenuta.

Sarebbe altresì violato l’art. 2 Cost., «laddove si considerino gli effetti della disciplina in esame in relazione alle cosiddette famiglie di fatto o omogenitoriali», la cui tutela sarebbe stata ricondotta da questa Corte «nell’alveo di quelle formazioni sociali in cui si esplica la personalità degli individui». In particolare, i figli di una unione civile tra due uomini sarebbero irragionevolmente sottoposti ad una disciplina deteriore di quella riservata ai figli di una unione civile tra due donne, risultando qui «residuale la possibilità per i figli della coppia di avere la presenza di entrambi i genitori».

Infine, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, così come interpretati dalla Corte EDU nella citata giurisprudenza.

1.3.– A fronte della denunciata irragionevolezza del trattamento differenziato tra madre e padre, due opzioni sarebbero «normativamente praticabili e ragionevoli costituzionalmente»: «o omologare la condizione della madre a quella del padre, valutando se l’assenza del genitore donna pregiudichi in concreto lo sviluppo dei figli a fronte della presenza dell’altro partner uomo o di terzi in grado di assicurare assistenza; o (ed è quel che qui si auspica) parificare la condizione del padre a quella della madre, garantendo il mantenimento del rapporto di cura con entrambi i genitori, laddove non sussistano, in concreto, pericoli per la collettività e consentendo di tutelare massimamente l’interesse di cura della prole di cui all’art. 31 c. 2 della Carta Costituzionale».

La prima opzione comporterebbe una pronuncia additiva in malam partem da parte di questa Corte in materia penale, ciò che renderebbe manifestamente inammissibili le questioni prospettate. Sarebbe invece «preferibile e costituzionalmente vincolata» la seconda opzione, che garantirebbe la massima espansione dell’interesse alla tutela della prole, salvaguardando al tempo stesso la sicurezza della collettività e gli interessi sottesi all’esecuzione della pena.

1.4.– Le questioni di legittimità costituzionale indicate sarebbero rilevanti ai fini della decisione sull’istanza di detenzione domiciliare speciale, a prescindere dall’accertamento nel caso di specie degli altri requisiti a tal fine necessari. Ciò sulla base della considerazione che la decisione di accoglimento di questa Corte influirebbe quantomeno sull’iter argomentativo della decisione sull’istanza del ricorrente.

Ad ogni modo, il giudice a quo segnala che l’istruttoria svolta suggerisce l’effettiva ricorrenza delle condizioni ulteriori per la concessione della misura in esame, in caso di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

1.5.– In via subordinata, il giudice a quo solleva, in riferimento ai medesimi parametri, questioni di legittimità costituzionale sul solo frammento della disposizione censurata che, in caso di decesso o impossibilità della madre, subordina la concessione della misura al padre alla condizione che non vi sia modo di affidare la prole a persone diverse da quest’ultimo.

Tale previsione frusterebbe irragionevolmente il ruolo del padre, «attribuendogli rilevanza solo quale extrema ratio normativa nell’affidamento dei figli».

Essa sarebbe, inoltre, distonica rispetto ad altre disposizioni assunte a tertia comparationis, quali l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che consente la concessione della detenzione domiciliare “ordinaria” al padre laddove la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, e l’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, il quale, in presenza di tale condizione, esclude che possa essere disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti del padre, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Nessuna delle due disposizioni richiede la dimostrazione dell’assenza di terze persone in grado di prendersi cura dei minori.

Né si potrebbe sostenere che il più restrittivo requisito previsto dalla disposizione censurata valga a «controbilanciare» l’assenza di limiti di pena per l’accesso alla misura da essa prevista, diversamente da quanto avviene per la misura di cui all’art. 47-ter ordin. penit. Infatti, «prevedere che, nonostante il padre risulti non pericoloso e possa eseguire all’esterno la propria pena, il suo ruolo di cura venga postergato a quello fornito dai terzi» costituirebbe «scelta illogica che sacrifica sull’altare di esigenze securitarie astratte il rapporto genitoriale contro l’interesse del padre (con lesione degli artt. 3 c. 2 e 30 Cost. rispetto alla madre) e del minore-figlio (con lesione dell’art. 31 c. 2 Cost.)». La stessa giurisprudenza di legittimità sull’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. avrebbe, del resto, sottolineato che la legge non ha riconosciuto una funzione sostitutiva a terze persone rispetto al ruolo del padre, «considerato che la formazione del bambino può essere gravemente pregiudicata dall’assenza di una figura genitoriale, la cui infungibilità deve, pertanto, fin dove possibile, essere assicurata, trovando fondamento nella garanzia che l’articolo 31 Cost. accorda all’infanzia» (è citata Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 30 aprile-4 luglio 2014, n. 29355).

Nel caso, infine, in cui fossero accolte le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata, il rimettente sottopone all’attenzione di questa Corte l’opportunità di una declaratoria di illegittimità costituzionale consequenziale, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 21-bis, comma 3, ordin. penit., che – nel disciplinare l’assistenza all’esterno dei figli minori – prevede la medesima limitazione, esponendosi così alle stesse censure prospettate con riguardo alla disposizione censurata.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ritiene, in primo luogo, che le questioni di legittimità costituzionale siano inammissibili, in quanto irrilevanti o, comunque, in ragione della «insufficiente descrizione della fattispecie di incostituzionalità».

L’ordinanza non chiarirebbe, in particolare, «se dopo la detenzione del padre il Tribunale per i minorenni abbia formalmente disposto l’affidamento dei minori alla sorella o se allo stato si tratti di affidamento in via di mero fatto»; né il rimettente avrebbe verificato «se non sia adesso possibile, nella sopravvenuta indisponibilità del padre, affidare i minori alla madre».

La questione di legittimità costituzionale, «sollevata nell’ottica specifica di tutela del superiore interesse della prole a godere della presenza dei genitori», sarebbe poi «priva di ragione perché irrilevante», potendo la madre occuparsi della crescita dei figli, come riconosciuto dal Tribunale per i minorenni.

Inammissibili sarebbero, in secondo luogo, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis ordin. penit., da dichiararsi fondate con una pronuncia di illegittimità costituzionale consequenziale, in quanto tale disposizione non sarebbe avvinta a quella censurata da alcun vincolo di consequenzialità, disciplinando un istituto del tutto differente da quello ora in esame.

2.2.– Nel merito, le questioni sollevate in via principale sarebbero comunque infondate.

Non potrebbe infatti ritenersi irragionevole la differente considerazione della posizione della madre e del padre nei confronti dei figli minori, posta a fondamento della generale preferenza per la madre espressa nella disposizione censurata, come riconosciuto dalla sentenza n. 219 del 2023 di questa Corte pronunciando sulle analoghe censure formulate con riguardo all’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit.

Parimenti infondata sarebbe la questione sollevata in via subordinata.

In particolare, non sarebbe irragionevole la riscontrata differenza di disciplina tra la disposizione censurata e le due disposizioni assunte a tertia comparationis. Con riguardo all’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., non potrebbe non tenersi conto della minore pericolosità del soggetto condannato desumibile dai limiti di pena massima previsti per l’applicazione della misura contemplata da tale disposizione; mentre con riguardo all’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. non potrebbe trascurarsi la circostanza che la norma non attenga all’espiazione della pena, ma all’applicazione di una misura cautelare.

3.– Ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’Associazione italiana dei professori di diritto penale (AIPDP) ha depositato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae, ammessa con decreto presidenziale del 17 gennaio 2025.

L’AIPDP condivide integralmente i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal giudice rimettente, ritenendo che la disposizione censurata determini una differenziazione non giustificabile tra i ruoli genitoriali fondata esclusivamente sul genere. Tale disposizione si fonderebbe su una concezione ormai anacronistica e contraria alle recenti acquisizioni della letteratura scientifica, muovendo dall’insostenibile presupposto secondo cui il padre svolgerebbe un ruolo meramente subalterno e residuale nell’accudimento e nella crescita della prole, anche «nelle fasi di sviluppo successive a quella neo-natale». Essa si porrebbe pertanto in conflitto con il principio di uguaglianza, ritenuto «incomprimibile» e dunque non bilanciabile con altri interessi, individuali o collettivi.

L’opinione si sofferma inoltre sulle conseguenze in termini di discriminazione economica in base al genere derivanti dalla disciplina in esame così come interpretata dalla giurisprudenza, la quale esclude in particolare che l’attività lavorativa della madre possa integrare una situazione di impossibilità nella cura della prole. La madre che non possa contare sul supporto nella cura della prole da parte del padre detenuto sarebbe di fatto indotta a sacrificare la propria attività lavorativa, abbandonando il suo impegno lavorativo ovvero riducendo gli orari di lavoro, in favore degli impegni familiari. Ciò rischierebbe di «acuire il gender gap lavorativo in un contesto in cui il nostro Paese già rappresenta il fanalino di coda nelle classifiche UE per il più basso tasso di occupazione delle donne».

Fondate sarebbero, poi, anche le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata. L’irragionevolezza del frammento di disposizione censurato emergerebbe in particolare dal raffronto con l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che non contiene l’inciso «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre». Tale requisito non potrebbe «trovare giustificazione nell’ottica del bilanciamento, interno all’opzione normativa, tra i diversi interessi in gioco». La preferenza accordata ai terzi nell’accudimento della prole apparirebbe, infatti, ingiustificata tanto rispetto alle esigenze di tutela della prole, che verrebbe privata dell’assistenza e dell’affetto di entrambi i genitori, quanto con riguardo alle esigenze di difesa sociale, dal momento che la misura potrebbe comunque applicarsi solo laddove «non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». La scelta legislativa, dunque, non potrebbe spiegarsi se non con la volontà di «assicurare, ad ogni costo, l’esecuzione intramuraria della pena, ritenuta evidentemente quella in grado di soddisfare maggiormente la pretesa punitiva dello Stato».

4.– Con ordinanza del 26 settembre 2024 (iscritta al n. 197 del reg. ord. 2024), il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, «nella parte in cui prevede che ai detenuti padri può essere concessa la detenzione domiciliare speciale solo “se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre”».

4.1.– Il rimettente deve provvedere sulla richiesta di concessione della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, commi 7 e 1-bis, ordin. penit. formulata da D. M.G., detenuto presso la casa circondariale di Vicenza per scontare la pena di undici anni, un mese e quindici giorni di reclusione, risultante dal cumulo di due distinte sentenze di condanna per vari reati, tra i quali associazione a delinquere, furto, rapina e ricettazione.

Il richiedente, che ha già fruito di permessi di necessità ex art. 30 ordin. penit. e di visite al minore infermo ex art. 21-ter, comma 1, ordin. penit., ha un figlio minore in una situazione di grave disabilità, con necessità di continua assistenza, dovuta a un trauma cranico commotivo riportato a seguito di un incidente. Il bambino è «alimentato tramite PEG, comunica attraverso le espressioni del volto e il pianto, usa tutori per gamba e piede e il bustino; subisce periodici ricoveri e visite specialistiche e la sua situazione è ad oggi descritta dai sanitari come caratterizzata da cronicità, irreversibilità e progressiva degenerazione». Dall’indagine socio-familiare condotta dall’ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) emerge altresì come la madre del minore attualmente si occupi da sola del bambino, non essendo significativamente supportata né dalla propria famiglia di origine, né da quella del marito. La madre riferisce inoltre come il recente peggioramento delle condizioni del bambino ne renda sempre più difficoltosa la gestione, anche in relazione alle sue frequenti crisi respiratorie; e sottolinea come il marito nel corso delle esperienze premiali abbia «dimostrato una capacità di gestione della responsabilità genitoriale che permett[e] a lei di riposarsi anche solo per qualche ora». La documentazione medica acquisita conferma il complessivo recente peggioramento delle condizioni di salute del bambino, che renderebbe indicata una terapia antalgica più aggressiva, rispetto alla quale la madre ha espresso obiezioni, mentre il padre appare comprenderne la necessità.

Il giudice a quo evidenzia poi come la condotta intramuraria del richiedente appaia complessivamente corretta e caratterizzata da una positiva partecipazione alle attività trattamentali e al lavoro presso la cucina dell’istituto; parimenti, la sua condotta durante i permessi speciali di cui ha sin qui fruito risulta essere stata corretta.

Quanto ai presupposti per la concessione del beneficio richiesto, il rimettente osserva che il detenuto istante non ha ancora espiato un terzo della pena, ciò che rende inapplicabile il comma 1 dell’art. 47-quinquies ordin. penit. Tuttavia, il comma 1-bis della medesima disposizione, in combinato disposto con il successivo comma 7, consente anche ai padri condannati per reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. (come nel caso del richiedente) l’accesso alla misura alternativa, laddove non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga: pericoli che il giudice a quo ritiene non sussistenti nel caso in esame, anche alla luce dei benefici di cui il richiedente ha già fruito in passato. Apparirebbe dunque possibile, sotto questo profilo, un ripristino della convivenza tra padre e figlio, «potendo senz’altro la vicinanza della figura paterna avere effetti positivi quantomeno a livello emotivo-sensoriale del bambino».

Non costituirebbe ostacolo a una tale soluzione la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale applicata in una delle due sentenze in esecuzione, dal momento che, ai sensi dell’art. 7 della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), l’applicazione di un beneficio previsto dalla legge determina, per il tempo in cui lo stesso è applicato, la sospensione della pena accessoria. Ove dunque il giudice ritenga che, come nel caso all’esame, il ripristino della convivenza tra genitore e minore sia effettivamente funzionale alla tutela dei migliori interessi del minore, la pena accessoria dovrebbe considerarsi sospesa. Anche in assenza della previsione di cui all’art. 7 della legge n. 40 del 2001, peraltro, la pena accessoria non farebbe venir meno il generale dovere di cura verso i figli in capo al genitore.

A impedire, però, la concessione del beneficio richiesto starebbe la condizione, stabilita dal comma 7 dell’art. 47-quinquies ordin. penit. per i condannati padri, del decesso o dell’impossibilità della madre, e del non esservi modo di affidare la prole ad altri che al padre. E ciò anche in relazione alla interpretazione di tale requisito da parte della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il requisito dell’impossibilità della madre andrebbe inteso in senso oggettivo, in una accezione equivalente alla «impossibilità assoluta» di accudire il figlio (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 19 dicembre 2017-5 giugno 2018, n. 25164), non integrata dalla circostanza del mero impegno lavorativo della madre (è richiamata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 15 marzo-12 settembre 2016, n. 37859) e identificabile piuttosto in una situazione che «determina il rischio concreto per la prole di un grave deficit assistenziale e di un’irreversibile compromissione del suo processo evolutivo ed educativo» (è citata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 10 dicembre 2020-8 febbraio 2021, n. 4796).

La disposizione in esame considererebbe, dunque, il padre come «fruitore del beneficio solo in funzione “vicaria” rispetto alla madre, ritenuta dal legislatore come il genitore maggiormente “votato” alla cura dei figli in tenera età o disabili».

4.2.– Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disposizione.

Il rimettente rammenta che questa Corte si è di recente pronunciata, con la sentenza n. 219 del 2023, sulla disciplina della detenzione domiciliare ordinaria di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit., giudicando non fondate le questioni di legittimità costituzionale allora sollevate. Tuttavia, osserva come in quell’occasione venissero in considerazione i soli interessi del minore a una relazione continuativa con entrambi i genitori, ritenuti non necessariamente prevalenti rispetto alle esigenze sottese alla esecuzione della pena, non essendo stata invece censurata la disciplina «in relazione alla diversa considerazione dei diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli che fanno capo alla madre», né essendo stata sollevata «una questione di discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso a misure alternative alla detenzione». Profili, entrambi, che il giudice a quo intende ora sottoporre all’attenzione di questa Corte.

Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata sarebbe viziata in effetti da una «impostazione discriminatoria», che assegnerebbe alla madre «l’indefettibile ruolo di genitore deputato alla cura della prole», e al padre «un ruolo meramente vicario e subalterno, addirittura rispetto anche ad altre “terze” persone». Tale discriminazione si tradurrebbe, d’altra parte, anche in un «vulnus alla tutela del minore (non sotto il profilo della bigenitorialità) ma sotto il profilo educativo e assistenziale in sé, posto che egli di fatto potrà fruire dell’unica figura materna – vulnus che si amplifica solo a considerare le ipotesi in cui vi siano più figli minori da accudire».

Violato sarebbe, anzitutto, il principio dell’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi di cui all’art. 29 Cost. Dopo avere brevemente ripercorso l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, il rimettente osserva come il ruolo genitoriale, di madre e di padre, dovrebbe oggi ritenersi parificato, nel senso di possibilità di accesso di entrambi i genitori alle misure che nei vari settori dell’ordinamento mirano ad assicurare l’effettività dei rapporti con i figli.

La differente disciplina dettata in materia di detenzione domiciliare speciale si tradurrebbe così in una «duplice discriminazione: ai danni della donna in quanto, come madre, le viene attribuito un ruolo primario ed indispensabile anche a scapito del rispetto del suo essere come donna o in generale come “persona” (pretendendosene di fatto un annullamento in nome della cura ed assistenza alla prole), ma altresì ai danni del padre poché la norma ne ritaglia un ruolo vicario e suppletivo, anziché paritario ed autonomo».

Una simile disciplina sarebbe basata su «dati e tradizioni culturali» che non sarebbero più giustificabili di fronte ai mutamenti sociali che hanno interessato l’ambito familiare.

Da ciò deriverebbe altresì il contrasto della disciplina medesima con l’art. 3, secondo comma (recte: primo comma), Cost., «posta la palese violazione dell’uguaglianza tra persone in ragione del sesso di appartenenza», nonché con l’art. 2 «volendo riguardare alla parità tra le persone da riconoscersi anche nell’ambito delle formazioni sociali oltre che nell’ambito del rapporto coniugale (art. 29 Cost.)».

La disciplina censurata sarebbe, altresì, incompatibile con gli artt. 30 e 31 Cost., per le ragioni già evidenziate dalla sentenza n. 215 del 1990 di questa Corte, con la quale fu esteso anche al padre – nel caso in cui la madre manchi o sia assolutamente impossibilitata ad espletare il compito di cura e assistenza al minore – l’accesso alla misura della detenzione domiciliare allora prevista dall’art. 47-ter, primo comma, numero 1), ordin. penit.

In definitiva, la mancata parità di condizioni di accesso alla misura violerebbe, al contempo, «l’uguaglianza tra uomo e donna, la parità tra i genitori e lo stesso interesse primario del minore».

La disposizione sarebbe, inoltre, incompatibile con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, stabilendo una ingiustificata «differenziazione del trattamento normativo in base al sesso» (sono citate le sentenze Konstantin Markin contro Russia, paragrafo 127; Beeler contro Svizzera, paragrafi 93 e seguenti; B.T. contro Russia, paragrafi 40 e seguenti), anche alla luce dell’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132, a tenore del quale «[l]’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio».

Il rimettente dà conto, peraltro, di talune pronunce con cui la Corte EDU non ha ritenuto sussistere una violazione dell’art. 14 CEDU in materia di discriminazioni tra uomo e donna nel trattamento sanzionatorio e penitenziario (sono citate Corte EDU, grande camera, sentenza 24 gennaio 2017, Khamtokhu e Aksenchik contro Russia; sezione quarta, sentenza 3 ottobre 2017, Alexandru Enache contro Romania; sezione quinta, sentenza 10 gennaio 2019, Ecis contro Lettonia), ma osserva come nel caso all’esame si discute non di un bambino in tenerissima età, specialmente bisognoso delle cure della madre, ma di un «minore afflitto da grave disabilità rispetto a cui il ruolo genitoriale appare del tutto intercambiabile».

Infine, sarebbero violati il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. – «funzione a cui devono evidentemente tendere in generale anche le misure alternative alla pena e dunque anche l’art. 47 quinquies co. 7 o.p., e che non sarebbe realizzata negando al padre detenuto l’accesso alla misura, ponendosi ciò anzi in termini tutt’altro che rieducativi, perpetrando una concezione oggi non più accettabile (né rispondente alla realtà) dei ruoli sociali e all’interno della famiglia (lato sensu intesa)».

La disposizione censurata sarebbe dunque costituzionalmente illegittima tanto con riferimento all’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata»; quanto con riferimento all’inciso successivo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», che «assegna al ruolo di padre-genitore una posizione assolutamente marginale e residuale», con scelta distonica rispetto a quella compiuta, ad esempio, dall’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che non contempla una simile condizione rispetto al divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti del padre, salvo il ricorrere di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, in caso di assoluta impossibilità della madre a prendersi cura dei figli.

5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

5.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, in primo luogo, il difetto di rilevanza delle questioni.

La situazione familiare del detenuto istante sarebbe stata ricostruita dal rimettente «con dettagli alquanto scarsi», sufficienti peraltro a escludere la ricorrenza del presupposto di applicazione della disposizione censurata, e cioè l’impossibilità in concreto di affidamento della prole alla madre. Da ciò deriverebbe l’irrilevanza della questione, «posto che il minore fruisce in atto dell’assistenza della madre, oltre che dei presìdi medico-sanitari messi a disposizione dal SSN», sicché «la funzione della norma censurata, di tutelare il superiore interesse della prole» sarebbe già adeguatamente assolta.

5.2.– Le questioni sarebbero, comunque, manifestamente infondate nel merito.

Nel caso in cui «difettino i presupposti di applicazione della norma», «l’interesse collettivo all’esecuzione della sanzione, come presidio di difesa sociale», non potrebbe soccombere di fronte ai concorrenti interessi individuati dal giudice rimettente, dovendo trovare conferma quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 219 del 2023 con riferimento all’interesse del minore. Invero gli altri valori costituzionali richiamati dall’ordinanza sarebbero di rango inferiore rispetto a quest’ultimo. La disposizione censurata mostrerebbe «una evidente e indiscutibile razionalità» nel limitare l’accesso alla detenzione domiciliare speciale soltanto ai casi nei quali essa sia imposta «da una necessità davvero insuperabile», che sola sarebbe in grado di «rendere recessiva l’altrettanto necessaria esecuzione della pena per le sue forme proprie».

Quanto al profilo – «l’unico […] potenzialmente meritevole di più attenta valutazione» – del trattamento differenziato tra il genitore di sesso maschile e quello di sesso femminile, esso non si connoterebbe di alcuna irragionevolezza, per le medesime considerazioni, trasponibili al caso di specie, già spese da questa Corte nella menzionata sentenza n. 219 del 2023.

Infondate sarebbero, infine, le censure relative all’inciso «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre». La previsione di un trattamento di maggior favore per la detenuta madre sarebbe giustificata dal contesto normativo di rango internazionale, evocato dalla precedente sentenza di questa Corte, «che per la madre pretende una maggior tutela e che legittima anche il sacrificio del valore di rango costituzionale [de]ll’esecuzione della sanzione, come strumento di difesa sociale».

 

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza iscritta al n. 174 del reg. ord. 2024, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., con riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare sostitutiva può essere concessa al padre detenuto soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

In via subordinata, il rimettente solleva identiche questioni sul solo inciso «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

2.– Con l’ordinanza iscritta al n. 197 del reg. ord. 2024, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit. in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 29, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, nella parte in cui prevede che la detenzione domiciliare può essere concessa al padre detenuto soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

3.– I due giudizi concernono questioni in larga misura sovrapponibili e meritano, pertanto, di essere riuniti ai fini della decisione.

Entrambi i rimettenti si dolgono, in sintesi, del differente trattamento del padre e della madre condannati, quanto alle condizioni di accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare speciale. Tale misura è prevista dall’art. 47-quinquies ordin. penit. per i genitori condannati che non possano fruire della detenzione domiciliare “ordinaria” ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit., la quale è invece riservata ai condannati che espiino una pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena.

Le condannate madri di figli di età non superiore a dieci anni, ovvero gravemente disabili, possono essere ammesse alla misura, una volta scontato almeno un terzo della pena ovvero quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (comma 1); ovvero anche prima di tale termine, «se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti o di fuga» (comma 1-bis).

Il padre condannato può, invece, essere ammesso alla misura ai sensi del censurato comma 7, in presenza delle condizioni indicate nei commi 1 e 1-bis (comuni alle condannate madri), soltanto «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

I due giudici quibus sollecitano questa Corte a eliminare quest’ultimo inciso, equiparando così le condizioni di accesso alla misura per i detenuti padri e madri.

Secondo i rimettenti, l’attuale disciplina violerebbe:

– il principio di pari dignità e di uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso (art. 3, primo comma, Cost.), il divieto di discriminazione fondato sul sesso nel godimento del diritto alla vita familiare (artt. 8 e 14 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.), il principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 29, secondo comma, Cost.), nonché il principio di parità di trattamento delle parti di formazioni sociali diverse dal matrimonio, che troverebbe il proprio fondamento nell’art. 2 Cost.;

– il principio dell’interesse primario del minore desumibile dagli artt. 30 e 31 Cost., e in particolare – secondo il Tribunale di sorveglianza di Bologna – il diritto del minore alla cosiddetta “bigenitorialità”, quale corollario del dovere di entrambi i genitori di garantire cura ed educazione alla prole;

– la necessaria funzione rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, terzo comma, Cost., per il solo Tribunale di sorveglianza di Venezia.

Il solo Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via subordinata, auspica l’ablazione quanto meno del frammento normativo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»: ciò che consentirebbe al padre condannato di essere ammesso alla misura allorché la madre sia deceduta o impossibilitata, indipendentemente dalla circostanza che altre persone siano in grado di accudire i bambini.

4.– Circa l’ammissibilità delle questioni, occorre rilevare quanto segue.

4.1.– Rispetto alle questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce il loro difetto di rilevanza, o comunque l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo.

L’eccezione non è fondata.

Il rimettente riferisce un quadro fattuale sufficiente a consentire a questa Corte la verifica della rilevanza delle questioni aventi ad oggetto la disposizione censurata. Dall’ordinanza risulta, infatti, che i figli minori del condannato istante erano, al momento della proposizione delle questioni, affidati alla loro sorella maggiore, aggiungendo che non erano evidenziabili deficit di cura e assistenza nei confronti dei medesimi. In tale situazione, l’accesso alla detenzione domiciliare speciale era a priori precluso al richiedente, sulla base della disposizione censurata, e in particolare dell’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» su cui si indirizzano le censure del rimettente. L’ablazione di tale inciso da parte di questa Corte consentirebbe invece al Tribunale di valutare funditus se ricorrano o meno le ulteriori condizioni per l’accesso alla misura stabilite dalla disposizione censurata.

Analoga conclusione si impone per ciò che concerne le questioni, formulate in via subordinata, che investono soltanto il frammento «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre». Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è necessario – ai fini della rilevanza di una questione – che il suo accoglimento determini un esito decisionale diverso da quello cui si perverrebbe in applicazione della disposizione censurata, essendo sufficiente che esso necessariamente influisca sull’iter motivazionale che dovrà condurre alla decisione (da ultimo, sentenze n. 135 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto; n. 122 del 2024, punto 2.1. del Considerato in diritto; n. 164 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto). Nel caso oggetto del giudizio a quo, alla luce della disposizione censurata il giudice dovrebbe rigettare de plano l’istanza del richiedente, per la sola circostanza che i minori sono attualmente affidati alla loro sorella maggiore. Laddove, invece, venissero accolte le questioni formulate in via subordinata, l’eventuale rigetto dell’istanza dovrebbe essere diversamente motivato, sulla base di un accertamento in concreto dell’idoneità della madre a prendersi cura dei figli: accertamento che, alla stregua della disposizione così come attualmente configurata, il giudice rimettente non aveva alcuna necessità di compiere.

4.2.– Rispetto, poi, alle questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, l’Avvocatura generale dello Stato ne eccepisce nuovamente il difetto di rilevanza, assumendo che il rimettente avrebbe ricostruito in termini «alquanto scarsi» la situazione familiare dell’istante, ma comunque in modo sufficiente a escludere che sussistesse una situazione di impossibilità di affidare il figlio minore alla madre.

L’eccezione è, in questo caso, ictu oculi infondata.

Anzitutto, l’ordinanza di rimessione ricostruisce con dovizia di dettagli la condizione in cui versa il nucleo familiare del detenuto, che è stata qui soltanto riassunta al punto 4.1. del Ritenuto in fatto. Ma, soprattutto, è precisamente la situazione di affidamento attuale del minore alla madre, su cui si basa l’eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, a rendere rilevanti le questioni formulate. Solo l’eventuale loro accoglimento consentirebbe, infatti, al giudice di valutare la possibile concessione all’istante della detenzione domiciliare speciale, che è oggi preclusa dalla vigente formulazione della disposizione censurata.

4.3.– Deve, invece, essere dichiarata d’ufficio l’inammissibilità delle questioni sollevate da entrambi i rimettenti in riferimento all’art. 2 Cost., sulla base del principio che – in particolare – il Tribunale di sorveglianza di Venezia definisce di «parità tra le persone da riconoscersi anche nell’ambito delle formazioni sociali oltre che nell’ambito del rapporto coniugale», e segnatamente nell’ambito delle famiglie di fatto o omogenitoriali. La censura è irrilevante quanto al riferimento alle coppie omogenitoriali, dal momento che nessuno dei casi oggetto dei procedimenti quibus concerne coppie dello stesso sesso, ed è sfornita di motivazione sulla non manifesta infondatezza quanto alle famiglie di fatto, non avendo i rimettenti chiarito perché dall’art. 2 Cost. – che indubbiamente riconosce i diritti di tali formazioni sociali e delle persone che ne fanno parte (da ultimo, sentenza n. 148 del 2024, punto 11 del Considerato in diritto) – sia evincibile anche un principio di parità di trattamento tra i loro singoli componenti, che appare invece più propriamente riconducibile all’art. 3 Cost.

5.– Nel merito, occorre anzitutto valutare le questioni che mirano all’integrale ablazione, nel comma 7 dell’art. 47-quinquies ordin. penit., dell’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», e dunque all’equiparazione della posizione del padre a quella della madre condannata, quanto alle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale.

5.1.– Questa Corte ha già avuto occasione di esaminare, con la recente sentenza n. 219 del 2023, questioni di legittimità costituzionale concernenti la parallela disciplina della detenzione domiciliare “ordinaria” di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit. – che parimenti detta una disciplina più restrittiva per il padre condannato rispetto a quella prevista per la madre condannata –; questioni formulate, allora, sotto l’esclusiva prospettiva del dedotto contrasto con gli interessi del minore a una relazione continuativa con entrambi i genitori. Interessi che all’epoca il giudice a quo aveva evocato attraverso il richiamo agli artt. 3 (sub specie di principio di ragionevolezza) e 31, secondo comma, Cost., e che gli odierni rimettenti evocano invece richiamando congiuntamente gli artt. 30 e 31 Cost.

In sintesi, la sentenza n. 219 del 2023 ha, anzitutto, affermato che da una lettura delle garanzie costituzionali concernenti i minori alla luce dei numerosi strumenti internazionali e dell’Unione europea al cui rispetto il nostro Paese si è vincolato si desume, effettivamente, «il diritto di ciascun genitore e del minore a godere di una mutua relazione», inteso a sua volta quale declinazione del più generale principio dell’interesse “preminente” del minore (punto 4.2. del Considerato in diritto).

Tuttavia, la sentenza ha soggiunto che «il principio in parola impone sì una considerazione particolarmente attenta degli interessi del minore in ogni decisione – giudiziaria, amministrativa e legislativa – che lo riguarda, ma non ne assicura l’automatica prevalenza su ogni altro interesse, individuale o collettivo»; e che, pertanto, tale principio ben può essere bilanciato con il fascio di interessi, pure di rilievo costituzionale, sottesi all’esecuzione della pena, dovendosi riconoscere che – in alcune circostanze almeno – la compressione dell’interesse del minore al rapporto con il genitore detenuto o internato costituisce una conseguenza inevitabile, e costituzionalmente non censurabile, dell’esecuzione della pena (punto 4.3. del Considerato in diritto).

Il punto di equilibrio costituzionalmente sostenibile tra i contrapposti interessi – ha proseguito la sentenza n. 219 del 2023 – è stato individuato dalla giurisprudenza di questa Corte nel ritenere che «i pur rilevanti interessi sottesi all’esecuzione della pena [devono], di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta almeno con uno dei due genitori». E ciò sempre che il genitore condannato che si trovi nelle condizioni previste dalla legge per fruire della misura non sia socialmente pericoloso – ipotesi, quest’ultima, in cui gli interessi del bambino dovranno necessariamente essere assicurati in forma diversa dall’affidamento a uno dei genitori (punto 4.4. del Considerato in diritto).

In questo contesto, la scelta del legislatore di assicurare in via primaria il rapporto del bambino con la madre, attribuendo al padre il compito di occuparsi del bambino allorché la madre non sia in condizioni di provvedervi è stata giudicata immune da censure sotto lo specifico profilo della sua idoneità ad assicurare, comunque, il rapporto del bambino con uno almeno dei genitori (punto 4.5. del Considerato in diritto).

Tali considerazioni devono essere integralmente confermate anche con riferimento alla disciplina in questa sede censurata, strutturalmente analoga a quella risultante dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), ordin. penit. allora esaminata.

Dal che la non fondatezza delle questioni, aventi ad oggetto l’intero inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», formulate dagli odierni rimettenti in riferimento agli artt. 30 e 31 Cost.

5.2.– La sentenza n. 219 del 2023 ha, peraltro, espressamente sottolineato che questa Corte non era stata chiamata dall’ordinanza di rimessione a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della disciplina «in relazione alla diversa considerazione dei diritti-doveri che fanno capo al padre, rispetto a quelli che fanno capo alla madre», né sull’eventuale «discriminazione in base al sesso tra le due figure genitoriali, rispetto all’accesso a misure alternative alla detenzione» (punto 4.1. del Considerato in diritto).

Proprio su questi profili richiamano invece l’attenzione i due rimettenti odierni, allorché evocano: il principio di pari dignità e uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, fondato sull’art. 3, primo comma, Cost.; il divieto di discriminazione fondato sul sesso nel godimento del diritto alla vita familiare (artt. 8 e 14 CEDU, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost.); e il principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 29, secondo comma, Cost.).

La disciplina censurata violerebbe tali principi, perché prevede condizioni più favorevoli, nell’accesso alla misura alternativa della detenzione domiciliare speciale, per la madre rispetto al padre: così realizzando al tempo stesso, secondo la prospettazione dei rimettenti, (a) una discriminazione non consentita in base al sesso del condannato, e (b) una violazione del principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi con specifico riferimento alla cura e all’educazione dei figli.

L’angolo visuale da cui muovono tutte queste censure è, dunque, rovesciato rispetto a quelle già esaminate dalla sentenza n. 219 del 2023: mentre le doglianze di allora erano formulate dalla prospettiva del minore e dei suoi preminenti interessi, le censure odierne si focalizzano, invece, sui doveri e diritti che fanno capo a ciascuno dei due genitori, che verrebbero disciplinati in modo ingiustificatamente differenziato dalla disposizione all’esame.

5.2.1.– In proposito, non può non riconoscersi una qualche distonia tra la disposizione censurata e lo stadio attuale del quadro ordinamentale, che – anche per effetto della mutata sensibilità sociale – tende ormai a riconoscere l’equivalenza delle due figure genitoriali rispetto ai compiti di cura, mantenimento ed educazione dei figli. Ciò, in particolare, in materia lavoristica e previdenziale, ove – per effetto anche degli stimoli provenienti dalle pronunce di questa Corte (ad esempio, sentenze n. 179 del 1993, n. 341 del 1991 e n. 1 del 1987) – si sono riconosciuti spazi sempre più ampi al ruolo del padre rispetto a tali compiti, categorizzabili al tempo stesso come “doveri” e “diritti” di entrambi i genitori (art. 30, primo comma, Cost.).

La disciplina penitenziaria – che prevede oggi numerose misure atte a favorire il mantenimento di un rapporto continuativo tra la madre condannata e i figli in tenera età – continua invece, come sottolineato dai rimettenti e dall’amicus curiae, a riconoscere al padre condannato l’accesso alle misure in questione soltanto laddove manchi una figura materna in grado di assicurare la cura e l’educazione dei figli.

5.2.2.– Occorre, però, anche considerare che le misure oggi previste dalla legge sull’ordinamento penitenziario in favore delle madri condannate sono il frutto di una graduale evoluzione normativa, già ricostruita nei suoi tratti essenziali da precedenti pronunce di questa Corte (in particolare, dalla sentenza n. 239 del 2014, punti 4-6 del Considerato in diritto, richiamata dalla stessa sentenza n. 219 del 2023 più volte citata, punto 4.5. del Considerato in diritto). Tratto caratteristico di tale evoluzione è stato l’obiettivo «di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre» (sentenza n. 17 del 2017, punto 5 del Considerato in diritto).

Il risultato è, oggi, un sistema penitenziario che – parallelamente a quanto accade nel settore delle misure cautelari personali, ispirato ad analoghi principi – offre una tutela particolarmente avanzata degli interessi del minore la cui madre sia stata condannata, garantendo di regola al bambino di età non superiore ai dieci anni la possibilità di continuare ad essere accudito direttamente dalla mamma presso la propria abitazione o in altro luogo idoneo, salvo che la madre stessa risulti socialmente pericolosa o – nei casi di cui all’art. 47-quinquies, comma 1-bis, ordin. penit. – sussista un concreto pericolo di fuga.

Al tempo stesso, un sistema siffatto invera in misura particolarmente pregnante i principi della finalità rieducativa e del minimo sacrificio necessario della libertà personale (da ultimo, sentenze n. 30 del 2025, punto 6.4. del Considerato in diritto; n. 24 del 2025, punti 5 e seguenti del Considerato in diritto; n. 84 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto), che ai sensi rispettivamente degli artt. 27, terzo comma, e 13 Cost. devono orientare l’azione del legislatore, dell’amministrazione penitenziaria e del potere giudiziario rispetto all’esecuzione della pena. In particolare, esso favorisce il reinserimento sociale delle condannate madri attraverso il mantenimento e rafforzamento dei loro legami con la comunità. E ciò a partire proprio da quella micro-comunità che è rappresentata dal nucleo familiare, nel quale la condannata è chiamata a vivere i propri doveri e la propria responsabilità di madre, nell’interesse dei figli a lei affidati: avviando, con ciò stesso, un significativo percorso di rieducazione e reinserimento sociale.

Come già osservato nella sentenza n. 219 del 2023 (punto 4.5. del Considerato in diritto), è verosimile che il legislatore abbia ritenuto – nell’esercizio della propria discrezionalità – di compiere passi così significativi nella direzione di una più piena attuazione dei principi costituzionali dell’interesse preminente dei minori, della funzione rieducativa della pena e del minimo sacrificio necessario della libertà personale anche in considerazione dell’impatto complessivamente modesto delle misure in questione sugli interessi contrapposti in gioco – segnatamente, sugli interessi sottesi all’effettiva esecuzione di pene detentive di consistente entità, irrogate in conseguenza della commissione di reati di gravità significativa. Ciò anche in considerazione della proporzione particolarmente esigua di donne condannate rispetto alla popolazione totale dei condannati (pari, sulla base delle statistiche del Ministero della giustizia alla data del 28 febbraio 2025, a 2.729 unità rispetto a un totale di 62.165 detenuti, e dunque a circa il 4 per cento della popolazione carceraria).

5.2.3.– Resta, a questo punto, da chiedersi se la scelta del legislatore di attuare in forma tanto avanzata i principi in questione con riferimento alle sole madri condannate crei, al metro della Costituzione e della CEDU, una illegittima discriminazione a danno dei padri condannati e, assieme, una violazione del principio dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, per il caso in cui i genitori siano uniti in matrimonio.

Questa Corte ritiene che la scelta compiuta sin qui dal legislatore non possa essere considerata incompatibile con i parametri costituzionali nazionali evocati.

Giova riflettere anzitutto sulla circostanza che l’art. 31, secondo comma, Cost. impone alla Repubblica di tutelare «la maternità»: e dunque di introdurre specifiche previsioni che favoriscano l’assunzione e il concreto svolgimento della responsabilità materna nei confronti dei figli. Il che implica necessariamente l’adozione di misure calibrate sulla figura materna e non su quella paterna; misure che – peraltro – non mettono di per sé in discussione il principio della parità morale e giuridica «dei coniugi» stabilito dall’art. 29, secondo comma, Cost., per la semplice ragione che operano su un piano diverso: non quello dei rapporti tra i coniugi, ma quello dei rapporti tra i genitori – non necessariamente uniti in matrimonio – e i figli.

Nello stesso senso merita di essere ricordato l’art. 4, paragrafo 2, della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, rilevante nell’ordinamento costituzionale nazionale in forza dell’art. 117, primo comma, Cost. Tale disposizione prevede, testualmente, che «[l]’adozione da parte degli Stati di misure speciali, comprese le misure previste dalla presente Convenzione, tendenti a proteggere la maternità non è considerato un atto discriminatorio».

Di questi dati normativi non può non tenersi conto quali punti di riferimento significativi nella valutazione della legittimità costituzionale di trattamenti stabiliti dalla legge specificamente in favore delle madri: anche con riguardo alla materia penitenziaria, che viene qui in considerazione.

5.2.4.– La conclusione non muta, ad avviso di questa Corte, con riguardo al divieto di discriminazione secondo il sesso nel godimento del diritto alla vita familiare, tutelato dagli artt. 8 e 14 CEDU.

È pur vero che, come rilevano i rimettenti, la Corte EDU ha più volte affermato che in linea di principio solo ragioni assai consistenti («very weighty reasons») possono giustificare differenze di trattamento basate sul sesso nel godimento di diritti rientranti nell’ambito di applicazione di una norma della Convenzione o dei suoi protocolli, e che in quest’ambito assunti generali sul ruolo femminile o attitudini sociali prevalenti in un Paese specifico non possono essere considerati, di per sé, una giustificazione sufficiente per trattamenti differenziati (Corte EDU, sentenza Beeler contro Svizzera, paragrafo 95, e ivi ulteriori riferimenti). Ciò vale anche allorché il trattamento differenziato concerna diritti rientranti in linea di principio nella sfera di applicazione di una norma della Convenzione o dei suoi protocolli, ma che abbiano natura “addizionale”, in quanto il loro riconoscimento nel caso concreto non costituisca un obbligo a carico dello Stato parte (Corte EDU, sentenza Khamtokhu e Aksenchik contro Russia, paragrafo 58, e ivi ulteriori riferimenti).

Sulla base di tali principi, la Corte EDU ha sovente ritenuto incompatibili con gli artt. 8 e 14 CEDU normative nazionali che prevedevano trattamenti più favorevoli per le donne rispetto agli uomini (ancora sentenze Beeler contro Svizzera, paragrafo 95 e, con riferimento specifico ai benefici penitenziari, Ecis contro Lettonia, paragrafi 90-93, peraltro con la precisazione che, in linea di principio, «talune divergenze di trattamento tra detenuti uomini e donne possono essere giustificate»); ovvero che – in materia giuslavoristica – privilegiavano le madri rispetto ai padri (sentenza Konstantin Markin contro Russia).

Tuttavia, in un caso particolarmente significativo in cui era in discussione la previsione della pena dell’ergastolo, nella Federazione Russa, per i soli i condannati uomini di età compresa tra i 18 e i 65 anni, la grande camera della Corte EDU – muovendo dal riconoscimento a ciascuno Stato di un ampio margine di apprezzamento nella definizione della propria politica in materia sanzionatoria penale – ha ritenuto giustificata la disparità di trattamento così creata tra condannati uomini e donne.

La Corte EDU ha posto tra l’altro l’accento: sull’esistenza di vari strumenti di diritto internazionale che riconoscono lo speciale bisogno di tutela della donna detenuta in relazione alla gravidanza e alla maternità (sentenza Khamtokhu e Aksenchik contro Russia, paragrafo 82); sui dati statistici che indicavano come anche nella Federazione Russa le condannate donne costituissero solo un’esigua porzione della popolazione complessiva dei detenuti (ancora, paragrafo 82); nonché sull’inesistenza di un obbligo deducibile dalla Convenzione di abolire interamente l’ergastolo (paragrafo 86). Constatazione, quest’ultima, che rendeva «difficile», secondo la Corte EDU, «criticare il legislatore russo per avere stabilito […] l’esenzione dall’ergastolo di una determinata categoria di condannati», nell’ambito di una fase ancora «transizionale» della legislazione penale (paragrafo 85) che però si muoveva nella direzione di un sicuro «progresso» verso la più piena attuazione delle garanzie convenzionali (paragrafo 86).

Le opinioni concorrenti di più giudici in quella decisione hanno in particolare sottolineato come il cammino verso un’espansione dei diritti proceda, realisticamente, in modo graduale; ciò che impone di tollerare situazioni di – transitoria – ineguale distribuzione di nuovi benefici, sempre che nessun gruppo sia privato del livello minimo di tutela convenzionalmente garantito. In ogni caso, non si potrebbe rimproverare uno Stato per non avere garantito subito a tutti i consociati i nuovi e più elevati livelli di tutela (così, in particolare, le opinioni concorrenti delle giudici Nußberger e Turkovic).

Considerazioni analoghe possono formularsi, mutatis mutandis, anche in relazione alle questioni ora all’esame. Come poc’anzi rammentato, il livello minimo di tutela costituzionalmente necessario per gli interessi del minore, così come enucleato dalla giurisprudenza di questa Corte, è quello che assicura al bambino, di regola, la presenza di almeno uno dei genitori. La scelta compiuta dal legislatore di assicurare la presenza anche della madre condannata a una pena detentiva, pur laddove il padre sia in condizione di farsi carico della cura e dell’educazione del minore, è il frutto di un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse all’esecuzione della pena detentiva – e quindi della pretesa punitiva dello Stato – e l’interesse del minore alla relazione genitoriale.

È sempre dalla prospettiva della tutela del minore che occorre, dunque, valutare la scelta normativa: il legislatore, che in linea di principio è costituzionalmente obbligato ad assicurare la presenza di almeno uno dei genitori, ha scelto di riconoscere al minore stesso un livello addizionale di tutela, non costituzionalmente obbligato e però certamente attuativo dei principi costituzionali.

La scelta ha innegabilmente dei riflessi sull’omogeneità di trattamento dei genitori, ma non al punto da debordare nella discriminazione ingiustificata, non potendosi ritenere irragionevole la scelta di procedere gradualmente nella direzione di una più piena attuazione dei principi costituzionali menzionati, attraverso la selezione di una platea, peraltro numericamente ridotta, di persone condannate oggetto di specifiche direttive di tutela da parte della stessa Costituzione e di varie fonti internazionali di hard soft law (si vedano, tra l’altro, le rules numeri 2, 58 e 64 delle «United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-custodial Measures for Women Offenders» adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 2010, già testualmente citate nella sentenza n. 219 del 2023, punto 4.5. del Considerato in diritto, dalle quali si evince un generale favor per la concessione di misure extracarcerarie alle madri detenute).

5.2.5.– I rimettenti, e con essi l’amicus curiae, assumono che la disciplina censurata produrrebbe altresì una discriminazione non solo a danno dei padri, ma anche a danno delle madri, mogli o compagne dei condannati padri. Le prime infatti sarebbero costrette a sacrificare la propria carriera lavorativa per occuparsi dei figli, mentre i mariti o compagni delle condannate madri potrebbero contare, grazie alla misura alternativa all’esame, sull’apporto di queste ultime per far fronte ai carichi familiari, potendo così liberamente dedicarsi alle loro attività professionali.

In proposito, deve però rilevarsi che – una volta che si sia ritenuta non irragionevole la scelta legislativa di apprestare un trattamento di speciale favore per il mantenimento del rapporto tra madre e figlio, nell’interesse di quest’ultimo – la situazione appena descritta costituisce null’altro che una delle conseguenze collaterali a carico di terzi non colpevoli necessariamente connesse all’esecuzione della pena detentiva. Il carcere colpisce il reo, ma produce effetti indiretti pregiudizievoli anche nei confronti di altre persone: in primis, dei suoi familiari, che vengono privati del suo apporto – affettivo, ma anche finanziario e organizzativo – alla gestione dei carichi familiari. Queste conseguenze sono purtroppo inevitabili, e messe in conto dall’ordinamento nel momento in cui ritiene necessario privare la persona ritenuta colpevole di un reato della propria libertà personale, per la realizzazione degli scopi legittimi della pena.

5.2.6.– Tutto ciò, naturalmente, non impedisce al legislatore di considerare l’opportunità di un’estensione della misura a tutti i detenuti – padri e madri – non socialmente pericolosi, nel quadro di un complessivo bilanciamento tra tutti gli interessi individuali e collettivi coinvolti. Una tale scelta potrebbe, anzi, valorizzare ulteriormente il principio costituzionale del minimo sacrificio necessario della libertà personale.

Ma una simile decisione, a giudizio di questa Corte, resta allo stato riservata alla discrezionalità del legislatore, non potendo considerarsi imposta né dalle norme costituzionali, né da quelle convenzionali evocate dai rimettenti.

Dal che la non fondatezza anche delle censure formulate in riferimento agli artt. 3, 29, 30, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.

5.3.– Nemmeno è fondata la censura formulata dal solo Tribunale di sorveglianza di Venezia in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost.

Assume il rimettente che la differente disciplina di accesso alla misura per padri e madri condannati si tradurrebbe in un pregiudizio per la stessa funzione rieducativa della pena nei confronti del detenuto, «perpetrando una concezione oggi non più accettabile (né rispondente alla realtà) dei ruoli sociali e all’interno della famiglia».

L’argomento è, in verità, meramente ancillare rispetto a quelli addotti a sostegno delle censure appena esaminate, e ritenute non fondate per le ragioni sin qui illustrate. Esso potrebbe essere considerato al più meritevole di attenzione da parte del legislatore, ma non certo di tale pregnanza da condurre addirittura a una dichiarazione di incompatibilità con la finalità rieducativa della pena di una disciplina che – per ragioni ritenute costituzionalmente non insostenibili da questa Corte – tuttora differenzia il ruolo della madre e del padre in materia di concessione delle misure alternative alla detenzione.

5.4.– In conclusione, nessuna delle censure che investono l’inciso «se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre» è fondata.

Spetterà al prudente apprezzamento del giudice di sorveglianza valutare se e in che misura il concetto di “impossibilità” della madre possa essere esteso, in via interpretativa, anche a situazioni – diverse dal mero svolgimento di un’attività lavorativa da parte della madre, in presenza di supporti familiari o sociali che garantiscano la necessaria cura dei minori durante i suoi orari di lavoro – in cui l’eccezionalità del carico connesso ai doveri di cura renda inesigibile che la sola madre vi faccia efficacemente fronte, in relazione ad esempio alle gravi patologie di cui il minore soffra e alle sue necessità di continua assistenza (sul punto, si veda anche Cass., n. 4796 del 2021).

6.– Rimangono infine da esaminare le censure, formulate in via subordinata dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, concernenti il solo frammento normativo «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre», le quali mirano a consentire al padre detenuto di accedere alla detenzione domiciliare speciale quanto meno allorché la madre sia deceduta o sia comunque impossibilitata a provvedere alla cura e all’educazione del figlio.

Le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 3, 30 e 31, secondo comma, Cost., sulla base dei principi già enunciati nella sentenza n. 219 del 2023, restando assorbiti gli ulteriori parametri.

6.1.– Come già rammentato, in tale sentenza si è affermato che il principio dell’interesse preminente del minore – desunto dalle citate previsioni costituzionali, interpretate alla luce delle pertinenti norme internazionali e dell’Unione europea (ampiamente sul punto sentenza n. 102 del 2020, punto 4.1. del Considerato in diritto) – richiede che gli interessi sottesi all’esecuzione intramuraria della pena debbano, di regola, cedere di fronte all’esigenza di assicurare che i minori in tenera età possano godere di una relazione diretta con almeno uno dei due genitori.

Di tale esigenza si è fatto carico il legislatore in numerose discipline, tra cui le due evocate dal rimettente quali tertia comparationis:

– l’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit., che ammette il detenuto padre alla misura, strutturalmente analoga, della detenzione domiciliare “ordinaria” nel caso di decesso o assoluta impossibilità della madre a far fronte alla propria responsabilità genitoriale, senza richiedere l’ulteriore condizione dell’assenza di altre persone in grado di prendersi cura dei figli; e

– l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che stabilisce tra l’altro il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere a carico del padre del figlio di età non superiore a sei anni, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, in presenza delle medesime condizioni previste dall’art. 47-ter, comma 1, lettera b), ordin. penit.

In particolare il primo tertium è certamente omogeneo rispetto alla disciplina ora censurata, come questa Corte ha più volte sottolineato, evidenziando l’identità di ratio della detenzione domiciliare “ordinaria” e speciale, allorché siano disposte in funzione della cura dei figli minori o con disabilità (ex multis, sentenze n. 30 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto; n. 18 del 2020, punto 3.3. del Considerato in diritto).

Contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato, non pare d’altra parte a questa Corte che la sola circostanza che i condannati ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare speciale debbano scontare una pena detentiva (anche residua) più lunga rispetto a quelli ai quali può applicarsi la detenzione domiciliare “ordinaria” valga a giustificare il sacrificio addizionale imposto a soggetti estranei rispetto al reato (i figli minori del condannato). Per effetto della disposizione censurata, essi si vedono attualmente, senza eccezioni, privati della possibilità di vivere una relazione continuativa con l’unico genitore ancora in vita, o comunque in condizioni di assolvere le proprie responsabilità di cura.

Ciò che resta fondamentale è, piuttosto, l’attento accertamento, da parte del giudice della sorveglianza, con il necessario supporto dei servizi sociali, non solo che il padre condannato non manifesti «un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti» (e di fuga, nelle ipotesi del comma 1-bis), ma altresì che il ripristino della convivenza con i figli minori, in alternativa rispetto all’affidamento di costoro a terze persone in grado di prendersene cura, risponda effettivamente ai loro interessi, alla cui tutela è finalizzata la misura alternativa in esame; e che tale rispondenza sia poi concretamente verificata durante l’esecuzione della misura, attraverso i controlli stabiliti dall’art. 284, comma 4, cod. proc. pen. (richiamato dal comma 3 dell’art. 47-quinquies ordin. penit.), nonché dal comma 5 dello stesso art. 47-quinques ordin. penit. Ciò al fine, in particolare, di evitare ogni impropria strumentalizzazione dei minori al solo scopo di ottenere il beneficio da parte di un padre in realtà non idoneo alla cura degli stessi.

6.2.– Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre».

7.– Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha sollecitato questa Corte a valutare, in caso di accoglimento della questione sollevata in via subordinata, la possibilità di estendere in via consequenziale la dichiarazione di illegittimità costituzionale all’art. 21-bis ordin. penit., che disciplina l’assistenza all’esterno dei figli minori, e che parimenti subordina la concedibilità del beneficio alla condizione che la madre sia detenuta o impossibilitata, e non vi sia modo di affidare la prole ad altri che al padre.

L’Avvocatura dello Stato ha formulato, in proposito, un’eccezione di inammissibilità di una simile «questione», che tuttavia non può essere considerata tale: il che toglie ogni sostanza all’eccezione. La decisione di estendere, in via consequenziale, a una disposizione distinta da quella censurata la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, è in effetti frutto di una valutazione che questa Corte compie di volta in volta motu proprio, laddove ritenga sussistere i requisiti indicati dalla legge. Tale valutazione non è dunque vincolata da eventuali sollecitazioni da parte dell’ordinanza di rimessione; sollecitazioni che, peraltro, il giudice a quo resta libero di formulare, in chiave di mero suggerimento.

Dal momento che l’art. 21-bis ordin. penit. disciplina un istituto distinto da quello in questa sede esaminato, e che peraltro non viene in considerazione nel caso oggetto del giudizio a quo, questa Corte non ritiene sussistenti i presupposti di cui all’art. 27 della legge n. 87 del 1953.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole «e non vi è modo di affidare la prole ad altri che al padre»;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, in riferimento all’art. 2 della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, comma 7, ordin. penit., sollevate, complessivamente, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, in via principale, e dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2025

Il Cancelliere

F.to: Igor DI BERNARDINI

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