L’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti che dissimulano un’attività illecita di somministrazione di manodopera, mascherata dalla conclusione di fittizi contratti di appalto di servizi, si concreta in un‘operazione soggettivamente inesistente stante il carattere dissimulato del contratto, integrando quella divergenza tra realtà fenomenica e realtà meramente giuridica dell'operazione che, secondo la giurisprudenza consolidata, costituisce l'inesistenza di cui all'art. 1 comma 1, lett. a) d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, mentre con riguardo all'imposta sui redditi, l'utilizzo della fattura che dissimula una diversa prestazione apre la strada alla detrazione di costi anch'essi fittizi perché non correlati alla prestazione reale essendo funzionale ad abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro che altrimenti le società non avrebbero potuto detrarre.
Sono queste le conclusioni cui sono addivenuti i giudici della Terza Sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 19595 depositata il 10 maggio 2023, che ancora una volta hanno affrontato la delicata questione dei confini (molto labili) tra appalto lecito di servizi e somministrazione contra legem di manodopera e dei connessi risvolti fiscali.
La Suprema Corte ha fatto propri i chiarimenti della giurisprudenza maggioritaria, alla stregua della quale, in presenza di chiari vantaggi fiscali derivanti dall’utilizzo di un contratto di appalto di servizi stipulato per “mascherare” una somministrazione di manodopera illecita, sfruttando la possibilità di detrarre indebitamente l’IVA, è configurabile il reato di frode fiscale di cui all’art. 2 del D.lgs. n. 74 del 2000.
La vicenda al vaglio degli Ermellini trae origine dalla conferma, da parte della Corte d’Appello di Milano, di una sentenza emessa dal Tribunale di Monza, con la quale il legale rappresentante di una società veniva condannato nei due gradi di giudizio per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti.
L’imputato ricorreva per Cassazione, lamentando l’inosservanza o l’errata applicazione della norma di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 e agli artt. 133 e 163 c.p. e 12 d.lgs. n. 74/2000 perché era stato considerato integrato il delitto ai fini delle imposte dirette a fronte di fatture solo soggettivamente inesistenti.
Prima, però, di analizzare funditus la questione trattata dalla Suprema Corte, si rendono opportune talune considerazioni in tema di appalto di servizi e somministrazione di manodopera.
In via di prima approssimazione, si ricorda che, ai sensi del Codice civile, l’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro (art. 1655 cc).
Si parla di appalto “genuino” di servizi allorquando l’appaltatore non è un semplice intermediario, ma un vero e proprio imprenditore che organizza i mezzi necessari, cioè ha disponibilità di capitali, macchinari ed attrezzature. Il possesso di questi potrebbe anche essere marginale rispetto alle prestazioni di lavoro, ma l’importante è che l’appaltatore eserciti in via esclusiva il potere direttivo ed organizzativo sul personale impiegato.
L’appaltatore, altresì, per essere considerato tale, deve assumere il rischio d’impresa, esercitando una attività imprenditoriale in maniera abituale o svolgendo una propria attività produttiva in modo evidente e comprovato.
Infine, l’appaltatore deve possedere altresì un comprovato livello di specializzazione e professionalità, ovverosia un elevato “know how” aziendale, oppure il personale impiegato nell’ambito dell’appalto si contraddistingue per un’elevata professionalità.
Il contratto di appalto, quindi, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 c.c., si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa.
La somministrazione, al contrario, secondo la definizione contenuta nell’art. 30, del D.lgs. n. 81/2015, è il contratto mediante il quale un soggetto «mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore».
Il contratto di somministrazione di manodopera deve essere stipulato con un’agenzia di somministrazione autorizzata ai sensi del D.lgs. n. 276/2003 e soggiace ad una serie di limiti formali e sostanziali enunciati negli artt. 31 ss., d.lgs. n. 81/2015. La sanzione per la violazione dei suddetti limiti è l’instaurazione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore (art. 38, d.lgs. n. 81/2015).
Negli appalti, allo stesso modo, la violazione dei presupposti contenuti nell’art. 2 del D.lgs. n. 276/2003 comporta la sanzione dell’imputazione del rapporto subordinato al «soggetto che ne ha utilizzato la prestazione» (comma 3 bis della norma). In entrambi i casi, dal punto di vista del contratto di lavoro, si assiste ad una dissociazione tra la titolarità del rapporto e la sua effettiva utilizzazione; mentre dal lato del contratto commerciale, l’appalto è caratterizzato da una obbligazione di risultato, la somministrazione segue invece lo schema dell’obbligazione di mezzi.
Nell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003 il legislatore ha statuito che il contratto di appalto si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa.
L’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, richiamando l’art. 1655 c.c., parla di «organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore», rinviando pertanto ad un criterio incentrato sulla mancanza da parte del presunto appaltatore di una autonoma organizzazione funzionale e gestionale.
Ciò che sembra essenziale, per la sussistenza di un vero e proprio contratto di appalto, quindi, è che i lavori appaltati siano effettivamente svolti da un’azienda che abbia concretamente la forma e la sostanza di un’impresa, sia con riguardo al profilo tecnico, sia sotto l’aspetto strettamente economico ed organizzativo.
Il legislatore vuole, pertanto, contrastare il fenomeno della creazione di società fittizie che hanno il precipuo scopo di consentire fraudolentemente l’abbattimento dei costi del personale delle aziende committenti.
La vera partita, tuttavia, si deve giocare sul «fattore organizzazione», non singolarmente considerato, ma analizzato alla luce del più ampio criterio dell’esercizio dell’effettivo potere organizzativo e direttivo dell’appaltatore sui propri dipendenti.
A tal proposito, la giurisprudenza maggioritaria ha chiarito che valore decisivo per individuare uno “pseudo” appalto è quindi l’elemento dell’organizzazione che, nei casi di prevalenza del fattore lavoro rispetto ai beni strumentali, dovrà discendere dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’esecuzione del contratto commerciale, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto.
Ciò posto sui confini tra appalto lecito di servizi e somministrazione contra legem – confini concettualmente ben definiti ma che sul piano pratico tendono a diventare molto labili – la migliore dottrina ha individuato le seguenti ipotesi patologiche di intermediazione illecita di manodopera, distinguendo i seguenti casi:
a) la somministrazione illecita o (secondo la dicitura dell’art. 38 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015) irregolare, che riguarda la fornitura di personale da parte di soggetti privi delle autorizzazioni di cui al Capo Primo (in particolare artt. 4-6) del D.lgs. n. 276/2003 o al di fuori delle condizioni di cui agli artt. 31, 32 e 33 del D.lgs. n. 81/2015;
b) la somministrazione nulla (art. 38, co. 1 del D.lgs. n. 81/2015) qualora difetti la forma scritta del contratto di somministrazione di lavoro;
c) l’appalto o il distacco fittizi o irregolari (cioè al di fuori delle condizioni di cui rispettivamente agli artt. 29 e 30 del D.lgs. n. 276/2003) sanzionati dall’art. 18, co. 5-bis del D.lgs. n. 276/2003 ed in ogni caso disciplinati in modo analogo alla somministrazione irregolare ai sensi, rispettivamente, dei commi 3-bis e 4-bis dei suddetti artt. 29 e 30);
d) l’intermediazione illecita (di manodopera) e sfruttamento del lavoro, altrimenti comunemente definita con il termine di “caporalato”, che configura un’ipotesi di reato prevista dall’art. 603-bis del Codice Penale e che riguarda i casi in cui vengano reclutati lavoratori allo scopo di destinarli al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno degli stessi.
Al di là degli aspetti sanzionatori, l’effetto più immediato rimane comunque la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’effettivo utilizzatore.
Tutto ciò premesso, un appalto di servizi può considerarsi genuino se e solo se l’appaltatore non è un semplice intermediario, ma un vero e proprio imprenditore che:
1. organizza i mezzi necessari, cioè ha disponibilità di capitali, macchinari ed attrezzature;
2. si assume il rischio d’impresa, dunque quando abbia in essere una attività imprenditoriale che esercita abitualmente, o quando svolge una propria attività produttiva in modo evidente e comprovato, o quando opera per differenti imprese da più tempo;
3. possiede un comprovato livello di specializzazione.
Così chiariti i confini tra appalto di servizi e somministrazione illecita di manodopera, occorre ora soffermarsi sui profili fiscali e tributari che ne conseguano qualora si sia al cospetto di un appalto fittizio.
In casi consimili sarà astrattamente configurabile il reato di frode fiscale ex art. 2 del D.lgs. n. 74 del 2000 (art. 18 d.lgs. n. 276 del 2003), stante la diversità tra il soggetto emittente la fattura e quello che ha fornito la prestazione, in quanto la società che ha effettuato l’interposizione illegale di manodopera, in questo modo, ha fatto uso di fatture per operazioni inesistenti. (Cfr. Cass. Pen.,Sez. III, 27.01.2022, N. 16302).
Anche in caso di imposte indirette, la giurisprudenza maggioritaria ha più volte affermato che la corretta applicazione dell'Iva nell'interposizione di manodopera si ha solo quando, in conformità alla normativa che regola la materia, nei rapporti tra il committente e l'agenzia interinale/appaltatore/datore di lavoro terzo esiste una "reale" interposizione di manodopera.
In caso contrario, ossia in presenza di un comportamento elusivo nell'interposizione di manodopera, l'Iva è applicata indebitamente e, dunque, non è detraibile.
Tale principio è stato affermato più volte dalla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che, in caso di accertamento del carattere fraudolento dell'intermediazione di manodopera, l’IVA che il committente assume di avere pagato al preteso appaltatore per l'operazione soggettivamente inesistente - in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell'operazione negoziale - non è detraibile ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, proprio per il fatto che l'alterazione del meccanismo di riscossione dell'imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell'ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell'imposta sulle operazioni passive dell'imprenditore o del professionista (Cass. civ., Sez. 5, n. 16852 del 20/05/2013).
Nell'interposizione di manodopera, quindi, se vi è illiceità dell'oggetto e se la natura del contratto tra committente e datore di lavoro terzo è fittizia, il committente, non solo non potrà detrarre l'Iva, ma avrà anche l'obbligo di eseguire degli adempimenti fiscali in qualità di sostituto d'imposta.
Dunque, in tema di divieto d'intermediazione di manodopera, in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalto di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile una prestazione dell'appaltatore imponibile ai fini IVA.
Nel caso di appalto non genuino, dunque, non sussiste alcun valido contratto di appalto e il rapporto di somministrazione di lavoro, apparentemente instaurato con l'appaltatrice, è nullo con conseguente impossibilità di detrarre l’IVA da parte della società contribuente.
Sul versante della giurisprudenza penale - sul presupposto dell'indetraibilità dell'Iva nei casi di illecita somministrazione di manodopera dissimulata da fittizi contratti di appalto e servizi – non si è mai dubitato che l'indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anziché relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, non incide sulla configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta previsto dall'art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale, nel riferirsi all'uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo, con la conseguenza che il delitto di frode fiscale ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è astrattamente configurabile nel caso di intermediazione illegale di manodopera, stante la diversità tra il soggetto emittente la fattura e quello che ha fornito la prestazione.
Da ciò discende pure la configurabilità del concorso di reati fra la contravvenzione di intermediazione illegale di manodopera (art. 18 del D.lgs. n. 276 del 2003) ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera.
Alla luce di siffatte considerazioni, devono ritenersi del tutto condivisibili le conclusioni cui addiviene la Suprema Corte nella sentenza in commento.
I giudici della legittimità hanno chiarito, invero, che l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti che dissimulano un’attività illecita di somministrazione di manodopera, mascherata dalla conclusione di fittizi contratti di appalto di servizi, ex art. 29 del D.lgs. n. 276/2003, integra un’operazione soggettivamente inesistente stante il carattere dissimulato del contratto, integrando quella divergenza tra realtà fenomenica e realtà meramente giuridica dell’operazione che, secondo la giurisprudenza consolidata, integra l’inesistenza di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e che, quanto al versante dell’IVA, il contratto fittiziamente interposto apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa, mentre con riguardo all’imposta sui redditi, l’utilizzo della fattura che dissimula una diversa prestazione apre la strada alla detrazione di costi anch’essi fittizi perché non correlati alla prestazione reale,essendo funzionale ad abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro che altrimenti le società non avrebbero potuto detrarre.
La fittizietà dell’oggetto, consentendo la deduzione di costi altrimenti non deducibili, comporta la rilevanza del reato anche ai fini delle imposte dirette.
La Suprema Corte di Cassazione, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso in quanto manifestamente infondato, ha innanzitutto rilevato che le operazioni soggettivamente inesistenti oggetto di contestazione si riferivano ad un contratto di appalto volto a celare un’illecita intermediazione illegale di manodopera.
In tale ipotesi (utilizzo di fatture per operazioni inesistenti che dissimulano un’attività di somministrazione di manodopera, mascherata dalla conclusione di fittizi contratti di appalto) è integrata un’operazione soggettivamente inesistente perché sussiste una divergenza tra realtà fenomenica e realtà meramente giuridica dell’operazione.
Secondo la Corte, ai fini delle imposte sui redditi, l’utilizzo della fattura che dissimula una diversa prestazione consente la deduzione di costi fittizi perché non correlati alla prestazione reale essendo funzionale ad abbattere indebitamente il risultato dell’esercizio.
La simulazione dell’oggetto contrattuale consente l’imputazione di costi di servizi (appalto) che la società altrimenti non avrebbe potuto dedurre (illecita somministrazione di manodopera).
L’art. 2 del D.lgs. n. 74/2000 non distingue, invero, tra inesistenza oggettiva o soggettiva, poiché l’oggetto della sanzione è ogni divergenza tra realtà commerciale e sua espressione documentale.
Pertanto, le fatture formalmente riferite a un contratto di appalto di servizi che occulti di fatto una somministrazione irregolare di manodopera costituisce un negozio giuridico apparente diverso da quello intercorso. Tale circostanza comporta significative conseguenze fiscali in quanto l’esposizione nella dichiarazione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto.
In conclusione, l'art. 2 del D.lgs 10 marzo 2000, n. 74 non distingue tra inesistenza oggettiva o soggettiva: oggetto della sanzione di cui all'art. 2 è ogni divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, integrando il delitto di cui all'art. 2 del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l'utilizzazione, nella dichiarazione ai fini delle imposte dirette, di fatture formalmente riferite a un contratto di appalto di servizi, che costituisca di fatto lo schermo per occultare una somministrazione irregolare di manodopera, realizzata in spregio dei divieti di cui al previgente D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, trattandosi di fatture relative a un negozio giuridico apparente, diverso da quello realmente intercorso tra le parti, attinente ad un'operazione implicante significative conseguenze di rilievo fiscale.
Con riguardo ad entrambe le imposte, per le ragioni sopra evidenziate, l'esposizione nella dichiarazione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto.
Più in dettaglio, si ricorda che la previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7 - secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - è esplicita nel senso di imporre il versamento dell'imposta, ma di precluderne la detrazione.
La disposizione è, infatti, letta nel senso che il tributo viene ad essere considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione, conseguentemente "isolata" dalla massa di operazioni effettuate, "estraniata", per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva "a valle" ed Iva "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta di cui al d.P.R. n. 633 del 1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell'Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell'imposta, è evento dirompente, nell'ambito del complessivo sistema Iva.
Il diritto alla detrazione dell'IVA non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in particolare della fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa.
Si tratta di principi che si applicano sia alle false fatturazioni emesse per operazioni oggettivamente inesistenti che a quelle emesse per operazioni solo soggettivamente inesistenti (quindi ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa perciò anche l'ipotesi di inesistenza soggettiva) e, dunque, anche con specifico riferimento alla fattispecie in esame.
Su questa tematica, anche la Corte di Giustizia Europea ha, difatti, più volte ribadito che il beneficio della detrazione non è accordabile, sia per il diritto comunitario che per il diritto interno che ad esso si conforma, qualora sia dimostrato che lo stesso beneficio sia invocato dal contribuente fraudolentemente o abusivamente.
Secondo la Corte europea, invero, il diritto alla detrazione, previsto dagli artt. 167 e ss. della direttiva 2006/112, e costituente parte integrante del meccanismo di traslazione dell'imposta proprio dell'IVA in ambito comunitario, può essere negato solo quando risulti dimostrato da parte dell'amministrazione finanziaria, alla luce di elementi oggettivi che il soggetto passivo al quale siano stati forniti i beni o i servizi, posti a fondamento del diritto alla detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in un'evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte.
È di tutta evidenza, infatti, che in tale evenienza il soggetto che intende fruire della detrazione deve essere considerato, come "partecipante a tale evasione", laddove di certo non lo sarebbe colui che ignorasse - senza sua colpa - che il fornitore effettivo della merce o dei servizi ricevuti non era il fatturante, ma un altro soggetto.
Pertanto, la Corte di Cassazione, nella sentenza in epigrafe indicata, ha fatto buon governo dei principi già avallati dalla giurisprudenza maggioritaria, nazionale e unionale, stabilendo che la somministrazione illecita di manodopera, mascherata dietro l’apparente indicazione di un appalto di servizi non genuino, dà luogo ad operazioni soggettivamente inesistenti, in ragione del carattere dissimulato del contratto, andando così ad integrare il reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2 del D.lgs 74/2000, che punisce quelle divergenze tra realtà fenomenica e realtà giuridica, senza distinguere tra operazioni che sono inesistenti dal punto di vista oggettivo o soggettivo.
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