Body shaming, quando le offese sui social integrano la diffamazione

Articolo di Michele Iaselli del 13/02/2023

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La sentenza n. 2251 del 14/12/2022 della V sez. penale della Corte di Cassazione si segnala per avere evidenziato la giusta rilevanza di una pratica divenuta particolarmente odiosa su Internet e specialmente sui social che è il body shaming.

Nel caso di specie, come spesso accade, la Corte territoriale minimizza la gravità del fatto ed assolve l’imputato dall’accusa di diffamazione ex art. 595 c.p. del codice penale ritenendo che l’intera questione sarebbe riconducibile nell’ambito applicativo dell’art. 594 e cioè dell’ingiuria, reato ormai depenalizzato.

La Suprema Corte annulla la sentenza non condividendo l’interpretazione della Corte di Appello in quanto, innanzitutto, la stessa motivazione del provvedimento è da considerarsi contraddittoria. Difatti, inizialmente il giudice d’appello afferma, che «l'imputato ha volto gravi offese alla parte civile, denigrandola per il deficit visivo», per poi ritenere, nell'immediato prosieguo della motivazione, che non vi sia stato pregiudizio per la reputazione della persona offesa, perché «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona» e avendo l'imputato, con offese siffatte, «messo in cattiva luce se stesso».

Sostiene la Cassazione che nel momento in cui la Corte territoriale scrive che «un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona», non è dato comprendere se egli stia semplicemente esprimendo una affermazione di principio (condivisibile, ma priva di rilievo per il thema decidendum), oppure se, con quella frase, abbia inteso escludere la configurabilità della diffamazione, intendendo forse alludere al fatto che il dileggio di una persona ipovedente non vale anche a scalfirne il valore e, quindi, a lederne la reputazione.

In ogni caso, va invece rilevato che la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un'aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito dalla stessa Cassazione (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016, dove viene affermato che integra «il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche»; nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna nei confronti del soggetto che, comunicando con più persone, qualificava la persona offesa nel contesto di una discussione come "la zoppetta"»).

Del resto che la reputazione individuale sia un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» è stato ricordato, più di recente dalla Corte Cost., con sentenza n. 150 del 2021. E’ proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, posto che le espressioni adoperate dall'imputato sottendono una deminutio della persona offesa, che, in quanto ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma.

La Suprema Corte non condivide nemmeno le ragioni che hanno portato la Corte territoriale a ravvisare nella condotta dell’imputato gli estremi del depenalizzato delitto d'ingiuria. Difatti, viene ricordato che l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019). Nei casi in cui il limite tra ingiuria e diffamazione si fa più opaco, il punto, allora, è capire se e quando l'offeso sia stato concretamente in condizioni di replicare.

Di conseguenza, sostiene il giudice di legittimità, che se è vero, che «la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat», è vero anche che tale possibilità si è data in un momento successivo alla pubblicazione delle offese sul social network "Facebook". Già nel passato pronunciandosi sul discrimine tra diffamazione e ingiuria in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci ("Google Hangouts"), la stessa Corte (Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020) ha chiarito che soltanto il requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso (come, appunto, nel caso di messaggistica istantanea con annesso servizio di videochiamata e chiamate cd. VoIP -voce tramite protocollo internet) vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria. In difetto del requisito della contestualità, che non risulta in alcun modo emerso nel corso del processo, l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore, per cui si profila l'ipotesi della diffamazione.

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