La coltivazione a fine di produzione di sostanze stupefacenti e non

Articolo di Carlo Alberto Zaina del 05/07/2023

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Dopo aver affrontato il tema della detenzione, l'uso personale, il favoreggiamento e l'uso di gruppo di stupefacenti pubblichiamo un nuovo approfondimento in materia a cura dell'avv. Carlo Alberto Zaina.

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La coltivazione a fine di produzione di sostanze stupefacenti e non

di Carlo Alberto Zaina

Premessa

Recita testualmente l’art. 26 in materia di coltivazioni e produzioni vietate:

1. Salvo quanto stabilito nel comma secondo, è vietata nel territorio dello stato la coltivazione di piante di coca di qualsiasi specie, di piante di canapa indiana, di funghi allucinogeni e delle specie di papavero (papaver somniferum) da cui si ricava oppio grezzo. in apposite sezioni delle tabelle I, II e III, di cui all'articolo 14, debbono essere indicate altre piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti e psicotrope la cui coltivazione deve essere vietata nel territorio dello stato.

2. Il ministro della sanità può autorizzare istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca, alla coltivazione delle piante sopra indicate per scopi scientifici, sperimentali o didattici[1].

La citata norma, previa la deroga espressamente contenuta nel comma 2°, si pone, pertanto, come precetto propedeutico alla previsione sanzionatoria dell’art. 73 comma 1, che riguarda la coltivazione di piante dalle quali ricavare sostanze stupefacenti e, in particolar modo, la coltivazione della cannabis.

Il concetto di coltivazione è stato delineato in dottrina da AMATO, il quale lo ha posto in intima correlazione con quelle condotte successive concernenti la vera e propria produzione.

Sicchè la nozione elaborata abbraccia il percorso che va dalla semina nel terreno della pianta allo sbocciare del germoglio, dovendosi escludere, pertanto, la raccolta, siccome fase autonoma, che rientra nel concetto di produzione.

Sulla medesima poszione Spitaleri[2] che pone, come limite finale, quello della maturazione completa della pianta vietata.

Più articolata appare la posizione di Mazzi[3], il quale dopo avere evidenziato l’excursus storico operato dalla giurisprudenza, in ordine alla individuazione del momento consumativo del reato di coltivazione, che ha oscillato su vari indirizzi, giungendo, addirittura, a prospettare come sinonimo di condotta coltivativa – ad avviso di chi scrive illogicamente ed ascientificamente - “...la mera detenzione di semi destinati alla semina e germogliazione...“ (Cfr. Cass.  Sez. 4 15.11.2005 n. 150), introduce un ulteriore elemento di particolare importanza.

L’Autore si sofferma sul requisito dell’offensività della condotta, intesa come caratteristica di idoneità dell’azione a “...portare ad un risultato rilevante, cosa che non può avvenire se la posa o la dispersione del seme[4] avvenga su un terreno o modalità che rendano impossibile la germogliazione[5].

Sul piano fattuale quando si parla di coltivazione penalmente rilevante – utilizzando il concetto, peraltro, nei limiti già anticipati – si fa evidente riferimento a svariate forme di attività.

Vale a dire che in questo ampio alveo sono ricomprese le più disparate modalità operative e fattuali, come, ad esempio, la coltivazione in forma indoor, oppure all’aperto, od ancora direttamente in campo, piuttosto che in vaso.

Si deve rilevare che la linea della dottrina affonda le proprie radici in quell’elaborazione giurisprudenziale, la quale si rifà al principio portato dalla sentenza del 12 luglio 1994, della Sez. VI[6], che ha stabilito che l'ipotesi normativa di coltivazione va intesa in senso tecnico agrario, ai sensi degli artt. 26 e 29 D.P.R. 309/90.

Simile convincimento ha determinato un’evidente conseguenza, in quanto in antitesi alla coltivazione cd. agraria (cioè su scala apprezzabilmente ampia) la più evoluta giurisprudenza, anticipando di dieci anni l’intervento di SS.UU. ha individuato la categoria della coltivazione domestica[7].

Un passaggio particolarmente illuminante della sentenza citata in nota recita  testualmente “...L'espressione "coltivazione" presente in tali articoli evoca chiaramente un'attività tecnico-agraria o imprenditoriale poiché si parla, ai fini dell'autorizzazione, di superficie di terreni, particelle catastali, locali destinati alla'ammasso e si prevede che la coltivazione e la raccolta possano essere controllate periodicamente dalla Guardia di Finanza e dal personale del Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste anche in relazione alla ubicazione ed estensione del terreno coltivato e alla natura e alla durata del ciclo agrario . Ciò può solo significare che la legge, è cioè il D.P.R 309\90, letto nel suo insieme, quando parla di "coltivazione", ha per oggetto di riferimento un'attività in larga scala o quantomeno apprezzabile, destinata ex se all'utilizzo e alla circolazione presso terzi e non si riferisce invece a modesti quantitativi di piante messe a dimora in modo rudimentale in vasi e terrazzi”.

La cd. coltivazione domestica, che verrà sdoganata definitivamente da SSUU 12348/20, dopo un oblio di oltre 12 anni (e tanti troppi processi), in concreto, si risolve nella messa a dimora di un numero limitato a poche piante, svolta in modo rudimentale e sommario, con l’unico fine che è quello di ricavare sostanza destinata all’uso personale delo stesso coltivatore (che, quindi, è in pari tempo un consumatore).

Questa dicotomia tra le condotte e, in particolar modo il riconoscimento ontologico-giuridico della esistenza della categoria della coltivazione domestiva, intesa quale possibile scriminante rispetto alla previsione della violazione dell’art. 73, ha trovato, dopo un iter assai travagliato negli anni, una complessiva e chiara legittimazione, in deroga al divieto generale, con la sentenza di SSUU n. 12348/2020[8].

La possibile non sanzionabilità dell’attività coltivativa, in pendenza di specifiche situazioni e precisi requisiti[9], produce, in favore dell’indagato/imputato, i medesimi favorevoli effetti penali previsti per l’ipotesi di detenzione per uso personale.

La detenzione (assieme all’importazione ed all’esportazione) è condotta notoriamente depenalizzata, che viene punita solo con sanzioni amministrative.

La dicotomia tra le due tipologie di coltivazione derivò, in principio, da un’applicazione estensiva dell’esito del referendum del 18 aprile 1993[10] che - modificando l’art. 75 D.P.R. 309/90 - abrogò ilpiù generale divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti ed il concetto di "dose superiore a quella media giornaliera", quale spartiacque fra l’illecito penale e l’illecito amministrativo e si è venuta – progressivamente – ad affermare sino al culmine della già citata pronunzia delle SSUU n. 12348/2020.

In tale ottica, l’attività di coltivazione, se pure non ricompresa fra quelle espressamente indicate nell’art. 75 del D.P.R.309/90 - e sempre che non sia fornita dall’accusa prova dell’effettiva offensività della condotta in questione – dovrebbe ricadere in tale ambito punitivo, rimanendo estranea  ad interventi penali.

Attese tali premesse, appare evidente la ragionevolezza sul piano giuridico della tesi che mira ad escludere la punibilità del concetto di coltivazione “domestica”[11], intesa come condotta attuata in modo rudimentale e quantitativamente modesto, secondo canoni delineatisi nel tempo,  nel novero sanzionatorio previsto dall’art. 73 d.p.r. 309/1990.

L’omologazione fra la coltivazione domestica e quella più strettamente agricola, infatti, appare in palese contrasto con la volontà del legislatore di sanzionare penalmente la condotta di coltivazione in quanto sintomatica di una pericolosità presunta in ragione dell’idoneità della stessa ad attentare al bene della salute dei singoli arricchendo la provvista esistente di sostanza  stupefacente.

La coltivazione domestica di piantine – in numero limitato e seocndo i canoni che si sono venuti a codificare giurisprudenzialmente - da cui ottenere stupefacente per uso personale, ad avviso dell’orientamento decisorio che si espone, permette a colui che la pratichi di rimanere al di fuori del mercato della droga, senza perciò stesso incrementare il quantitativo di sostanza  reperibile sul mercato.

Queste considerazioni appaiono necessarie, sia dal punto di vista giurisprudenziale, che da quello dottrinale, per affrontare quella che risulta vera e propria “questione coltivazione” che si riferisce in modo specifico all'attività di coltura della canapa e della cannabis.

Nell'ultimo decennio, infatti, il tema del diritto degli stupefacenti è stato significamente connotato – se non addirittura monopolizzato – da un vivacissimo dibattito, soprattutto in sede giurisdizionale, che ha evidenziato la contrapposizione del fronte proibizionista a quello antiproibizionista.

Il tema della rilevanza penale della condotta coltivativa ha significativamente monopolizzato i procedimenti penali in tema di stupefacenti.

Nel contesto di questo acceso confronto, che ha visto protagonisti – in special modo – i giudici di merito, la Corte di Cassazione si è segnalata per l'assunzione di posizioni assai caute (talora astratte), fatte di minime incoraggianti aperture (V. da ultimo SSUU 12348/20 che ha ridefinito i requisiti della non punibilità della condotta), cui sovente, però, sono succeduti arresti che di fatto hanno azzerato ogni ipotetico progresso sul cammino di una ragionevole equiparazione della condotta coltivativa alla condotta detentiva finalizzata al consumo personale.

Dunque, ad una energica spinta innovativa della base giurisdizionale, di carattere ermeneutico, concretatasi in numerose pronunzie assolutorie, si è venuta ad opporre una complessa visione del problema, da parte dei giudici di merito, i quali hanno per lo più cercato di evidenziare elementi negativi e, soprattutto, l'offensività (o presunta tale) della condotta coltivativa, sulla scia della nota sentenza delle SSUU 28 aprile – 10 luglio 2008 n. 28605.

ll reale significato di questa pronunzia, anche a causa della sua complessa e non sempre chiara struttura contenutistica, non è stato colto appieno da coloro – e sono tanti – che l’hanno sottoposta a disamina.

Si è, così, hanno preferito porre l’accento sui profili di totale chiusura (e di illiceità penale) espressi dalla Corte nei confronti della coltivazione, piuttosto che soffermarsi su aspetti, che, invece, anticipavano l’introduzione del criterio dell’offensività, quale paradigma decisorio in questa tipologia di procedimenti.

Ciò nonostante, medio tempore, non sono affatto mancati approdi del giudice di legittimità, che hanno costituito un progressivo iter di tangibile valorizzazione di nuovi paradigmi interpretativi in punto di fatto, in senso favorevole alla coltivazione.

Questi approdi appaiono indubitabilmente propedeutici alla importante decisione delle SSUU sopra richiamata.

In questo senso, come si vedrà, le più significative decisioni appaiono quelle rispettivamente di Sez. VI n. 33835/14, di Sez. III n. 43986/15 e di Sez. IV n. 9156/15, le quali hanno permettere di porre sotto la luce della generale attenzione il citato tema dell'offensività, recependo, come si vedrà orientamenti significativamente maturati nell’ambito delal giurisprudenza di merito.

In funzione del giudizio concernente tale condizione, queste decisioni hanno individuato nuovi parametri per valutare – caso per caso – la sussistenza di tale forma qualificata di antigiuridicità.

La resistenza ad aperture giurisprudenziali è, peraltro, rimasta viva, nel corso del questo difficile e tormentato percorso esegetico, tanto che, negli anni, sono intervenute pronunzie ingiustificatamente ondivaghe e sorprendentemente contraddiittorie.

L’indirizzo che ha propugnato la decisività della condizione di “...conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente” è stato rivisto dalla giurisprudenza di rito.

Infatti la stessa Sez. VI, con la sent. n. 40030, dopo neppure cinque mesi dalla decisione di cui alla nota 1, all'udienza del 26-09-2016, ha valorizzato, invece, proprio il dato quantitativo, affermando che “Non commette infatti reato chi coltiva una pianta di canapa indiana sul terrazzo: ai fini della punibilità penale è infatti necessaria una produzione potenzialmente idonea a incrementare il mercato”.

Ma anche la dottrina ha negato il fondamento di tale posizione.

LA ROSA ha sostenuto che “la soluzione che limita lo spazio di una declaratoria di concreta inoffensività del fatto ai soli casi in cui la coltivazione non sia in grado di produrre una quantità di sostanza dotata di efficacia drogante presuppone una persistente identificazione del bene giuridico tutelato dall'art. 73, Dpr. n. 309/1990 con la salute individuale (e non già con la salute pubblica, come invece sostenuto nella sentenza in commento)..” ed ha  precisato che si tratta di “tesi, però, smentita dalla scelta del legislatore - in linea col principio di autodeterminazione e con una visione anti-paternalistica dell'intervento punitivo - di escludere la rilevanza penale del consumo personale”.

Appare, pertanto, evidente come, in realtà, il tema fondamentale attorno al quale si è sviluppato il dibattito giurisprudenziale è quello dell’offensività della condotta intesa, come affermato da Cass. Sez. VI, 17-02-2016, n. 8058 (rv. 266168), come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso.

La Corte ha dimostrato di aderire a quell’orientamento che ha propugnato, ai fini di affermare la rilevanza penale della coltivazione, la insufficienza dell'accertamento della conformità delle piante al tipo botanico vietato, ed ha, invece, prescritto la necessità di accertare l'offensività in concreto[12] della condotta nei termini sopra descritti.

Per converso si è ritenuto configurabile una situazione di inoffensività “in concreto” in presenza di una condotta minimale.

In questo senso, il parametro valutativo non si è incentrato esclusivamente su specifici canoni ponderali[13], così insignificanti da rendere effettivamente irrisorio l’aumento di disponibilità della droga prodotta, senza rischi di ulteriore diffusione di essa.

E’ stata, invece, valorizzata l’estensione e il livello di strutturazione della coltivazione, paradigma divenuto utile per verificare se dalla coltivazione derivi un raccolto potenzialmente idonea ad incrementare il mercato.

Si tratta di criteri – uniti a quello della destinazione della sostanza ottenuta al fabbisogno personale del coltivatore/consumatore – che sono stati, poi ripresi ed affermati da SSUU nella sentenza 12348/20.

Dalle premesse appena declinate è seguito il principio che incomba, così, sul giudice l'onere di verificare in concreto l'offensività della condotta ovvero l'idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.

Addirittura la Corte di Appello di Roma Sez. III, 22-09-2016, si spinge ancor più avanti, ravvisando comunanza di identità tra la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, (nell'ipotesi non sia riconducibile alla nozione di coltivazione in senso tecnico-agrario, ovvero imprenditoriale), e la nozione della detenzione, con la naturale conseguenza che occorre verificare se, nel caso concreto, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale di quanto coltivato.,

Quella espressa dalla Corte territoriale rimane una posizione estrema ed isolata, ma costituisce apparenza significativa del dubbio avvertito in relazione al fondamento del possibile parallelismo fra coltivazione domestica e detenzione.

Si tratta di un indirizzo che, come detto estremamente minoritario, è stato totalmente smentito da SSUU 12348/20 (che ha ripreso l’insegnamento di cui alla sent. 28605/2008) “...stante la autonomia concettuale tra la coltivazione non autorizzata e la mera detenzione (contrariamente a quanto, invece, era stato argomentato dalla giurisprudenza di legittimità che aveva avallato tale tesi), che non può quindi in alcun modo consentire la parificazione tra tali condotte ontologicamente distinte tra loro[14].

In ogni caso a fronte dell’indirizzo che pone al centro della questione il tema dell’offensività della coltivazione, si è imposto il problema della tipicità della condotta  in questione.

L’offensività (nullum poena sine iniuria) presuppone la circostanza che il reato leda, oppure metta in pericolo un bene che abbia rilevanza giuridica e che, peertanto, sia tutelato dalla norma penale.

Come detto in nota 13, per il principio dell’offensività vige una duplice accezione in astratto e in concreto.

Da un lato, così, l’astrattezza postula e contempla la previsione normativa di reati che concernano beni giuridici, i quali sul piano teorico risultino suscettibili di offesa.

Si tratta, quindi, di un naturale antecedente giuridico rispetto all’evento od alla condotta materiale, fondato sull’esistenza della specifica norma penale incriminatrice.

Dall’altro, invece, si tratta di dare, di conseguenza, attuazione al principio astratto.

Il profilo della concretezza si viene a riferirire al momento applicativo del pricnipio astratto, che compete al giudice, il quale deve operare un giudizio in ordine alla’effettiva idoneità della condotta materiale a ledere o minacciare il bene tutelato.

Questa dicotomia è stata evidenziata dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 360/1995), che, chiamata a pronunciarsi sulla illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del TU in materia di stupefacenti per violazione degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione, ebbe a ritenere la questione infondata.

La Consulta rilevò che l’incriminazione della condotta di coltivazione rispettava il principio di offensività, in primis, attesa la previsione espressa di una norma contenente un precetto ed una corrispondente sanzione (c.d. offensività in astratto).

Per il perfezionamento del concetto nella sua interezza, quindi, attraverso l’attuazione della c.d. offensività in concreto[15], il giudice delle leggi riconobbe la necessità che il giudice accertasse che la singola condotta concretamente posta in essere risultasse realmente idonea a minacciare i beni giuridici presidiati dalla norma incriminatrice.

La tipicità, a propria volta, consiste nella sussumibilità della fattispecie concreta in quella astrattamente prevista dalla norma.

Nella specie, requisiti per sostenere la tipicità della condotta coltivativa si desumono dalla conformità del tipo botanico della coltura rispetto a quello legislativamente vietato, nonché alla capacità delle piante, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a compiuta germinazione ed a produrre sostanza stupefacente.

La tipicità, dunque, integra un profilo del tutto distinto e per nulla confondibile  con l’offensività – specie dell’antigiuridicità -, ma rimane categoria decisiva ai fini della valutazione globale di illiceità penale della coltivazione.

Si deve, peraltro, osservare che la nozione di tipicità assolve esclusivamente alla funzione di catalogare la pianta coltivata nel contesto di quelle per le quali è necessario essere muniti di un’autorizzazione ex art. 17 e 26 Dpr 309/90.

Si tratta di un carattere concernente la pianta oggetto dell’azione che evidentemente – a cascata – riverbera effetti sulla natura della condotta coltivativa, ma che non può, ex se, risultare risolutivo, privando di valore altri differenti elementi.

Una volta incentrati i due capisaldi ermeneutici, emergono ulteriori spunti utili a delineare nella sua completezza il giudizio .

Si deve premettere, per meglio comprendere, come questi diversi paradigmi valutativi abbiano avuto ingresso nel procedimento ermeneutico definito dalla giurisprudenza, che l’apporto delle numerose decisioni dei giudici di merito sia stato fondamentale.

Si può seriamente sostenere che la base giurisprudenziale ha certamente influito positivamente sugli approdi della Corte di rito, anche formalmente una simile ammissione sarà estremamente difficile da rinvenire pubblicamente.

Il percorso della giurisprudenza di merito

Come anticipato, il principio sancito dalla sentenza delle SSUU, n. 12348/20 è frutto di un’articolata opera interpretativa che muove da un’epoca lontana nel tempo e da una disamina che ha visto protagonista la magistratura di merito.

La sensibilità al tema specifico manifestata da Giudici Monocratici o da GUP deriva da quell’insegnamento contenuto nella nota sentenza n. 28605/2008 delle SS.U, che valorizzava il potere-dovere del giudice di operare una valutazione in concreto dell’offensività della condotta coltivativa.

Va detto, peraltro, che alcuni passaggi di questa sentenza – come ad esempio la negazione di un’effettiva distinzione fra coltivazione agraria e coltivazione domestica (da cui derivare radicali conseguenze sul piano della valutazione dell’illiceità della condotta) con omologazione di entrambe le forme di coltura – ho trovato forti (e giuste resistenze).

Si richiama – ad esempio – GUP Milano 19 giugno 2014 che ha ritenuto l’infondatezza della contestazione di coltivazione illecita in senso tecnico-agrario[16], verso l'imputato, in ragione del numero delle piante (3) e del luogo ove le stesse erano rinvenute.

La ricordata sentenza giungeva addirittura a stabilire che la cosiddetta coltivazione domestica appare ricadente nella nozione della detenzione, che a, differenza della coltivazione imprenditoriale, non è di rilevanza penale  se destinata ad uso esclusivamente  personale  (Cass. Pen.  Sez. 6, Sentenza n. 42650/2007).

La importante delega, così operata, purtroppo, è stato troppo spesso trascurata dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza (sia di merito, che di legittimità), che non hanno tenuto conto che "spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto”.

La portata innovativa del principio in parola è indubbia.

Essa esprime, in sè, una propria aperta dissonanza dal rigorismo negativo che ha permeato la decisione ricordata.

In dottrina la vexata quaestio è stata affrontata da AMATO.

L’autore ha posto la coltivazione in intima correlazione con quelle condotte successive concernenti la vera e propria produzione, le quali, peraltro, rimangono distinte dalla coltivazione.

E’ stata, così, sostenuta l’assorbenza della condotta coltivativa – e del relativo giudizio penale (qualunque sia la valutazione operata – rispetto alla successiva condotta detentiva del prodotto ricavato e prodotto.

Seguendo un filo temporale si può muovere dalla pronunzia del GM di Ferrara, del 20.3.2013, (Balboni+1) che è risultata la sentenza capostipite del movimento giurisprudenziale orientato a riconoscere la possibile non illiceità di forme di coltivazione, connotate, seppur in forma ancora acerba, da requisiti quali quello del limitato numero di piante messe a dimora, del modico contenuto di principio attivo ottenibile, della rudimentalità della coltivazione e della destinazione del prodotto al soddisfacimento del fabbisogno del coltivatore-consumatore.

La sentenza si connota per la ricchezza della pluralità dei temi affrontati e, soprattutto, per un’aperta contestazione e presa di distanza rispetto all’indicazione di SSUU 26805/2008.

Tale motivata scelta legittima, a parere di chi scrive la trascrizione di gran parte del segmento motivo della stessa[17], onde ocmprendere come taluni principi, per i quali gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno espresso sorpresa,  fossero  già stati enucleati pacificamente oltre 7 anni prima.

Altra sentenza rilevante è quella – di cui si è già fatto in precedenza menzione – emessa dal GUP di Cremona il 10.10,13[18].

Sulla premessa dell’individuazione del bene protetto sul piano penale dal Dpr 309/90 che viene ritenuto quello di evitare che le sostanze stupefacenti siano cedute a terzi e fatte circolare accrescendone cosi la diffusione, passaggi salienti della stessa appaiono, il giudice si interroga sull’effettiva lesività della condotta coltivativa attuata nella specie.

In buona sostanza il dilemma sollevato dal GUP intercorre fra un giudizio di lesione del bene che si intende proteggere o al contrario se l’azione giudicata sia, invece, circoscrivibile all'interno di una detenzione ad uso personale sia pure con le modalità dell'auto-produzione,senza rivolgersi e senza alimentare il narcotraffico e, comunque, con una nulla o minima offensività del bene tutelato.

Per la sentenza, in questo caso, soccorre l’esame della condotta, in base ai dati di fatto che emergono dagli atti, e, soprattutto, sulla scorta dell’assenza di elementi che indichino una destinazione della marijuanaa terzi e sul numero di piantine esiguo[19].

Si tratta di canoni rilevanti, soprattutto, in quanto posti in intima relazione con il giudizio di offensività della condotta.

Sulla medesima linea il Gup di Lecco sent. 25.3.2014, iun relazione ad una piantagione di 8 vegetali, rilevava in relazione al caso di specie “….che si trattava senza alcun dubbio di coltivazione domestica e che deve concludersi che non vi sono  elementi sufficienti per affermare che la condotta ascritta all'imputato sia stata in concreto offensiva”.

Dunque, in tempo non sospetto, venivano individuati due temi fondamentali, che – a distanza di anni – verranno ripresi dalle SSUU e cioè il carattere di coltivazione domestica – ripudiato nel 2008 – e il parametro dell’offensività[20] della condotta.

Ed ancora il GUP di Avellino (sent. 77/2014, ud. 26 marzo 2014), assolvendo due imputati accusati di coltivazione di 1 pianta[21], si sofferma attentamente sui casi di esclusione dell’offensività, ravvisabili allorquando le piante non abbiano ancora completato il ciclo di maturazione e non abbiano ancora prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza del principio attivo della sostanza stupefacente (Cass.pen., sez. IV, 28.10.2008/14.1.2009 n. 1222, Nicoletti) ovvero, allorquando siano prive di (o, in altre pronunce, dotate di modesta) efficacia drogante (di recente, Cass.pen., sez. VI, 2.5.2013 n. 22110, Capuano, che ha escluso l’offensività della coltivazione di tre piantine di marijuana; Cass.pen., sez. IV, 20.9.2013 n. 43184, Carioti; Cass.pen., sez. IV, 17.2.2011 n. 351, Marino, che ha escluso l’offensività della coltivazione di una sola pianta di cannabis contenente un principio attivo di 16 mg.).

Significativa, inoltre, della spiccata sensibilità manifestata rispetto al problema del parallelismo fra coltivazione di piante di cannabis e detenzione di stupefacenti ad uso personale, risulta, poi, il passaggio relativo alla possibilità che risulti ingiusta la diversificazione delle due condotte “...va rilevato che la concreta fattispecie sembra evidenziare la potenziale irragionevolezza del differente trattamento della coltivazione e della detenzione (entrambe) “ad uso esclusivamente personale”, potendo la contestazione della fattispecie dipendere dal casuale momento della ‘scoperta’ del fatto...”.

Nel contesto giurisprudenziale che si sta ripercorrendo, meritevole di menzione appare anche la sentenza 22/2014 del GUP di Trento (8.5.2014) che valorizza la destinazione del prodotto, ottenuto con la coltivazione, alla soddisfazione del fabbisogno personale dell’agente.

Nella specie, poi, la destinazione in questione appariva oltremodo qualificata, perché essa era caratterizzata “dalla necessità di utilizzo per una cura sintomatica della patologia da cui l'imputato era affetto”.

Il principio sancito, nel provvedimento in questione, è quello che è onere del giudicante di stabilire se, in presenza delle particolari caratteristiche del fatto, la coltivazione assuma i connotati di pericolosità concreta, che la giurisprudenza di rito in punto ad offensività.

L’esiguo numero di piante – 3[22] – il fine terapeutico (qualificato), unitamente al richiamo alla sent. 360/95 della Consulta, (la quale afferma la punibilità della coltivazione anche in caso di semplice  destinazione  a  consumo  personale), solo in riferimento all’attività coltivativa in senso tecnico, cioè  che risulti tale da arricchire ed incrementare la complessiva provvista di stupefacente sul mercato, costituiscono osservazioni particolarmente significative.

Analogamente GUP Lucca 4.4.2014 n. 201/14[23], in relazione ad una coltivazione di tre piante, pone in evidenza sia il carattere minimale della piantagione, sia la destinazione al consumo personale, quali elementiche escludono la punibilità, sotto il profilo dell’assenza di incremento del mercato della droga.

Ed allo stesso modo GUP Pisa 2.4.2014 n. 168, riguardo alla coltivazione di 4 piante di marijuana ed alla detenzione di 39 rami secchi di infiorescenza di marijuana, aventi un quantitativo totale di principio attivo pari a 4,64 grammi.

Questo percorso ermeneutico è rimasto inalterato nel corso del tempo, non subendo arresti di segno contrario.

Anzi, anche in epoca successiva a quella sin qui esaminata si sono segnalate decisioni che hanno arricchito l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato.

In questo senso GUP Belluno, 16.2.2018 n. 122 che, in relazione ad una coltivazione di 8 piante, ha posto l’accento sull’assenza di offensività della condotta[24], desunto dalle modalità di attuazione della stessa – definita “artigianale” - e sull’inidoneità del prodotto ottenuto ad influire in concreto – ove per ipotesi posto in commercio – sul mercato illecito.

A propria volta il G.M di Bologna 4.5.2018 n. 2103, evidenzia positivamente, ai fini del giudizio di offensività, sia la rudimentalità della struttura coltivativa, sia la destinazione al consumo personale, sia il limitato numero di piante.

Su altri differenti profili si sofferma il GUP di Trento 15.3.2018 n. 1015/17, che ha affrontato il problema di una piantagione di 23 esemplari, funzionale alal produzione di cannabis terapeutica.

Senza volere aprire un capitolo che merita un’eventuale trattazione a sé stante, per le importanti implicazioni che la condotte di automedicazione ed autodiagnosi comportano, sia sufficiente ai fini della presente trattazione rilevare le ragioni in base alle quali la condotta coltivativa è stata scriminata dal giudice.

In primo luogo è apparsa pacifica la circostanza che l’imputato era affetto da patologie che rendevano necessario l’uso terapeutico della cannabis.

Una volta valutata questa circostanza che sostanzialmente costituisce l ‘incipit della condotta, il GUP si è soffermato sul dilemma che l’imputato ha dovuto affrontare nel momento in cui doveva reperire la sostanza da usare medicalmente.

La scelta che si prospettava all’imputato era, infatti, quella di rivolgersi o al mecato illegale, con pronto reperimento del prodotto, ma con evidenti elevati rischi di natura penale, oppure quella di seguire la trafila del SSN.

In questo ultimo caso l’interessato ha dimostrato di doversi scontrare con l’assenza di sicurezza in ordine alla possibilità di fruire in modo tempestivamente ragionevole dei medicinali prescritti, attesa la scarsa quantità disponibile degli stessi e per il basso numero di farmacie che vendono medicinale a base di cannabis.

Sicchè il principio della continuità terapeutica avrebbe subito una palese lesione.

Dunque la coltivazione, come si legge in sentenza, ha costituito “l’unica modalità di accesso al THC con finalità terapeutiche”,venendo esclusa in radice qualsiasi ipotesi di immissione del prodotto su di un mercato di destinazione illegale, cioè al di fuori della sfera di disponibilità dell’imputato.

Questo rilievo – anche se strettamente collegato alla specificità del caso – ribadisce l’inserimento a pieno titolo del consumo personale, fra i requisiti essenziali da utilizzare per formulare il giudizio di offensività.

Viene, in questo modo, superata, quella posizione assunta da SSUU 26805/2008, che devalorizzava, inopinatamente, il rapporto di immediatezza intercorrente fra coltivatore/assuntore  e prodotto della coltivazione, privilegiando in maniera del tutto astratta (ed illogica) la potenziale attitudine all’immissione sul mercato del raccolto.

Il principio affermato, nel caso specifico, per il suo carattere generale, quindi, non può venire circoscritto all’episodio giustificato dai riconosciuti fini terapeutici, posto che, una volta provata la destinazione al consumo personale dell’agente, il  rapporto di collegamento diretto con il prodotto è, a propria volta, sicuro.

Il percorso giurisprudenziale si è recentemente con la sentenza del G.M. di Rimini,  4.10.2022 n. 1627, che in relazione alla coltivazione di due piante ha posto la propria attenzione sulle modalita della coltivazione[25], e sulIa rudimenta1e attività di coltivazione, avente ad oggetto un numero irrisorio di piante, unitamente all'assenza di ulteriori elementi sintomatici dello svolgimento di attivita di cessione a terzi di sostanza stupefacente.

Per completare in modo esaustivo il quadro della giurisprudenza di merito ritengo opportuno citare alcune pronunzie che hanno risolto la questione della coltivazione, attraverso il ricorso all’istituto della particolare tenuità previsto  dell’art. 131 bis c.p.[26].

In questi casi, è evidente che la prospettiva utilizzata dal giudicante – pur pervenendo ad una sentenza di proscioglimento (anche se taluno parla di assoluzione) che risulta, comunque, favorevole all’imputato – si risolve in un giudizio di illiceità dell’attività coltivativa.

Il giudizio di responsabilità penale, che dovrebbe, pertanto, comportare la condanna del coltivatore, viene, invece, così, escluso, perché, ove sia possibile la previa riqualificazione della condotta nell’ipotesi di cui al co. 5 dell’art. 73 (lieve entità), che comporta un limite massimo di pena di 4 anni di reclusione, interviene una valutazione di limitatissima offensività dell’azione coltivativa.

Un primo esempio meritevole di citazione è la sentenza 260/2016 del GUP di Fermo (27.10.2016) relativamente a 50 piante (che presentavano diversi livelli di crescita e maturazione).

Nella specie è stato ritenuto  che, pur trattandosi di quantitativo di sostanza  al di sopra dei minimi di legge, il prodotto – in totale 13 gr. di THC su un peso lordo di 500 gr. - si manifestava come “contenuto”.

Oltre a questo carattere, il giudice evidenziava la “occasionalità” del fatto, anche se il riferimento all’assenza di danno non pare corretto, perché in tal caso avrebbe, ad avviso di chi scrive, dovuto prevalere una prognosi di non offensività ed una pronunzia assolutoria di merito.

Un analoga soluzione è stata adottata dal Tribunale di Roma sent. 5746/18 ud. 20.4.2018, in relazione alla coltivazione di 3 piante.

Nell’occasione, il giudice ha aderito al principio dettato da SSUU 26805/08 che stabiliva come la coltivazione dovesse essere ritenuta illecita, “quale che sia il principio attivo ricavabile”.

E’ stata, così, ritenuta penalmente rilevante la condotta dell’imputato, perché il giudicante ha valutato che la fattispecie ponesse in pericolo il bene giuridico della salute.

Al contempo, però, l’azione ritenuta illecita è stata riqualificata nella previsione del co. 5 dell’art. 73, condizione necessaria per l’ulteriore passaggio logico funzionale all’applicazione delll’art. 131 bis c.p. .

E’ stato apprezzato il carattere non profesisonale della coltivazione e la circostanza di “minime ricadute in termini di danno od allarme sociale”.

Il percorso della giurisprudenza di legittimità. I piuù significativi approdi

E’ chiaro che la giurisprudenza di legittimità diffiiclmente ammetterà di avere subito una qualche (vi è chi ritiene importante) influenza nella valutazione di nuovi parametri fattuali, alcuni inediti, derivante dalla produzione giurisdizionale dei presidii di merito.

E’, altrettanto, chiaro, invece, che deve essere riconosciuta la giusta rilevanza delle pronunzie dei vari Tribunale o Uffici GUP, le quali hanno tradotto, in modo sempre più esplicito, elaborandoli, principi che i giudici della S.C. sovente hanno abbozzato in modo implicito e solo come mera forma di incipit.

Il  cammino della giurisprudenza di legittimità non è stato ne facile, ne, tantomeno, coerente.

Un excursus storico dimostra che la Corte di Cassazione, sin da epoche maggiormente risalenti (ed ormai datate) ha mostrato un’anima rigorosamente sfavorevole alla coltivazione.

In questo senso giovi ricordare la decisione della Sez. IV  29 Settembre 1994, Noia[27], che ha precisato come pur essendo intervenute le modifiche introdotte, dopo il referendum abrogativo del 18/19 aprile 1993 (d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171), nella disciplina penale degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope, la coltivazione di sostanze stupefacenti pur destinata ad esclusivo uso personale è sanzionata penalmente a norma dell'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, giacchè gli effetti abroganti del d.P.R. n. 171/93 non riguardano le norme di cui agli artt. 26 e 73 d.P.R. n. 309/90, che fanno espresso divieto di coltivazione e fabbricazione, e l'art. 75 d.P.R. n. 309/90, come riformato dal decreto referendario, limita, inoltre, oggettivamente l'ambito dei soggetti che eventualmente fanno uso personale della sostanza stupefacente, con riferimento specifico a chi illecitamente importa, acquista o, comunque, detiene sostanze stupefacenti. Nè, ai fini di una diversa conclusione, è possibile un'estensione analogica, in mancanza dei presupposti necessari e in considerazione della tassatività delle prescrizioni contenute negli artt. 73 e 75 d.P.R. n. 309/90, che implicano una scelta precisa ed una valutazione ponderata del legislatore[28].

Una siffatta impostazione ha trovato, naturalmente, quindi, importante sostegno nella sentenza n. 360 del 24 luglio 1995[29], con la quale la Corte Costituzionale ebbe a dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 D.P.R. 309/90 dedotta sia sotto il profilo dell’asserita violazione del principio di ragionevolezza e di parità di trattamento, sia sotto il profilo dell’asserita violazione del principio della necessaria offensività della fattispecie penale nell’ipotesi in cui il principio attivo ricavabile non sia sufficiente a produrre l’effetto stupefacente - sul rilievo della "non comparabilità delle diverse condotte prese in considerazione dalla legge".

In altro paragrafo si tratterà il rapporto con la giurisprudenza costituzionale.

La posizione di chiusura sopra esposta ebbe a trovare conferma in altre pronunzia anche a distanza di oltre vent’anni.

Esempio plastico di quanto si va affermando si rinviene nella sent. 16019/14 ud. 31.10.2013 Sez. VI, che mostra e precisa espressamente di recepire totalmente le indicazioni fornite dalla sentenza di SSUU 26805/08.

La Corte, accogliendo il ricorso del PM avverso l’annullamento dell’ordinanza cautelare a carico di un’indagata coltivatrice, da parte del Tribunale del Riesame id Bari, testualmente stabilì che Da tempo le Sezioni Unite di questa Corte regolatrice (S.U., 24.4.2008 n. 2 Salvia, rv. 239920) hanno definitivamente chiarito come integri un contegno penalmente rilevante ogni attività non autorizzata di coltivazione di piante da cui siano estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia attuata in funzione di un uso soltanto personale del  prodotto della coltivazione (così anche, ex plurimis: Sez. 6, 13.10.2009 n. 49528 proc. Lanzo, rv. 245648; Sez. 6, 9.12.2009 n. 49523, Camrnarota, rv. 245661).

La pronunzia evidenziava, altresì, attesa la natura di reato di pericolo presunto della coltivazione, la irrilevanza  ai fini della punibilità, del fatto, dell'estensione o dei metodi di coltura, e, tanto meno, sia del livello di maturazione raggiunto dalle piante, che del grado di principio attivo ricavabile[30].

Lo stesso concetto di offensività veniva legato al parametro della sola idoneità della coltivazione a produrre la sostanza per il consumo.

La Corte, così, esclude l’incidenza della quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza dell'accertamento e, per converso valorizza la conformità delle piante al tipo botanico previsto e la loro attitudine (anche per la cura di coltivazione) a giungere a maturazione e a produrre lo stupefacente utile per il consumo[31].

Questo rigore interpretativo viene cautamente temperato dall’evoluzione di pensiero, che proprio la stessa Sez. VI, con la sent. 33835/14, ud. 8.4.2014 manifesta.

Dopo una lunga dissertazione, riguardante gli approdi della giurisprudenza costituzionale in tema di offensività, si legge nel provvedimento – che riguarda la coltivazione di 2 piante di cannabis – che ai fini della declaratoria di inoffensività della condotta è parametro ragionevole quello “….del conclamato uso  esclusivamente  personale  e  della  minima  entità  della coltivazione tale da escludere la possibile diffusione della sostanza producibile e/o l'ampliamento della coltivazione..”.

Per la prima volta, quindi, vengono menzionati e considerati due paradigmi (l’uso personale e la minima entità della piantagione), quale elementi derogatori al severo regime di illiceità presunta che connota la coltivazione.

Peraltro, si deve osservare che questa sentenza, pur distaccandosi dall’indirizzo sino a quel momento invalso, non pare sancire ancora un totale mutamento di rotta, anche se emergono timidi segnali di novità

Pur sostenendo che :

1. “...la coltivazione non può essere direttamente ricollegata all'uso personale ed è punita di per sé in ragione del carattere di aumento della disponibilità e della possibilità di ulteriore diffusione...”;

2. “...l'azione tipica della coltivazione si individua senza alcun riguardo all'accertamento della destinazione della sostanza bastando che sia realizzato il pericolo presunto quale sopra specificato…”;

3. “l'onere della prova, spettando all'accusa dimostrare la realizzazione del fatto tipico, va ritenuto tendenzialmente a carico dell'imputato anche se è probabile che la condizione di inoffensività sia di immediata percezione….” (principio assolutamente sorprendente che inverte l’onere della prova!);

La sentenza introduce un temperamento, che può apparire in plateale contraddizione con quanto premesso, ma che, a ben guardare, costituisce una evoluzione proprio della dinamica valutativa dell’offensività.

Sostiene la Corte che “..nella individuazione del compimento della azione tipica nel singolo caso, va applicata la regola di necessaria sussistenza della "offensività in concreto"; ovvero, pur realizzata l'azione tipica, dovrà escludersi la punibilità di quelle condotte che siano in concreto inoffensive. Per il caso in questione, tale condizione ricorre per quelle condotte che dimostrino tale levità da essere sostanzialmente irrilevante l'aumento di disponibilità di droga e non prospettabile alcuna ulteriore diffusione della sostanza….”.

Ecco, quindi, un nuovo profilo di offensività, veramente collegato ad un giudizio diretto sul fatto e sulle caratterstiche dello stesso.

In questo solco, significativa, poi risulta la pronunzia sempre della Sesta Sez. ud. 10.11.2015 n. 5254/16.

Affrontando la vicenda dei due coltivatori, imputati per avere approntato una serra con due piante, condannati nei due gradi di merito, per la violazione del co. 5 dell’art. 73, i giudici di legittimità criticano la decsione della Corte territoriale, che non avrebbe affrontato la questione della destinazione al consumo personale del coltivatore, del prodotto ricavato.

In tale senso – ad avviso della S.C. - la “modesta quantità della droga resa disponibilie dalla limitata fonte di produzione (solo due piante) conferma che si trattava di droga destinata al consumo personale degli imputati”.

Ergo la destinazione della sostanza estraibile dalle piante diviene argomento di assoluto pregio, al fine di valutare uno degli aspetti dell’effettiva offensività della condotta coltivativa.

La sentenza ripudia, pertanto, quella interpretazione circoscritta alla sola idoneità drogante della sostanza ottenuta, ponendosi come prosecuzione logico-giuridica della sentenza 33835/14, sopra citata.

Diciamo pure che anche il percorso delibativo risulta assai simile a quello della ricordata sentenza, venendo sottolineate le presunte ontologiche differenze rispetto alla condotta detentiva, ragioni che legittimerebbero il trattamento di maggior sfavore della coltivazione rispetto alla detenzione.

Il fulcro centrale rimane, anche in questo caso, in ossequio alla tresi di SSUU 26805/08,  la asserita assenza di uno stretto collegamento della sostanza coltivata alla sua successiva destinazione, situazione che invece, i supremi giudici ritengono sussistente nella detenzione.

La situazione di pericolo astratto, quindi, sarebbe elemento, ad avviso della Corte di legittimità, determinante per negare l’equiparazione fra le due condotte.

Il ragionamento appare ineccepibile, ma solo in linea teorica.

Intanto, va ricordato che la stessa sent. 28605 e la 28606, aprono alla delegazione del potere di accertamento in favore del giudice di merito, della effettiva sussistenza di una situzione di pericolo concreto.

Per esercitare questa delega, il giudice, però, può (e deve) anche esaminare lo scopo finale del prodotto e verificare se esso risulti la soddisfazione dei bisogni personali del coltivatore.

Dunque il giudice, alla luce della disamina degli elementi in proprio possesso, può giungere – come nel caso della sentenza richiamata - a sancire la sussistenza di una situazione che, in concreto, dimostra un rapporto di disponibilità immediata del prodotto ottenuto e raccolto, da parte del produttore-consumatore.

Si potrà eccepire che, in relazione alla detenzione di stupefacenti esiste una presunzione juris tantum di liceità del possesso, con obbligo per l’accusa di provare al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dell’indagato/imputato.

La pur ineccepibile fondatezza di questo rilievo non pare decisiva, perché il problema, nella specie, concerne profili strettamente processuali e cioè attiene alle regole di accertamento della illegalità della condotta.

Il denominatore comune alle due fattispecie – ed è ciò che conta per chi scrive – è la non sanzionabilità dei comportamenti quando questi vengano caratterizzati dal fine del consumo personale.

In entrambi i casi la non immissione sul mercato del prodotto (o detenuto, o coltivato) esclude dalla cornice di illiceità il comportamento.

E francamente poco conta che la coltivazione presenti un carattere più spiccatamente di pericolo, (consistente nella potenziale idoneità ad aumentare la dispobiniità di stupefacente da immettere sul mercato), rispetto alla detenzione.

Come detto, si tratta di un metus astratto, destinato immediatamente -in presenza di prova contraria – a perdere efficacia.

L’appartenenza della pianta al tipo botanico della cannabis, carattere in passato ritenuto nsormontabile, viene retrocesso a circostanza che può essere valutata in parallelo con quelle già menzionate e che può risultare recessiva in un giudizio di bilanciamento tra le stesse.

La pronuncia di annullamento senza rinvio con assoluzione è parsa, quindi, soluzione coerente.

Altra decisione che costituisce approdo significativo è quella di Sez. VI, 21 gennaio 2016 (ud. 21/10/2015) n.2618.

Anche in questo caso – attinente alla colitvazione di 9 piante e conclusosi in precedenza con una condanna a 6 mesi per violazione del co. 5 dell’art. 73 – viene valorizzato il principio dell’offensività in concreto, quale indice di temperamento e riscontro rispetto al rigidissimo orientamento  2...della sentenza Di Salvia (SSUU 26805/08), che ha ritenuto punibile anche la coltivazione di una minima sostanza per uso personale...”.

Le conclusioni cui perviene la sentenza si riassumono in due principali segmenti:

a. la condotta di coltivazione, per essere punita, deve essere in grado in concreto di mettere in pericolo la salute pubblica e ciò può accadere se la pianta ha una effettiva e attuale capacità drogante;

b. deve escludersi che per la punibilità di tale condotta sia sufficiente la verifica che sia stata coltivata una pianta conforme al tipo botanico, in quanto va comunque accertata la sussistenza della offensività in concreto, nel senso che anche in presenza del perfezionamento dell'azione tipica, il giudice deve escludere la punibilità se la condotta è in concreto inoffensiva

Balza all’evidenza l’assenza di qualsivoglia riferimento – quale dato rilevante - alla destinazione della sostanza al consumo personale.

Anzi questa pronunzia pare molto attenta a non estendere ed attribuire specifica valenza a questa circostanza soggettiva[32], risultando sia un esempio di passo indietro sul cammino dell’affermazione di nuovi parametri , sia dimostrazione del tormentato e difficile percorso coperto per giugnere alla pronunzia di SSUU 12348/20.

Su questo binario ermeneutico si pone Sez. 3 n. 43986/15, 2.11.2015 (ud. 27.3.2015), che, richiamando anch’essa espressamente il dettatto della pronunzia 33835/14, valorizza – al fine di annullare senza rinvio una sentenza della Corte di Appello di Firenze – gli elementi già sottolineati dalla stessa decisione di riferimento.

Soprattutto la decisione in questione, oltre a consolidare l’orientamento in questione, rileva la mala intepretazione degli stessi da parte dei giudici di merito, con specifico travisamento della loro portata.

La S.C. sottolinea, poi, la possibilità che “data la modestissima rilevanza quantitativa della piantagione (si tratta di due piantine ancorchè mature) la sostanza da essa prodotta, in quanto destinata all’autoconsumo, non avesse neppure in minimo grado l’attitudine ad incrementare il mercato degli stupefacenti”.

La lunga marcia giurisprudenziale non è stata, però, priva di qualche incidente di percorso, vale a dire di taluna pronuncia che si sia espressa su posizioni fortemente dissonanti ed opposte a quelle espresse dall’orientamento prevalente.

E’ il caso di Sez. 3 ud. 7.7.2015 n. 38364/15, che, con una ponderosa sentenza, conferma una sentenza di condanna della Corte di Appello di Milano, per un fatto di coltivazione di tre piante di cannabis, dichiarando la propria incondizionata adesione all’insegnamento di SSUU 28605/08 e criticando ferocemente e dettagliatamente le decisioni di segno opposto.

La sentenza richiamò a sostegno della propria tesi, anche la pronunzia della Corte Costituzionale n. 360/1995, che ebbe a rigettare la questione di costituzionalità dell’art. 73 dpr 309/90, in relazione alla condotta coltivativa ed affrontando la questione dell’offensività della condotta, risolse la stessa precisando testualmente che “la offfensività non ricorre solotanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.

Si tratta, nella specie, di una pronunzia rimasta isolata[33].

Ciò non di meno appare evidente che si verteva ancora in una situazione ermeneutica non ancora del tutto chiara, attesi plurimi punti di vista.

Nonostante, infatti, una certa coerenza e costanza in materia di apertura a nuovi parametri valutativi, della giurisprudenza di legittimità, si notano ancora alcuni distinguo.

 E’ il caso della Sez. 4, con la sent. 9156/15 – ud. 11.12.2014 – che, pur accogliendo il ricorso di un imputato, condannato per la coltura di 5 piantine, ha ritenuto che il principio dell’offensività, in base al quale la sentenza di merito andava annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste, andasse ancorato esclusivamente al dato ponderale (quantità modesta di THC estraibili), cui può riconnettersi la “modesta attività di coltivazione posta in essere”.

Nella specie, quindi, nessuna menzione riguarda la ipotizzabile destinazione del  prodotto a fini di consumo personale .

In progresso di tempo, si è registrata una progressiva stabilizzazione dei parametri sottesi al giudizio di offensività, che ha permesso riferimenti sempre più precisi.

La Sez. 3, con la sent. 36036/17 del 22.2.2017 si è occupata di questione risolta dalla Corte di Appello di Catania, con la conferma di una condanna ad 8 mesi di relcusione per la coltivazione di 6 piante di cannabis.

L’aspetto di maggiore interesse del provvedimento riposa nel rifiuto di quella tesi che vorrebbe perfezionata l’inoffensività della condotta, solo in assenza di quantitativi di sostanza ricavabile inidonea ad “esercitare, anche in maniera minima, l’effetto psicotropo evocato dall’art. 14 del DPR n. 309 del 1990” e di conformità della pianta al tipo botanico della cannabis.

Questa specifica posizione valorizza, così la differenza fra tipicità e offensività della condotta, che notoriamente costituiscono due profili differenti e pr nulla sovrapponibili tra loro.

Vale, infatti, a dire che quelli evocati dall’orientamento maggiormente restrittivo (l’appartenenza al tipo botanico e l’inidoneità della sostanza a suscitare effetti droganti) sono stati collocati dalla Corte nella categoria dei requisiti di tipicità della condotta.

Precisa la Corte che “...Infatti, l'assenza di un qualunque effetto stupefacente nella sostanza prodotta o coltivata non esclude tanto l'offensività, quanto piuttosto la stessa tipicità della condotta, secondo quanto posto in evidenza, in molte occasioni, dalla più attenta dottrina penalistica e, di recente, dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n.109/2016…”.

Dunque l’offensivit si deve ravvisare oltre che nella “...attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante, anche come concreto pericolo di aumento di disponìbilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso ...” [34].

Stabilite le coordinate interpretative del concetto in questione, la Corte introduce quali ulteriori elementi positivi per definire inoffensiva la coltivazione l'estensione e il livello di strutturazione della coltivazione,  onde verificare se possa derivare o meno una produzione potenzialmente idonea ad incrementare il mercato e, in pari tempo, il conclamato uso esclusivamente personale e la minima entità della coltivazione.[35]

Ma la sentenza offre di più, perché si sofferma anche sul tema della minaccia della coltivazione rispetto al bene giuridico della salute, giungendo ad escludere tale metus nel caso concreto.[36].

La sentenza n. 12348/20 delle Sezioni Unite. La apparente novità della giurisprudenza di legittimità

Al termine del cammino esegetico di anni, anche troppo complesso ed articolato, delineato nel paragrafo che precede, le SS.UU con la sent. 12348 sono state chiamate ad affrontare per l’ennesima volta il tema della liceità penale della coltivazione di piante di cannabis.

Questa pronunzia appare, in tutta evidenza, la bibbia giurisprudenziale della coltivazione, perché recepisce, introduce e legittima quei requisiti di fatto, elaborati con fatica, coraggio e caparbietà dalla giurisdizione di merito con iol progressivo supporto di decisioni di  alcune lungimiranbti Sezioni della Suprema Corte.

La soluzione proposta dalla Corte di legittimità – come si può ricavare sia dalla lettura che dalla ampiezza della sentenza – appare permeata da un carattere di novità (almeno per la giurisprudenza della Corte di legittimità), in quanto si pone nel senso di superare la distinzione dicotomica fra coltivazione agraria e coltivazione domestica, negata dalla precedente giurisprudenza di Cassazione sulla scia di SSUU 26805/08.

Primo di affrontare i passaggi fondamentali della pronunzia in commento giovino due notazioni preliminari.

In primo luogo, desidero osservare una circostanza assai singolare.

Originariamente, il ricorso per Cassazione della difesa, che ha provocato questa decisione, era stato assegnato alla Settima Sezione Penale, vale a dire a quella sezione che usualmente riceve i ricorsi qualificati come palesemente inammissibili dopo un primo sommario controllo rescindente.

Non è dato sapere come, ma, fortunatamente, qualcuno (probabilmente la difesa) si è speso affinché il ricorso fosse esaminato in concreto ed in udienza, senza che venisse sommariamente ed erroneamente dichiarato inammissibile ed a ragione, visto l’esito ottenuto.

Certo questo episodio induce a riflettere – senza vis polemica – su come troppo spesso, però, vengano qualificati ex ante inammissibili, con assegnazione alla Sezione costituita ad hoc (e con un giudizio estremamente superficiale), ricorsi che, invece, viene dimostrato che tale carattere non presentano.

In secondo luogo, è, altresì, interessante notare dalla lettura della prima pagina della sentenza, che il PG aveva concluso per l’accoglimento del ricorso difensivo, in quanto aveva richiesto l’annullamento della sentenza della Corte di Appello di Napoli, senza rinvio.

In altre parole, il rappresentante dell’accusa aveva ritenuto che, in relazione al reato di coltivazione di piante di cannabis, l’imputato dovesse essere, comunque, mandato assolto.

Si tratta di una circostanza particolarmente importante, in quanto, formulando queste conclusioni, la Procura Generale – l’organo di accusa – ha espresso, sullo specifico punto del più complessivo ricorso, una posizione interpretativa di evidente e più ampio respiro ed apertura rispetto a quella che, poi, si rivelerà la decisione delle SSUU.

In effetti, in sentenza si dà atto che il PG ha aderito alla tesi (una delle due in contrasto) più liberal, la quale presuppone necessariamente la verifica (tossicologica) dell’idoneità della coltivazione a ledere i beni giuridici tutelati (salute ed ordine pubblico).

Si deve, pertanto, constatare che, paradossalmente, nella fattispecie, l’accusa ha mostrato maggiore acutezza ed apertura concettuale, rispetto a quella che si paleserà come decisione finale del Collegio giudicante.

Esaurite queste considerazioni, che, però, permetteranno al lettore di comprendere meglio talune perplessità che si andranno ad esprimere, passiamo all’esegesi più stretta della sentenza.

La sentenza: la parte introduttiva

Come avviene sovente in materie che presentino profili di controversia giuridico-dialettica radicale, quasi di natura ideologica (come gli stupefacenti e la cannabis in particolare) o comunque, di particolare significato e ricaduta sociale, la sentenza, nella sua parte introduttiva, opera una lunga e retorica rassegna delle ragioni e delle considerazioni che sostengono gli opposti indirizzi, che hanno legittimato la remissione della questione alle SS.UU. .

Essi si possono e devono sintetizzare in due principali segmenti:

A) l’uno che non ritiene sufficiente la coltivazione – in sé – di una pianta conforme al tipo botanico vietato e che risulti contenere un quantum di sostanza idonea a produrre un effetto drogante, ma che, invece, sollecita la verifica dell’offensività concreta della condotta, quale lesione od attentato ai beni giuridici tutelati dalla norma: la salute e l’ordine pubblico;

B) l’altro che configura l’offensività della condotta, facendola coincidere con la astratta idoneità della pianta a produrre la sostanza, poi, destinata al consumo e la sua appartenenza al tipo botanico vietato.

Così non assumono rilevanza, a fini decisori, non tanto la quantità di principio attivo ottenibile all’atto della scoperta della piantagione, quanto piuttosto la conformità della pianta al tipo botanico vietato dalla legge e la sua tendenza a giungere alla maturazione.

La tutela dei beni giuridici protetti rimane solo un importante corollario, ma non costituisce elemento essenziale per la valutazione della illiceità (o meno) della condotta.

Il concetto di offensività

Muovendo da queste premesse, la sentenza si impegna diffusamente in una approfondita disamina del concetto di offensività, (nullum crimen sine iniuria) che costituisce “principio… di necessaria lesività, corollario del principio di legalità, che considera come condotte penalmente rilevanti quelle idonee ad offendere, o a porre in uno stato di pericolo, un bene giuridico tutelato dall’ordinamento, non essendo concepibile un reato senza offesa”.

In questo sforzo ermeneutico, la Corte, costantemente ed a piene mani, ricorre all’utilizzo della bussola data dalla giurisprudenza costituzionale.

Così, vengono evidenziate – tramite il richiamo, tra le altre, alle sent. 109/2016, 225/2008 – alcune peculiarità dell’istituto in questione (discrezionalità del legislatore nella configurazione di fattispecie criminose cui riconnettere una delle due cuspidi dell’offensività, quello in astratto, a fronte di quella in concreto riservata al giudice).

Come detto, l’operatività della offensività su due piani differenti costituisce un tratto essenziale dell’istituto, in quanto conferma l’autonomia decisionale del giudice cd. comune, che può e deve improntare la propria decisione su presupposti giuridico-fattuali, che non possono prescindere dalle emergenze del caso concreto in esame.

E’ chiaro, peraltro, che al legislatore viene attribuito e riconnesso il potere di stabilire “forme di tutela anticipata”.

Vale a dire, fissare soglie di punibilità di taluni comportamenti anteriori rispetto a quello che potrebbe essere l’effettivo limite comportamentale e temporale, penalmente rilevante realmente.

Ciò avviene nella disciplina penale della coltivazione, che viene qualificata come configurante un reato di pericolo astratto.

Tutta questa discettazione, che agli occhi di numerosi lettori potrà apparire oziosamente tecnica e superflua, tale non lo è, però, del tutto.

E’ ben vero che le SS.UU. e le sentenze dalle stesse pronunziate sovente non godono del dono della sintesi (giacchè è evidente che i concetti sviluppati nel provvedimento avrebbero potuto essere esplicitati in modo maggiormente concentrato e sintetico).

E’, altresì, vero, però, che vi sono alcune premesse che non possono essere eluse, pena non comprendere giuridicamente e storicamente l’evoluzione del pensiero e le conclusioni cui la Corte perviene.

Quella sull’offensività è certamente tra queste.

Come già rilevato, nella disamina operata dalle SS.UU., che non pecca certamente per difetto del carattere dell’analiticità, emerge un costante riferimento alle posizioni assunte nel tempo dalla Consulta, connotate indubbiamente, (dopo la timida apertura della sentenza n. 443 del 1994 ), ad una sempre più progressiva e coastante ispirazione di chiusura e repressione del fenomeno coltivativo.

Il giudice di legittimità, in questa sua rassegna, pone, poi, al centro del proprio ragionamento la sentenza 360/1995, che respinse la prima questione di costituzionalità dell’art. 73 dpr 309/90 in relazione alla condotta di coltivazione.

Da questa scelta si comprende come la Corte di Cassazione, pur operando, come si vedrà, una cautissima apertura, non abbandoni mai una posizione rigidamente censoria, la quale suscita perplessità in ordine alla conoscenza fattuale – da parte dei giudici – dell’effettivo sistema della coltivazione della cannabis.

Coltivazione, detenzione e consumo

I capisaldi argomentativi, recepiti ed asseverati in sentenza, possono essere, in sintesi, essere ricondotti a quelli che seguono:

A) la detenzione (l’importazione e l’acquisto) di sostanze non viene sanzionata penalmente, di regola, in quanto “collegata immediatamente e direttamente all’uso stesso”;

B) la detenzione (e gli altri comportamenti espressamente previsti ex lege), può essere apprezzata dal giudicante, inequivocamente, con una valutazione prognostica, come condotta direttamente antecedente al consumo personale;

C) la detenzione attiene ad un quantitativo di sostanza ex se ed a priori stimabile sul piano quantitativo e come tale possibilmente ritenuto coerente con l’uso personale.

Differentemente dalla detenzione:

1) la coltivazione non sarebbe “collegata immediatamente e direttamente all’uso stesso” ;

2) la coltivazione non permetterebbe, comunque, quell’apprezzamento inequivoco di essere una condotta direttamente antecedente al consumo personale;

3) nella coltivazione non sarebbe possibile – con un grado di sufficiente certezza – operare la stima quantitativa del prodotto ottenibile, in funzione di una valutazione di compatibilità con il consumo personale del coltivatore-assuntore.

Pur volendo prescindere dalla evidente opinabilità di questi paradigmi, i quali paiono, più che altro, paraventi ideologici, mai rimossi – se è vero che essi persistono, anche se con sfumature formali differenti da quasi 30 anni – giovi evidenziare che essi appaiono del tutto strumentali al mantenimento della sanzionabilità penale della coltivazione, quale espressione di una apparentemente legittima applicazione dell’istituto dell’offensività, da parte del legislatore.

In questo modo, le SS.UU. ci dicono espressamente che è corretto e per nulla irragionevole ricondurre la condotta di coltivazione alla categoria di reati di pericolo presunto.

Questa è un’affermazione che dimostra il fondamento puramente ideologico della punibilità della coltivazione, il quale opera in modo platealmente disarticolato da rilievi ed esperienze di carattere fattuale.

L’esperienza forense quotidiana, infatti, ci suggerisce qualcosa di assolutamente diverso da una sorta di presunzione contra reo, nella quale si risolve praticamente la scelta di collocare la condotta coltivativa nel contesto dei reati di pericolo presunto.

Ogni giorno, infatti, siamo chiamati – in procedimenti analoghi a quello oggetto del giudizio delle SS.UU. – ad accertare la effettiva idoneità psicoattiva, quantitativa e percentuale, delle sostanze sia detenute che frutto della coltivazione.

Ci si deve domandare, quindi, perchè il Supremo consesso giudiziario del nostro ordinamento (ed anche la Consulta) persistano nella difesa – ribadisco – ideologica di posizioni interpretative che non trovano applicazione concreta nella prassi forense.

Appare, infatti, evidente che, sostenendo che il reato di coltivazione sia già perfetto in origine – addirittura con la messa a dimora di semi -, l’effettuazione di consulenze tossicologiche nei procedimenti penali, rischi di divenire un’inutile e vuota liturgia, nonostante anche una sentenza restrittiva come quella di SSUU 26805/08, che ha negativamente influenzato gli ultimi 15 anni, abbia delegato l’accertamento in concrento del pericolo presunto al giudice di merito.

La sentenza della Corte, poi, giungerà, come vedremo, ad una soluzione che appare strabica, con una cauta e limitata apertura (destinata forse ad aumentare la confusione per i giudici di merito).

I principi fondamentali affermati non paiono, però, mutati né punto, né poco, rispetto a quelli espressi nella giurisprudenza del giudice delle leggi.

Questo passaggio della sentenza non è, purtroppo, l’unico che susciti perplessità.

Emerge, infatti, un altro significativo errore prospettico.

Esso riposa nella circostanza che le SS.UU. ritengano che la interpretazione proposta alla giurisprudenza onde addivenire alla depenalizzazione della coltivazione, si indirizzi obbligatoriamente nel senso di ricondurre e fare ricomprendere la condotta della coltivazione in quella della detenzione, onde sancirne la non punibilità.

Nulla di più errato. 

Coltivazione e detenzione sono condotte ontologicamente diverse, autonome, quindi, per nulla confondibili o mescolabili tra loro.

Ciò non di meno, la sentenza in esame si pone come epigone della ormai notissima, già citata e risalente pronunzia n. 26805 del 2008, delle stesse SS.UU., la quale già aveva affrontato la questione (invero un falso problema) la collocazione della coltivazione all’interno della categoria della detenzione, escludendola recisamente, anche rifacendosi alla sentenza 360/1995 della Consulta.

In realtà, è necessario un chiarimento.

L’interpretazione giurisprudenziale, che propone l’accertamento del quantum di Thc, come condizione, a fini della valutazione dell’idoneità del prodotto della coltivazione a produrre efficacia stupefacente, intende qualificare la condotta coltivativa come non punibile, senza, peraltro, giammai sussumerla nel contesto della detenzione, che mantiene la propria (reciproca) autonomia.

Dunque, si tratterebbe, nella prospettazione difensiva, di collocare la condotta di coltivazione, non tsanto e non già all’interno della detenzione, bensì della più ampia categoria di comportamenti non penalmente rilevanti declinati dall’art. 75 dpr 309/90, in analogia con le condotte in essa già ricomprese.

La coltivazione rimarrebbe in sé autonoma rispetto alla detenzione.

La questione, ad onor del vero, non pare affatto oziosa, perché potrebbe implicare, a cascata, precise conseguenze in ordine alla responsabilità dell’indagato, nel caso in cui si proceda penalmente per la detenzione di cannabis che derivi da una precedente coltivazione operata dal detentore-assuntore.

Sostengono, infatti, le SS.UU. a pg. 9 della sentenza (in linea con la giurisprudenza di legittimità prevalente) che in una simile situazione la condotta detentiva – che, in sé, concreterebbe un illecito amministrativo – dovrebbe essere, invero, assorbita nella precedente condotta coltivativa, che costituisce fattispecie di reato.

La detenzione dello stupefacente verrebbe, pertanto, qualificata come un post factum non punibile rispetto alla condotta di reato presupposta, vale a dire la coltivazione, la quale è tale, perché difetta – ad avviso dei giudici di legittimità –dell’elemento dell’immediatezza rispetto al consumo personale.

Questa tesi – ad avviso di chi scrive – stride, però, fortemente con il dato storico e logico, che, nella quotidianità forense, si raccoglie.

Essa viene, poi, parzialmente smentita dalle conclusioni prese in sentenza, di cui si scriverà infra.

Allo stato, è, infatti, importante sottolineare la infondatezza della tesi dell’assorbimento.

Ad una valutazione di merito, in un caso simile, appare evidente il nesso di pertinenzialità fra la coltivazione ed il successivo consumo della sostanza ottenuta, che rende il fatto detentivo un naturale e doveroso passaggio materiale tra i due momenti anteriore e posteriore .

E’ evidente che la teoria dell’assorbimento non può essere considerata di pregio in nessun caso.

Ove la condotta detentiva succeda ad una produzione coltivativa che risulti incompatibile – sotto i paradigmi che si vedranno – con un consumo personale dello stesso coltivatore, l’assuntore potrebbe, comunque, essere condannato per avere detenuto un quantitativo di sostanza eccedente il proprio fabbisogno.

Va, inoltre, affermato, che se il limite della coltivazione consiste nella sua potenziale idoneità diffusiva nel circuito dello spaccio, appare evidente che, nell’ipotesi in cui l’agente (che sia consumatore) venga trovato nel possesso di sostanza proveniente da propria coltivazione pregressa, si possa ragionevolmente

A) riconoscere il fine di destinazione all’uso personale;

B) escludere quel pericolo astratto di diffusività del prodotto ottenuto dalla coltivazione.

In realtà, la sentenza in commento – come già detto – nelle proprie premesse ricostruttive pare porsi in una condizione di stretta ortodossia non solo alla giurisprudenza costituzionale, ma anche rispetto alla sentenza del 28605/2008.

Quest’ultima aveva, infatti, sancito la generale punibilità della coltivazione di piante in grado di produrre sostanze stupefacenti, anche se si sia in presenza di una destinazione del prodotto al consumo personale, nonché l’infondatezza della distinzione fra la coltivazione agraria e la coltivazione domestica, pur con riconoscendo la deroga consistente nella delega al giudice della cognizione della facoltà di verificare l’offensività della condotta.

Una volta segnato il territorio, con i riferimenti sopra indicati, credo sia esercizio ben poco appassionante quello di proseguire in una ricognizione di opposte tesi, sovente basate su sfumature disancorate dalla realtà, salvo una breve osservazione.

Se fosse fondata la convinzione che l’offensività della condotta coltivativa può essere esclusa solo “se la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”, si perverrebbe a fortiori alla perversa conclusione che la coltivazione mai potrebbe essere ritenuta inoffensiva.

Coltivare per non ottenere un prodotto minimamente psicoattivo sarebbe null’altro che un ossimoro.

Ed ancora si dovrebbe rilevare :

A) l’improprietà del riferimento alla tutela della salute pubblica, quando la coltivazione per fini di produzione di sostanza destinata al consumo personale ha un carattere tassativamente individuale,

B) la paradossalità dell’evocazione della difesa dell’ordine pubblico, posto che chi coltiva per sé sottrae occasioni di spaccio alla criminalità, autoescludendosi dalla platea degli acquirenti e sottraendo risorse economiche alla stessa.

A conclusione di questa chiosa, al fine di comprendere l’approssimazione e l’imprecisione di talune affermazioni lette, giovi segnalare come in una pronunzia del 2013 della Sesta Sezione (Cangemi) si sostiene che il commercio dei semi di cannabis non configurerebbe il reato di cui all’art. 73 dpr 309/90 (nemmeno a livello di tentativo), bensì un’attività preparatoria non punibile, perché l’eventuale possesso degli stessi non permette di dedurre il loro effettivo impiego.

Chiunque sa che, invece, il commercio di semi di cannabis rientra nella legalità, in quanto i semi stessi non rientrano nella nozione legale di stupefacenti, che è il paradigma cui si ispira il nostro ordinamento, in conformità con la Convenzione di N.Y. del 1972.

il cuore della sentenza

Navigate le procellose acque delle contrastanti pronunzie giurisprudenziali, le SS.UU., indi, si avvicinano al porto della soluzione del tema dibattuto.

Lo fanno, non prima di avere sottolineato come sussista una nozione univoca di coltivazione, circostanza che, da un lato, ha escluso una seria convergenza ermeneutica e, in pari tempo, ha, invece, favorito il proliferare di un florilegio di ipotesi ricostruttive (molte delle quali, mi permetto di rilevare a titolo personale, appaiono nel loro giustizialistico orientamento irragionevoli, se non addirittura illogiche).

Bisogna poi riconoscere che molto pertinentemente viene preliminarmente ribadita quella differenza sostanziale fra tipicità (riconducibilità della fattispecie al tipo disciplinato dalla fattispecie astratta) ed offensività (rilevanza penale della condotta con attentato al bene giuridico tutelato) della condotta, cui si è fatta menzione passando in rassegna la sentenza 36037/17 della Sez. 3.

Il concetto di tipicità diviene, pertanto, la chiave di volta dell’interpretazione fornita dalle SS.UU., in tema di punibilità della coltivazione – e soprattutto in funzione di deroga alla sanzionabilità – perché è funzionale ad individuare due elementi fondamentali:

1) la idoneità in concreto della pianta a produrre sostanza stupefacente,

2) lo svolgimento di attività di coltivazione attraverso l’uso di strumentazioni agricole tecnicamente adeguate.

Nonostante, infatti, la riaffermazione della validità della collocazione della fattispecie nella categoria del reato di pericolo presunto, e l’opinabile riconoscimento della correttezza dell’equiparazione tra coltivazione agraria e coltivazione domestica, svolta dalla sentenza del 2008, solo al fine – peraltro superfluo – di ribadire l’autonomia concettuale della stessa riguardo la detenzione (giacché la sentenza smentisce alla pagina successiva – 19 – tale equiparazione), viene finalmente a compiersi il lungo e accidentato cammino esegetico inizaito da anni.

Le SS.UU. pur riaffermando il discutibile principio generale della riconducibilità della coltivazione nell’alveo del reato di cui all’art. 73 dpr 309/90, individuano, però, una (modesta) deroga allo stesso, legittimando numerosi approdi giurisprudenziali di merito, ai quali mostrano di allinearsi.

Si tratta di una metodica non inedita e già utilizzata la scorsa estate – sempre dalla SS.UU. – con la sentenza n. 30475/19 in materia di commercio di canapa light.

In quell’occasione, infatti, il divieto generale e tassativo di commercializzazione di derivati della canapa, incontrò una deroga ( quella dell’inidoneità del prodotto a manifestare efficacia drogante) talmente timidissima, che viene sistematicamente disattesa dalla magistratura, con la incredibile conseguenza che prodotti inidonei a suscitare effetti droganti vengono confiscati come se fossero vere e proprie sostanze stupefacenti.

Questa politica giudiziaria, improntata ad un modestissimo (quasi impalpabile) temperamento di un’irragionevole severità, pare riproposta quasi pedissequamente nella specie.

A fronte dell’anatema giuridico-penale che colpisce l’attività coltivativa, in sé e senza distinzioni di modalità della stessa e quantità di piante e di principio attivo ottenuto ed ottenibile, i giudici di legittimità, con un cauto (e quasi contraddittorio) revirement, finiscono poi per ammettere e riconoscere:

A) la effettiva distinzione intercorrente fra coltivazione domestica e coltivazione agraria, a fini sanzionatori;

B) la irrilevanza penale (rectius non punibilità) di coltivazioni

- di minime dimensioni;

– finalizzate esclusivamente al consumo personale;

– che esprimano una produttività ridottissima (non essendo tali da aumentare la possibile provvista di stupefacenti).

Dunque, con realismo, è gioco forza affermare che questa sentenza non comporti nulla di nuovo o inedito, in senso dirompente, ma certifica – se non altro- la validità di una giurisprudenza ormai consolidata e maggioritaria.

Sul piano strettamente procedurale, poi, non si avvertono possibili sostanziali modifiche all’iter investigativo.

Gli inquirenti, infatti, potranno – di iniziativa o su delega del PM o decreto del Giudice – continuare a procedere all’esercizio di perquisizioni e di sequestri, che non potranno venire in alcun modo fermati o contestati in origine.

Ovviamente ogni valutazione – che possa portare al proscioglimento dell’indagato – suppone lo svolgimento di un’indagine tossicologica, e, eventualmente, il processo.

Diciamo che le SS.UU. aderiscono e ratificano semplicemente una regola di giudizio, invero, già da qualche anno divenuta patrimonio della giurisprudenza italiana, per l’apporto decisivo dei giudici di merito.

Dunque, le premesse sin qui svolte certificano che la eventuale non punibilità della coltivazione (e del coltivatore) sarà espressione di un giudizio ex post, mai ex ante, soluzione che non mette, affatto, l’interessato al riparo dal procedimento e dal possibile processo.

Soprattutto, deve essere ben tenuto presente il carattere di assoluta residualità ed eccezionalità, che connota la scelta di non sanzionare eventualmente la coltivazione domestica condizionata, rispetto al generale indirizzo che prevede la punizione della coltivazione già di per sè.

In questo modo si ha contezza dell’effettiva portata concreta della pronunzia.

Deve ammettersi che, comunque, la sentenza in commento palesa un pregio.

Ess0 consiste nella individuazione sistematica di quei requisiti necessari per il giudizio di non punibilità, che le SS.UU. evidenziano come “oggettivi” e “tutti compresenti” (pg. 20).

L’elenco è il seguente :

– minima dimensione della coltivazione,

– svolgimento in forma domestica e non in forma industriale,

– rudimentalità delle tecniche utilizzate,

– scarso numero di numero di piante,

– assenza di indici di inserimento del coltivatore nel mercato degli stupefacenti,

– destinazione del prodotto al soddisfacimento del consumo personale  esclusivo del coltivatore che deve essere assuntore.

A dire il vero, alcuni degli indici, ancorchè tutti tassativi (ad esempio non pare sufficiente, in carenza di altri paradigmi la sola volontà di coltivare a fini personali), sopra declinati paiono piuttosto generici.

Cosa si intende per rudimentalità delle tecniche usate o per scarso numero di piante, ad esempio?

Questo difetto di genericità pare idoneo a suscitare le più disparate interpretazioni giurisprudenziale, con l’ovvia conseguenza di una patente incertezza e contraddizione giurisprudenziale, nonché di una possibile disparità di trattamento, legata alle differenti sensibilità ed ai diversi approcci culturali dei giudici di merito.

Ritiene, pertanto, chi scrive che debba essere criticata la posizione assunta, nella specie (e non solo) dai giudici di legittimità, i quali delegano al giudice di merito la soluzione dei singoli casi concreti, senza però indicare coordinate ermeneutiche sufficientemente precise e prive di vaghezza, come, invece, avviene nella specie.

D’altronde, il pertinente parallelismo con la sentenza del 30.5.2019 n. 30475/19, ci conforta nel convincimento che le SS.UU. persistono in affermazioni di principio che, però, non favoriscono una unità interpretativa ed un giudizio uniforme da applicarsi in sede di merito.

Una volta, infatti, stabilito il principio generale (condivisibile o meno), una pur apprezzabile e razionale delegazione alla soluzione, in deroga ad esso, della questione in favore del giudice del caso concreto (quello di merito), deve, però, informarsi e consistere in criteri che suscitino la minima incertezza possibile.

Ma, nella fattispecie, così non è.

Ci si deve, pertanto, ridurre a meri auspici.

Dobbiamo sperare che, a differenza della sentenza n. 30475/19, la quale con la locuzione derogatoria “salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”, non ha, affatto, contribuito certo a chiarire i termini del commercio dei derivati di canapa sativa L, la decisione, attualmente in commento, costituisca bussola che permetta all’itinerante giurista di seguire la strada corretta.

Ad abundatiam deve essere,poi, rilevato che, nel contesto della decisione il collegio individua la tutela della salute (sia individuale, che collettiva, al contempo) come unico effettivo bene giuridico non generico, meritevole di tutela, escludendo concetti come sicurezza ed ordine pubblico.

Resta il fatto che, un’eventuale assoluzione del coltivatore dal reato di cui all’art. 73, comporterà la sottoposizione del prosciolto al procedimento amministreativo ex art. 75 dpr 309/90.

In conclusione

Come detto, l’affermazione della possibile non punibilità di una coltivazione domestica, subordinata a specifiche condizioni, è solo una mera specifica eccezione di un indirizzo generale che ritiene, senza dubbi di sorta, la condotta in questione un reato ex se.

La posizione assunta dalle SS.UU. appare, poi, recuperare un orientamento estremamente restrittivo.

Essa si rifa a quell’orientamento che, non solo prescinde dalla quantità di principio attivo ottenibile nell’immediato, ma ritiene sufficiente l’appartenenza della pianta alla specie botanica vietata, la capacità della stessa di maturare e giungere a produrre stupefacente.

Ma vi è ancora di più.

Viene ritenuto reato anche solo il gesto della semina, della messa a dimora delle sementi.

Si verifica, così, un’anticipazione del momento di commissione del reato, che si riteneva da tempo superaa per il suo palese anacronismo.

Nella parte conclusive, poi, il Giudice di legittimità sostiene che l’indirizzo sanzionatorio, sancito sul piano generale, sia del tutto conforme con la direttiva UE 757/GAI/2004, perchè l’art. 2 di tale previsione normativa europea lascia libera scelta agli Stati Europei di qualificare o di non qualificare come reato la coltivazione.

Invero il testo dell’art. 2 al co. 2 prevede espressamente che: “Sono escluse dal campo di applicazione della presente decisione quadro le condotte descritte al paragrafo 1, se tenute dai loro autori soltanto ai fini del loro consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali”.

Vale a dire un significato certamente differente rispetto a quello riportato in sentenza.

Ovviamente la coltivazione cd. Illecita potrà essere qualificata ai senis dell’art. 73 co.5 dpr 309/90, e, ove il Giudice ritenga l’offensività sussistente, ma in termini di particolare tenuità, potrà essere riconosciuto – come d’altronde già avviene – l’istituto di cui all’art. 131 bis c.p..

L’unica certezza rimane, quindi, quella che si continua a coltivare a proprio rischio e pericolo, nella speranza di un’eventuale assoluzione.

La giurisprudenza successiva di legittimità e di merito

Sono indubbie le ricadute – sul piano giurisprudenziale – provocate dalla sentenza delle Sezioni Unite, in relazione al regime derogatorio ed alle – seppur caute – aperture al regime generale del divieto di coltivazione di piante da cui derivare stupefacenti.

E’ interessante, in proposito, constatare un fenomeno assai singolare che si è venuto a produrre e che si è palesato attraverso l’esame delle pronunzie intervenute in questi mesi.

Se da una parte le singole Sezioni della S.C. hanno manifestato – anche se con qualche sfumatura diversa- una sostanziale ortodossa adesione alle indicazioni delle SSUU, lo studio della giurisprudenza di merito ha manifestato, invece, anche forme di critica resistenza, che, francamente, paiono di difficile comprensione, atteso che – come detto – la novazione intepretativa in materia ha subito un fortisismo impulso proprio dai giudici locali.  

Va, comunque, sottolineato che l’impatto orientativo della sentenza 12348/20, per quanto riguarda il ricordato regime di eccezione rispetto alal regola generale di divieto, è stato positivo.

In primo luogo.Cass. Sez. VI Sent., 19/02/2021, n. 6599 (rv. 280786-01)[37] ha fornito una apprezzabile definizione di coltivazione domestica, recependo l’approdo che ha sdoganato la distinzione – logicamente esistente in punto di fatto – negatta, invece, dalla decisione n. 26805/08 di SSUU.

“…Integra una coltivazione domestica non punibile la messa a coltura di undici piantine di marijuana, collocate in vasi all'interno di un'abitazione, senza la predisposizione di accorgimenti, come impianti di irrigazione e/o di illuminazione, finalizzati a rafforzare la produzione, le quali, in relazione al grado di sviluppo raggiunto, consentano l'estrazione di un quantitativo minimo di sostanze stupefacenti ragionevolmente destinate all'uso personale...”.

Ciò posto appare logico esaminare lo sviluppo ermeneutico delle pronunzie che si sono susseguite.

Le stesse appaiono – come detto – allineate in maniera integrata all’insegnamento, anche se talora, intervengono affermazioni che dimostrano come i supremi giudici non calino del tutto correttamente principi giurisprudenziali nelle specifiche situazioni.

E’ il caso di Cass. Sez. III, 25/05/2022, n. 20238 che ritiene con una valutazione di carattere assolutamente generico, per nulla approfondita, e come tale opinabile, che impianti di irrigazione e/o di illuminazione siano finalizzati a rafforzare la produzione coltivativa, escludendo con la loro presenza l’inoffensività della condotta[38].

L’affermazione potrebbe, al più, attagliarsi a casi di piantagioni estese, (l’opposto di quelle domestiche) connotano da un alto numero di vegetali.

Essa, invece, versa in errore, laddove non tiene conto che sono ravvisabili, nell’esperienza quotidiana, piccole coltivazioni indoor di natura casalinga, che fruiscono di piccole forme irrigative o di illuminazione (destinate a soddisfare qualche pianta), che – per la natura di coltura interna - sono necessarie a sostituire la luce del sole e l’irrigazione della pioggia.

Sullo specifico tema si è soffermata anche recentemente  Sez. VI, 24/02/2023, n. 8442, A.A.[39], che ha declinato gli indici sintomatici dell'inoffensività della condotta di coltivazione di stupefacenti, oltre a contemplare la circostanza che l'agente sia un assuntore abituale,  quella che non vi siano elementi idonei a ritenere la destinazione alla cessione a terzi, nonchè che la coltivazione abbia ad oggetto un numero limitato di piante.

Ha, inoltre, sostenuto, peraltro, meno radicalmente di quanto abbia fatto la Sez. 3 nella sentenza precedente, che, altro requisito è rinvenibile nella circostanza che la coltivazione sia svolta senza l'adozione di alcuna particolare tecnica atta ad ottenere un quantitativo apprezzabile di stupefacente.

Nonostante – come si è visto – talune pronunzie abbiano operato una lodevole, quanto corretta distinzione fra tipicità ed offensività, ne sono intervenute altre che hanno ricondotto alla nozione di tipicità la presenza di uno o più requisiti, che, invece, parrebbero essere funzionali al giudizio di sussistenza dell’offensività.

Esmplificativamente deve essere menzionata Sez. IV, 28/07/2022, n. 29977, P.C.

che esclude la rilevanza penale della coltivazione ritenendo che escluda la tipicità della condotta “...l’assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto...”[40].

Nella specie è stato, altresì, affrontato il tema dell’importanza dei mezzi organizzati con i quali la coltivazione venga posta in essere.

La Corte oltre al numero numero di piante coltivate ha valorizzato”... la natura assolutamente non rudimentale della coltivazione posta in essere, trattandosi di una coltivazione organizzata e su scala decisamente massiva con predisposizione di un capannone con lampade alogene, un condizionatore, un ventilatore e tre tubi per l'areazione collegati al soffitto della lunghezza di sei metri, elementi tutti funzionali ad una coltivazione finalizzata alla cessione...”.

Appare evidente, nella specie, che le dimensioni della coltura (svolta in un capannone) siano obbiettivamente incompatibili con la coltivazione domestica.

Da ultimo, giovi rimarcare che anche la destinazione del risultato della coltivazione al proprio consumo personale, da parte del coltivatore, ha assunto dignità e cittadinanza di requisito decisivo, anche se Sez. III, 13/09/2021, n. 33797, G.B.[41] ha ternuto a precisare che “….la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale...”.

Sul versante della giurisprudenza di merito, a fronte di posizioni allineate all’orientamento delle SSUU, come ad esempio Tribunale Lecce Sez. I Sent., 22/03/2022, che ha riconosciuto come fondamentali – ai fini dell’esclusione dell’offensività - “...le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore..”[42], sono emerse voci dissonanti.

In questo senso Tribunale Salerno Sez. I Sent., 09/11/2021 che esalta la “...più spiccata pericolosità della coltivazione, rispetto alle altre condotte di cui all'art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, perché l'attività di coltivazione è astrattamente destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi di stupefacente disponibili...”, traendo, pertanto, conclusioni asosltuamente restrittive per l’eventuale ipotetica esclusione della condzione dell’offensività nei casi specifici.

Sulla stessa lunghezza d’onda Tribunale Trieste Sent., 21/05/2021 che ha sostenuto che ha ritenuto che 8 piante di cannabis non integrino un numero limitato, idoeno a rispettare uno dei requisiti per il riconoscimento della non sanzionabilità penale della coltivazione, da classificare come domestica[43].

Diversamente il Tribunale Rovigo Sent., 24/05/2021, declinando il principio scriminante non essendo “...riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore...”.  ha ritenuto sussistente la fattispecie di coltivazione cd. tecnico-agraria, ove  essa sia costituita da un'attività di apprezzabili dimensioni, sostenuta da scopi commerciali, protratta con tecniche e pratiche adeguate e in grado di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti.

Per completare il quadro ricognitivo dello stato dell’arte si deve osservare che in due distinte pronunzie, è stata valorizzata definitivamente la destinazione al consumo personale  del prodotto frutto della coltivazione, sul riconoscimento della sussistenza di un rapporto di immediatezza oggettiva fra produttore-consumatore e sostanza.

Una delle due è la Corte d'Appello di Napoli Sez. VI Sent., 14/02/2022, che ha stabilito il principio, pur cadendo nell’equivoco dato dalla confusione fra tipicità e offensività[44].

La Corte d'Appello di Cagliari Sez. II Sent., 05/05/2021 ponen, a propria volta l’accento sulla condotta che - per l'assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale - denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale.

Qualche cenno sugli interventi della Corte costituzionale

La condizione di condotta penalmente rilevante della coltivazione di cannabis è sempre stata pesantemente influenzata da decisioni del Giudice delle Leggi.

Senza perdersi in ulteriori approfondimenti storici, pare di potere dire, sul piano di un discorso più di politica giudiziaria, che di diritto in senso stretto, che la sentenza delle SSUU 12348/20 (oltre a recepire un indirizzo ormai consolidato) costituisca, invero, una sorta di vero e proprio temperamento, un sicuro contraltare rispetto alla sentenza della Corte Costituzionale, n. 109 del 9.3.2016, che aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Brescia con riferimento all’art. 75, DPR 9 ottobre 1990, n. 309.

Forse è improprio, ma la sentenza delle SSUU potrebbe fondatamente  essere ritenuta una forma di correttivo rispetto alla dura irragionevolezza della Consulta, sorda ai ricghiami di prendere atto di una mutata situazione in fatto, prima ed in diritto, poi.

La posizione della Consulta si è dimostrata sia rispettosa dei principi informanti la pronunzia n. 360 del 1995, sia allineata con la giurispurdneza di legittmità più restrittiva “..La coltivazione per uso personale di cannabis non può essere equiparata al semplice possesso e non deve essere punita solo con sanzioni amministrative, in quanto ha la peculiarità di dare luogo ad un processo produttivo in grado di autoalimentarsi e di espandersi, potenzialmente senza alcun limite predefinito, tramite la riproduzione dei vegetali. Tale attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica […] oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico...”.

I giudici, con la più recente pronunzia tra le due emesse pur a distanza di vent’anni l’una dall’altra, hanno così ribadito l’interpretazione dell’offensività della condotta di coltivazione anche a semplice scopo personale, basando la loro interpretazione sul concetto di “aumento della quantità di droga presente sul territorio”.

E’ certamente vero che il dubbio di legittimità costituzionale riguardava la persistenza di un trattamento penale differente tra detenzione e coltivazione, tema rispetto al quale i giudici sia delle leggi, che di rito, hanno sempre manifestato  una forte e dura chiusura, negando costantemente qualsiasi ipotesi di assimilazione fra le due condotte, sotto plurimi profili.

E’ altrettanto vero, che gli argomenti addotti a motivazione della decisione, non si limitano al mero parallelismo fra i due comportamenti45, ma si incentrano, con grande specificità, sulla negatività della condotta coltivativa.

La Consulta non ha mostrato alcuna deviazione rispetto alla propria giurisprudenza, nonostante le censure di costituzionalità si fondassero su due  elementi di novità e cioè l’incontroversa evoluzione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla interpretazione dell’art. 73 co. 4 dpr 309/90 e la modifica sopravvenuta della normativa sovranazionale e comunitaria.

Ai fini che ci occupano, ritengo utile soffermarci sulla doglianza riferita alla supposta violazione del principio di offensività.

Sul punto, la Corte  ha operato una discutibile assimilazione fra fenomeno coltivativo, considerato come un unicum – e non scrutinato in tutte le sue espressioni sia agrarie, che domestiche, che relative alle varie sostanze estraibili ed ottenibili – e produzione, fabbricazione, estrazione nonché raffinazione, costituiscono condotte ontologicamente differenti e, indubbiamente, differenti sul piano della pericolosità sociale e criminale.

Ad opinabile avviso della Consulta queste condotte in effetti manifesterebbero la “peculiarità di dare luogo ad un processo produttivo in grado di ‘autoalimentarsi’ e di espandersi, potenzialmente senza alcun limite predefinito, tramite la riproduzione dei vegetali. Tale attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica (..) oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico”.

Si tratta di un’affermazione che, per quanto riguarda la cannabis – e non dimentichiamo che la questione era proposta esclusivamente in relazione a tale tipologia di coltivazione -, già all’epoca era oggetto di notevoli critiche, di nuove valutazioni giurisprudenziali.

Quelle decisioni che, esposte nei capitoli precedenti, hanno, poi, portato all’apertura contenuta nella sentenza di SSUU 12348/20.

La premessa ricordata, ad avviso di chi scrive, vizia decisivamente la prospettiva e l’ottica sulla quale viene modulato il giudizio della Corte.

Riconducendo impropriamente la coltivazione a questo ambito di condotte che ben poco hanno a che fare sul piano tecnico con la cannabis, la Corte, citando la propria giurisprudenza, ha rammentato che il principio di offensività può operare anche in astratto, sempreché la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit.

Si tratta di una petizione di principio indiscutibile, ma che rimane espressione del tutto astratta priva di collegamento concreto con la condotta normata, oggetto dell’esame giurisdizionale.

La sentenza, quindi, non ha ritenuto di discostarsi dal contenuto della sentenza n. 360/1995, che aveva ritenuto che l’incriminazione della coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, a prescindere dalla destinazione del prodotto, rispettasse la suddetta condizione, poggiando su una non irragionevole valutazione prognostica di attentato al bene giuridico protetto.

Il timore di chi scrive riposa nel fatto – peraltro già paventato - che i giudici costituzionali abbiano considerato superficialmente la condotta coltivativa, ricomprendendo all’interno del relativo recinto tutte le sostanze ottenibili dalle varie coltivazioni, senza, invece, approfondire le differente naturalistiche e scientifiche che ciascuna forma coltivativa – ed in special modo quella riguardante la canapa – ha.

La preoccupazione di creare un vuoto normativo che non fosse limitato alla cannabis, ma si estendesse anche alle coltivazioni di papavero (da cui estrarre eroina) o di foglie di coca (da cui ottenere la cocaina) potrebbe avere condizionato in senso restrittivo la valutazione della Consulta.

Dunque, il principio di offensività non sarebbe in alcun modo compromesso,

Neppure in ordine al tema della necessità di armonizzare la normativa interna con la Decisione 25.10.2004  n. 7575/GAI, la sentenza pare convincente .

La questione di un potenziale contrasto con tale disposizione europea viene risolta affermando che la Decisione Quadro in parola infatti “reca solo «norme minime» in tema di repressione penale delle condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti. Essa non obbliga gli Stati membri a prevedere come reato la coltivazione per uso personale, ma neppure impedisce loro di farlo. Nel quarto ‘considerando’ si afferma, anzi, espressamente che «l’esclusione di talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione della presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro legislazione nazionale»”.

Senza dilungarsi in modo particolare, sia consentito richiamare il co. 2 dell’art. 2  che recita “ Sono escluse dal campo di applicazione della presente decisione quadro le condotte descritte al paragrafo 1[45], se tenute dai loro autori soltanto ai fini del loro consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali”.

Appare evidente la circostanza che esistendo nel nostro ordinamento una norma – l’art. 75 dpr 309/90 – che riconosce il consumo personale come condotte non sanzionabile penalmente, la condotta di coltivazione ove destinata al fabbisogno del coltivatore rientra in toto nella esimente di cui al co. 2.

La Consulta, però, non pare avere interpretato correttamente la norma, risolvendo pilatescamente la questione.

Un breve riferimento anche alla sent. 360  del 24.7.1995.

Nell’occasione le questioni incidentali di legittimità costituzionale riguardavano l'art. 75 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 nella parte in cui non prevede che anche la coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti - oltre che l'importazione, l'acquisto o la detenzione - venga punita soltanto con sanzioni amministrative se finalizzata all'uso personale della sostanza, per sospetta violazione dei principi di ragionevolezza e di parità di trattamento (art. 3 Cost.) rispetto alla condotta, non più penalmente perseguibile, di chi illecitamente importa, acquista, o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope per farne uso personale e l'art. 73 del medesimo d.P.R. n.309 del 1990 cit. - in riferimento agli artt. 13, 25 e 27 Cost. - nella parte in cui prevede la illiceità penale della condotta di coltivazione di piante indicate dall'art. 26 del d.P.R. n.309 del 1990, da cui si estraggono sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all'uso personale, indipendentemente dalla percentuale di principio attivo contenuta nel prodotto della coltivazione stessa per sospetta violazione del principio della necessaria offensività della fattispecie penale nell'ipotesi in cui la coltivazione dia luogo a quantità (o qualità) di infiorescenze dalle quali non sia ricavabile il principio attivo in misura sufficiente a produrre l'effetto (stupefacente) potenzialmente lesivo nel caso di successiva assunzione.

Sostanzialmente non vi è differenza rispetto alla questione riproposta nel 2016.

La Corte con la sent. n. 360, risolse la questione affermando che “….risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come <pericolosa>, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che - come già rilevato - l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica - sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto. E - come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenze n.133 del 1992 e n.333 del 1991; ma cfr. anche sentenza n.62 del 1986) - non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; ne nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione”.

Precisò, inoltre, che non vi era comparabilità ”...della condotta delittuosa, prevista dall'art. 73 citato, con alcuna di quelle allegate come tertia comparationis sicché non sussiste la denunciata disparità di trattamento...”.

Nel caso della coltivazione – ad avviso della Consulta - mancava il nesso di immediatezza con l'uso personale (presente a parere dei giudici nella detenzione, nell'acquisto e nell'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale).

Ciò avrebbe giustificato un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale.

Quest’orientamento che tanto ha condizionato questi anni e segnato migliaia di processi, permane tuttora, nonostante una giurisprudenza che molto si è evoluta e che ha negato taluni presupposti evocati dal Giudice delle leggi.

 

[1]La norma si pone in intima correlazione sia con l’art. 27 dpr 309/90- che prevede le modalità di rilascio dell’autorizzazione – sia con i limiti sanciti dalla normativa UE.

[2]La disciplina dei reati in materia di Stupefacenti, pg. 50, Maggioli, 2021

[3]Diritto degli stupefacenti, pg. 110 e segg. Pacini Giuridica, 2022

[4]La detenzione di semi in sé non concreta l’ipotesi di coltivazione. Nello specifico la detenzione di 763 semi di cannabis indica con percentuale di germinazione pari al 52% senza tuttavia piantarli; perché, infatti, possa parlarsi di coltivazione punibile ex art. 73 è necessario che sia iniziato il relativo procedimento naturale, e cioè almeno che i semi siano stati piantati, non essendo sufficiente il mero possesso dei semi medesimi, neppure sotto il profilo del tentativo punibile, non essendo desumibile con certezza l’effettiva destinazione degli stessi (Cfr. G.U.P. Tribunale di Sanremo, 23 Gennaio 2001 n. 44/01 ).

[5]Idem pg. 111

[6] Foro Italiano, novembre 1995, II 633

[7]Sull’antitesi fra coltivazione domestica e coltivazione agraria, di significativa rilevanza appare la sentenza del GUP di Cremona, (dott. G. Salvini) 10.10.2013.

[8]Cass. pen. Sez. Unite, 16/04/2020, n. 12348 C.G.:"Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numera di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore." (FONTI  Quotidiano Giuridico, 2020, Dir. Pen. e Processo, 2020, 6, 741, Giur. It., 2020, 10, 2242 nota di NOTARO, Dir. Pen. e Processo, 2020, 11, 1446 nota di ARGIRO', Studium juris, 2020, 7-8, 902 nota di BOLZONARO)

[9]Cass. Sez. Unite Sent., 16/04/2020, n. 12348 (rv. 278624-01): "Non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto". La sentenza stessa rileva l’importanza per sostenere che la coltivazione sia finalizzata all'uso personale del coltivatore anche dei parametri della quantità, delle tecniche di coltura e dell’assenza di elementi concreti di segno diverso, risulti finalizzata all'uso personale del coltivatore. (Fonte: Foro It., 2020, 10, 2, 607).

[10] Significativa, infatti è la pronuncia del G.U.P. di Venezia dell’8.5.1998, che individuò la citata dicotomia, sancendo che l’attività di coltivazione di sostanze stupefacenti, penalmente rilevante, va intesa in senso tecnico agrario ai sensi degli artt. 26 e 29 del D.P.R. 309/90, e che, pertanto, la coltivazione domestica, che si risolve nella messa a dimora di poche piante per uso personale, integra una ipotesi di detenzione per uso personale, come tale depenalizzata e colpita solo con sanzioni amministrative. (Cfr.  F. BERTOCCO, nota a sent. G.I.P. Tribunale di Venezia - Sent. 8.5.1998, in www.toolsantipro.it).

Conforme successivamente Tribunale di Cagliari, sent. 29 Gennaio 2004, che sottolineò come il concetto di coltivazione “domestica”, ossia il fenomeno della messa a dimora di una o più piante idonee a produrre quantitativi di sostanza stupefacente pienamente compatibili con una destinazione a consumo personale, esula del tutto dalla nozione tecnico-agraria di coltivazione, che presuppone una serie di attività quali preparazione del terreno, semina, governo delle piante, raccolta, etc., avuto   presente dal legislatore penale.

[11] Concetto propugnato in epoca ante SSUU 265/2008 da illuminati giudici di merito. Vedi, in primis, Tribunale di Livorno, 1 Giugno 2001, Campo e altri1, che afferma come in materia di stupefacenti è possibile includere nell'ampio concetto di detenzione anche l'attività di coltivazione "domestica" di un numero esiguo di piante, sempre che essa sia volta  inequivocabilmente a ricavare stupefacente in quantitativi compatibili con l'uso personale, in quanto non assimilabile alla coltivazione in senso tecnico disciplinata dagli art. 26 e 27 d.P.R. n. 309 del 1990 e sanzionata dall'art. 73 dello stesso decreto.

Ed ancora, di tutto rilievo risulta la conclusione cui perviene il Tribunale di Roma, 13 Febbraio 2001, De Luca2 che ribadisce come l'attività di coltivazione "domestica" e rudimentale di stupefacenti, che risulti finalizzata all'uso personale, siccome caratterizzata dalla coltivazione privata di modeste o minime quantità di stupefacenti, è estranea alla nozione di coltivazione tecnicamente definita dagli art. 26-28 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in relazione alla quale è prevista la sanzione penale di cui all'art. 73 dello stesso d.P.R.

Per tale attività di coltivazione domestica il Tribunale ritiene che  è possibile includere la condotta, in via estensiva, nell'ampio concetto di "detenzione" di cui all'art. 75 d.P.R. n. 309/90, discendendone la punibilità solo a titolo di illecito amministrativo in tutti i casi in cui non vi sia la prova della destinazione a terzi della droga.

[12] Offensività che deve essere valutata sulla base di un duplice parametro quello astratto e quello concreto.

[13]Non è, così,sufficiente considerare il solo dato quantitativo di principio attivo ricavabile dalle singole piante,

[14]Nadile in Questione Giustizia Coltivazione di stupefacenti e principio di offensività: giurisprudenza di legittimità e declinazioni concrete

[15]Sul punto appare particolarmente interessante GUP Ravenna 24.10.2014 n. 517/2014.

      “...Non diversa sorte assolutoria segue il reato di coltivazione di piante di sostanza stupefacente, seppure con la diversa formula "perché il fatto non sussiste" non essendo emersa una prova certa dell'offensività della condotta, poiché qualora l'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta. L'indispensabile connotazione di offensività in generale della fattispecie penale implica  di  riflesso  la  necessità  che  anche  in  concreta  la offensività  sia ravvisabile almeno in grado minimo. nella singola condotta de/l'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato Impossibile (art. 49 c.p.)...”.

[16]Presupposti, invece, rilevanti nel senso illecito venivano individuati nella presenza di alcuni disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti.

[17]..Per le medesime ragioni e verosimile che anche l'eventuale produzione derivante dalle piantine sarebbe stata destinata ad uso personale.

      Al riguardo si ritiene non condivisibile l'orientamento fatto proprio dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008 Rv. 239920) per il quale la coltivazione sarebbe sempre penalmente rilevante a prescindere dall'uso (esclusivamente personale o meno) cui i1 prodotto fosse destinato. Secondo le Sezioni Unite non sarebbe possibile far rientrare la c.d. "coltivazione domestica" nella "detenzione" (come pur aveva ritenuto un diverso orientamento -minoritario - di legittimità: cfr, tra le altre Cass. Sez. 6, n. 42650 del 20/09/2007 Rv. 238153), con la conseguenza che la stessa coltivazione domestica non potrebbe risultare scriminata dall'eventuale destinazione all'uso esclusivamente personale (ai sensi degli artt. 73 co. 1-bis e 75 dpr 309/1990). Come noto, la Suprema Corte ha affermato che la coltivazione integra sempre (a condizione che risulti rispettato il principio di offensività) il reato contestato, perché vi è un significativo scarto temporale tra la coltivazione e l'uso e perché ogni tipo di coltivazione in sostanza determina un aumento della quantità di stupefacente esistente e da luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di "autoalimentarsi" attraverso la riproduzione dei vegetali.

      Tali argomentazioni, pur astrattamente condivisibili, non paiono tuttavia aderenti alla realtà che nei palazzi di giustizia si sperimenta quotidianamente. Come hanno già sottolineato diverse pronunce di merito, le quantità di stupefacenti in circolazione nella società italiana sono senz'altro enormi, sicché quattro piantine coltivate in un appartamento da due giovani - di cui non risulta un collegamento con qualche rete criminale -non possono aumentare in misura in qualche modo apprezzabile la citata quantità. Anzi, I'assuntore abituale di stupefacenti - ove si rivolga ai traffici di strada per soddisfare il proprio bisogno - determina un aumento della domanda complessiva e quindi, in un mercato in  cui l'approvvigionamento avviene di fatto senza limite e la domanda induce ed alimenta l'offerta, un aumento della quantità di sostanza che  circola nella collettività. Paradossalmente perciò il consumatore che non si rivolga ai traffici legati alla criminalità organizzata ma produca in proprio la sostanza stupefacente per il proprio consumo personale evita di contribuire all'incremento dei citati traffici.

      Un discorso analogo vale quanto al paventato pericolo che la coltivazione domestica possa dar luogo ad un processo capace di "autoalimentarsi" attraverso la riproduzione dei vegetali; anche tale obiezione risulta infatti inappropriata avendo riguardo agli spazi limitati di un appartamento di città, alla difficoltà che delle piante riescano a riprodursi in vaso, senza sole, ecc.

      Alla luce di tali considerazioni, si ritiene corretta l'assimilazione della "coltivazione domestica" - strutturalmente e finalisticamente diversa dalla coltivazione di tipo imprenditoriale o comunque su vasta scala -alla semplice detenzione.

      Ne il dato letterale depone necessariamente  in senso opposto:  la stessa espressione "coltivazione" di cui all'art. 73 dpr 309/1990 sembra infatti designare un'attività che presenti certe caratteristiche dimensionali minime e non si attaglia agevolmente alla fattispecie di quattro piantine cresciute in vaso all'interno di un appartamento.

      Una interpretazione restrittiva del termine "coltivazione" pare poi necessaria alla luce del principio di offensività del reato (che trova il suo fondamento negli artt. 13 e 27 Cost.): una volta che si individui il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice nella salute pubblica, nell'ordine pubblico e nella sicurezza pubblica, non si può ritenere che soddisfi il requisite di tipicità una condotta che per il numero delle piante, per il luogo di detenzione delle stesse (un luogo chiuso, inaccessibile a terzi), per la destinazione al consumo personale (e quindi la non diffusione del!o stupefacente) e del tutto inidonea ad offendere anche solo in termini di pericolo quei beni  (in tal senso Cass. Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011 Rv. 250721).

      Non si può da ultimo trascurare un altro data essenziale: la coltivazione in ogni caso dovrebbe avere ad oggetto sostanze stupefacenti; tale caratteristica non può desumersi dalla semplice tipologia di specie botanica coltivata, in quanto altrimenti si finirebbe per punire la semplice volontà dell'agente; pur trattandosi di reato di pericolo (in cui la soglia di rilevanza è anticipata in ragione dell'importanza dei beni giuridici tutelati) perché il reato sussista è necessario comunque che le piante presentino una quantità di principio attivo sufficiente ad esplicare un'efficacia drogante. Nel caso di specie nessun accertamento risulta essere stato effettuato, a parte il semplice narcotest. E la semplice specie botanica nulla garantisce al riguardo: la quantità di principio attivo notoriamente dipende da fattori quali l'età della pianta, le modalità (idonee o meno) di coltivazione, 1'adeguata esposizione alla. luce, ecc. I pochi elementi noti al riguardo (piantine ancora giovani; coltivatori inesperti; crescita in un appartamento) sono tutti concordi in senso opposto rispetto a quello della sussistenza del citato requisito”.

[18]E’ significativo che lo stesso giudice – dott. Salvini – già come GUP a Milano aveva con sentenza 13.10.2012 sancito i medesimi principi.

[19]Quello della esiguità del numero delle piante risulta un criterio assai utilizzato. V. ad es. Trib. Monza 14.4.2014 che afferma “….Con riguardo all'ulteriore condotta in contestazione di avere coltivato una pianta di marijuana, dagli atti risulta che nell'abitazione di P.G. fu trovata in un vaso una piantina alta circa 30 cm. di marijuana, da cui sono stati ricavati grammi 4,2 netti di sostanza con un principio attivo del 2,7 %. L'imputato ha ammesso di avere piantato nel mese di aprile precedente all'arresto una piantina di marijuana e di avere ricavato dalla crescita della stessa la sostanza che poi gli e stata complessivamente sequestrata. Tale affermazione trova riscontro nel fatto che la sostanza rinvenuta in casa era in parte già essiccata e pronta al consumo e in parte no (vedi reperti 2 e 3 del referto di analisi). Alla luce di ciò, ii fatto deve essere certamente qualificato come coltivazione domestica ad uso personale, non emergendo dagli atti di indagine indizi di alcun genere per ritenere che si sia trattato di una coltivazione finalizzata alla produzione di sostanza per la successiva  cessione  a  terzi. Sul punto questo giudice ritiene di aderire all'orientamento più recente della Suprema Corte e della giurisprudenza di merito(3) secondo i quali occorre accertare l'offensività in concreto della condotta e cioè la effettiva idoneità dell'attività di coltivazione a ledere il bene giuridico protetto dalla nonna incriminatrice e, cioè, ii bene della salute di terzi a cui la sostanza stupefacente prodotta sia destinata o ceduta, cosi accrescendone la circolazione e diffusione. Nel caso di specie non vi sono elementi per sostenere una destinazione a terzi della marijuana: e stata coltivata una sola pianta, detenuta in casa, senza approntamento di alcun dispositivo (ad esempio serra con apposite lampade) che ne accelerasse l'accrescimento o incrementasse la produzione, ne è state rinvenuto alcun oggetto che potesse far ritenere che quella sostanza sarebbe stata poi smerciata ad altri. In ragione di ciò, in mancanza di prova univoca della concreta offensività penale della condotta di coltivazione contestata all'imputato, lo stesso deve essere assolto anche da quest'accusa perché il fatto non sussiste”.

[20]Prosegue la sentenza affermando relativamente all'offensività “In materia deve rilevarsi come la stessa Corte Suprema di Cassazione, a fronte di iniziali affermazioni secondo cui la coltivazione era penalmente rilevante in sé ed in quanto tale potenzialmente diffusiva della droga, più di recente ha reiteratamente posto l'accento sulla necessità di accertare la offensività in concreto della condotta e cioè la effettiva idoneità della attività di coltivazione a produrre sostanza per il consumo (cfr Sez. 6, Sentenza n.22110 del 02/05/2013 Rv. 255733; Sez. 4, Sentenza n.1222 del 28/10/2008 Rv. 242371; Sez.6, Sentenza n.22459 del 15/03/2013 Rv. 255732; Sez.3, Sentenza n.23082 del 09/05/2013 R.256174).

         Conf. Corte Appello Cagliari 9.7.2014

[21]Per una vicenda analoga si veda Corte App. Trieste 8.4.2015 n. 524 “...La coltivazione di,una piantina di. canapa indiana, dell'altezza di circa 1 metro e contenente principio attivo pari all'11%, pare assolutamente inidonea a ledere il bene giuridico  tutelato dalla norma, non potendosi ricavare dalla predetta piantina un quantitativo apprezzabile  dii sostanza, tare da agevolarne la diffusone sul mercato.”. Contro Trib. Lecco  n° 585/2011 R.G. del 07-05-2012 che ha condannato per la coltivazione di una pianta alla pena di mesi 8 di reclusione, poi ridotta a mesi 4 in grado di appello.

[22]Anche Il Tribunale monocratico di Roma, con la sentenza 2.3.2015, ravvisava nel numero di tre piante un quantitativo indubbiamente idoneo ad escludere la offensività della condotta coltivativa.

[23]In sentenza si afferma che è evidente che la minuscola attivita di coltivazione (se cosi dobbiamo proprio chiamarla, per lo meno in senso naturalistico), costituita solo da tre piante di cannabis e da una specie di serra che, per le sue dimensioni non   poteva   comunque   ospitarne   di   piu,   non era concretamente tale da determinare, neppure in astratto, una produzione di sostanze stupefacenti potenzialmente idonea ad incrementare ilmercato (tanto è vero che il P.M. ha comunque contestato il 5° comma dell'art.73 DPR 309/90); in  piu,  se  siconsidera la  indubbia  destinazione  della  sostanza  all'uso  personale, è evidente  che il rischio   di  incrementare il mercato della  droga   era,  in  questo  specifico caso, inesistente anche e soprattutto dal punto di vista concreto.

[24]“...La difesa ha sostenuto la tesi della mancanza, nella condotta di coltivazione, della capacità di minacciare la salute pubblica attraverso una ulteriore diffusione dello stupefacente da coltivazione domestica. E in effetti si deve convenire che la condotta dell'imputato non ha alcun aspetto tecnico - agricolo ma più prettamente artigianale ed amatoriale. Il problema da affrontare è quello della offensività della condotta che normalmente è stata intesa come intimamente connessa alla capacità della coltivazione di produrre sostanza con buon principio attivo… Nel caso concreto l'offensività della condotta dell'imputato con riferimento a tale ultimo

      requisito è del tutto inesistente:la quantità di piante coltivate e di prodotto coltivato non ha la capacità di influire sul mercato illecito del traffico di stupefacenti. Tale interpretazione delle norme è peraltro costituzionalmente orientata in quanto anche la Corte Costituzionale ha affermato che accanto alla offensività generale che costituisce il limite della discrezionalità del legislatore ,il Giudice deve valutare l'offensività della condotta specifica che deve essere in grado di porre in pericolo il bene giuridico tutelato (cost 360/95) cioè nel caso concreto la diffusione del traffico di stupefacenti”.

[25]Le modalita della coltivazione - realizzata mediante l'uso di una serra costituita da una tenda di altezza pari a 230 cm e larghezza pari a 50 cm - e l'oggetto della stessa - trattandosi di sole due piantine - inducono a ritenere che si trattasse di una produzione di ridotta entita e di carattere rudimentale verosimilmente diretta a soddisfare le esigenze dei soli imputati…..Nel caso di specie, la rudimenta1e attività di coltivazione, avente ad oggetto un numero irrisorio di piante, unitamente all'assenza di ulteriori elementi sintomatici dello svolgimento di attività di cessione a terzi di sostanza stupefacente, non consente di afferrnare inequivocabilmente che il prodotto della stessa fosse destinato all'immissione nel mercato illecito in luogo che al mero uso personale.

[26]Il testo della norma recita :

         Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

         L'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

         L'offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede:

         1) per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;

         2) per i delitti previsti dagli articoli 336, 337 e 341 bis, quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell'esercizio delle proprie funzioni, nonché per il delitto previsto dall'articolo 343;

         3) per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 391 bis, 423, 423 bis, 558 bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583 bis, 593 ter, 600 bis, 600 ter, primo comma, 609 bis, 609 quater, 609 quinquies, 609 undecies, 612 bis, 612 ter, 613 bis, 628, terzo comma, 629, 644, 648 bis, 648 ter;

         4) per i delitti, consumati o tentati, previsti dall'articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, dall'articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, e dagli articoli 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58(1).

         Il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

         Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest'ultimo caso ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'articolo 69.

         La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.

[27]Cass. Pen., 1995, 1996, Foro It., 1995, II, 148

[28]Sintomatico segnale dell’incertezza e del disorientamento interpretativo di tale momento è la pronuncia di Cassazione  Sez. VI, 04/10/1994, Sunseci, Cass. Pen., 1996, 317, quindi assolutamente contemporanea a quella sopra indicata, la quale afferma che “In conseguenza dei risultati della procedura referendaria diretta all'abrogazione di talune norme del testo unico in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope, conclusasi con l'emanazione del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, la illiceità penale della detenzione di droga attiene solo alla detenzione per uso non personale, mentre la detenzione per uso personale integra solo un illecito amministrativo e non una causa di giustificazione, che ha come presupposto, invece, la illiceità penale del fatto. L'uso personale costituisce, dunque, un elemento della condotta, la quale non si esaurisce nella sola detenzione dello stupefacente, priva di ogni qualificazione, ma è solo quella connotata dall'elemento negativo dell'uso personale. La finalizzazione, per quanto in negativo, della detenzione (e, quindi, anche dell'importazione, coltivazione, ecc.) non costituisce ancora un momento dell'elemento soggettivo, ma solo una componente della condotta, secondo la teoria finalistica dell'azione. Ne consegue che l'onere della prova della finalità non personale della detenzione grava sull'accusa, incombendo all'imputato soltanto l'allegazione degli elementi a sè favorevoli.

[29]Fu, infatti,  la Corte d'Appello di Catanzaro, con ordinanza di remissione del 10 Febbraio 1995, Pellegrino, a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 75 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, come modificato dal d.P.R. 5 giugno 1993 n. 171, a seguito del referendum popolare del 18-19 aprile 1993, nella parte in cui non prevedeva che anche la coltivazione di sostanze stupefacenti - oltre che l'importazione, l'acquisto o la detenzione - venisse punita soltanto con sanzioni amministrative se finalizzata all'uso personale della sostanza, in riferimento all'art. 3 cost. .

[30]Prosegue la Corte  sostenenedo che si tratta di “...elementi, tutti, che- se mai - valgono ai soli fini della sussistenza o non dell'aggravante della ingente quantità di stupefacente estratto (o estraibile) dalle piante coltivate, ma non ai fini dell'intrinseca apprezzabilità penale del fatto di coltivazione”.

[31]Cita a riferimento Sez. 6, 15.3.2013 n. 22459, Cangemi, rv. 255732; e altresì: Sez. 6, 13.10.2009 n. 49528, Lanzo, rv. 245648; Sez. 6, 10.12.2012 n. 12612/13, Floriano, rv. 254891.

[32]Si legge infatti, in un capoverso : “...Senza mettere in crisi l'affermazione secondo cui la coltivazione non debba essere ricollegata all'uso personale ed essere punita in ragione della obiettiva capacità di aumentare la disponibilità ella droga e della sua ulteriore diffusione….”

[33]Da quanto consta a chi scrive. in progresso di tempo solo con la sentenza n. 50628/18, del  12.9.2018, sempre la Sez. 3 della S.C. avrebbe riaffermato i concetti di adesione, quasi supina, alle posizioni di SSUU 26805/08, privilegiando l’appartenenza delle piante al tipo botanico e l’attitudine delle stesse a giugnere a maturazione ed a produrre principio attivo in proiezione futura.

[34]La sentenza cita a riscontro Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, dep. 26/02/2016, Pasta, Rv. 266168; Sez. 6 , n. 2548 del 17/1 2/ 20 15, dep. 21/01/2016, Barbera, non massimata; Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, dep. 9/02/2016, Pezzato e altro, Rv. 265641; Sez. 6, n. 2618 del 21/10/2015, dep. 21/01/2016, Marong iu, citata; Sez. 6, n. 33835 del 8/04/2014, dep. 30/07/2014, Pg in proc. Piredda, Rv. 260170; Sez. 3, n. 23082 del 9/05/2013, dep. 29/05/2013, De Vita, Rv. 256174; Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011, dep. 28/06/2011.

[35]Viene citata Sez. 6, n. 2548 del 17/12/2015, dep. 21/01/2016, Barbera.

[36]“...Pertanto, ritiene il Collegio che, coerentemente con le riportate premesse logico argomentative,l'attività di coltivazione non fosse in grado, nel caso concreto, di recare alcuna lesione della salute pubblica, che in quanto costituente "la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui" (così la citata sentenza n.190 del 2016 della Corte costituzionale), non avrebbe potuto essere concretamente vulnerata da una condotta destinata al consumo esclusivo di una sol persona; e, ancora, che alla descritta condotta non potesse essere ricondotta, per le medesime ragioni, una qualche idoneità a favorire la circolazione della droga, e di alimentarne il mercato…”.

[37]CED Cassazione, 2021 Studium juris, 2021, 10, 1250

[38] In tema di reati contro gli stupefacenti, laddove la coltivazione sia caratterizzata da forme del tutto elementari e non presenti la predisposizione di accorgimenti - come impianti di irrigazione e/o di illuminazione - finalizzati a rafforzare la produzione, e sia tale, in relazione al grado di sviluppo raggiunto dalle piante, da consentire l'estrazione di un quantitativo minimo di sostanze stupefacente ragionevolmente destinata all'uso personale dell'imputato, essa e' priva di rilevanza penale.

[39]Quotidiano Giuridico, 2023

[40] Conf. Pur con le perplessità già espresse in relazione alla valutazione concernenti l’uso di strumenti irrigativi e luminosi, che vanno esaminati sempre con un metro di adeguatezza, Cass. Sez. III, 25/05/2022, n. 20238, S.E., Non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto. Infatti laddove la coltivazione sia caratterizzata da forme del tutto elementari e non presenti la predisposizione di accorgimenti, come impianti di irrigazione e/o di illuminazione, finalizzati a rafforzare la produzione, e sia tale, in relazione al grado di sviluppo raggiunto dalle piante, da consentire l'estrazione di un quantitativo minimo di sostanze stupefacenti ragionevolmente destinata all'uso personale dell'imputato, essa è priva di rilevanza penale.

[41]Quotidiano Giuridico, 2021

[42]Conf. Corte d'Appello Palermo Sez. IV Sent., 28/02/2022 che aderisce al principio, pur premettendo che “...Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente...”

[43]“...non può ricondursi alla nozione di coltivazione domestica non punibile la messa a coltura di otto piantine di marjuana, come nel caso di specie, non potendosi ritenere che la condotta riguardi uno scarso numero di piante, né che sia ricavabile un modestissimo quantitativo di stupefacente, risultando di per sé insufficiente la sola intenzione di destinare la coltivazione alle esigenze di consumo personale.

[44]“...Non integra il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, una condotta di coltivazione che, in assenza di significativi indici di un inserimento nel mercato illegale, denoti un nesso di immediatezza oggettiva con la destinazione esclusiva all'uso personale, in quanto svolta in forma domestica, utilizzando tecniche rudimentali e uno scarso numero di piante, da cui ricavare un modestissimo quantitativo di prodotto..”..

         Equivoco in cui cade, affermando, a propria volta tale indirizzo, anche il Tribunale Trieste con la Sent., 08/03/2021

[45]Articolo 2

Reati connessi al traffico illecito di stupefacenti e di precursori.

1. Ciascuno Stato membro provvede affinché siano punite le seguenti condotte intenzionali allorché non autorizzate:

a) la produzione, la fabbricazione, l'estrazione, la preparazione, l'offerta, la commercializzazione, la distribuzione, la vendita, la consegna a qualsiasi condizione, la mediazione, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione o l'esportazione di stupefacenti;

b) la coltura del papavero da oppio, della pianta di coca o della pianta della cannabis;

c) la detenzione o l'acquisto di stupefacenti allo scopo di porre in essere una delle attività di cui alla lettera a);

d) la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione di precursori, quando la persona che compie tali atti  sia a conoscenza del fatto che essi saranno utilizzati per la produzione o la fabbricazione illecite di stupefacenti.

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