Quali sono i profili problematici e la compatibilità tra il condono fiscale e la confisca prevista dall'articolo 12-bis del D.Lgs. 74/2000?
L'avv. Maurizio Villani e la Dott.ssa Ludovica Loprieno analizzano il rapporto fra questi due istituti del nel sistema penale - tributario
***
L’istituto della confisca ex art. 12-bis del Dlgs 74/2000, in estrema sintesi, consiste nell’espropriazione delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato ovvero ne rappresentano il prodotto, il profitto o il prezzo (art. 240 c.p.). Essa si configura come misura di sicurezza di tipo reale, in quanto colpisce esclusivamente le cose, mobili o immobili, e si distingue in facoltativa o obbligatoria, a seconda del tipo di relazione intercorrente tra le cose stesse e il reato.
A differenza delle altre misure di sicurezza, la confisca prescinde dal requisito della pericolosità sociale dell’autore, richiedendo, invece, per la sua applicazione, la pericolosità oggettiva della cosa, desumibile dall’appartenenza della stessa alle categorie delineate dall’art. 240 c.p.
Più precisamente, nei casi di confisca obbligatoria, la misura è disposta sulla base di una presunzione juris et de jure di pericolosità della cosa, mentre nelle ipotesi di confisca facoltativa la cosa viene espropriata solo qualora presenti in concreto il suddetto carattere.
Anche la Suprema Corte di Cassazione ha più volte affermato che la confisca è una misura di sicurezza patrimoniale volta a prevenire la commissione di ulteriori reati, mediante l’espropriazione a favore dello Stato di cose che, provenendo da illeciti penali o collegati comunque alla loro esecuzione, mantengono viva l’idea e l’attrattiva del reato.
Nell’ambito del diritto penale moderno, invero, la confisca rappresenta un efficace strumento di contrasto della criminalità economica finalizzata al profitto; un mezzo efficace per ripristinare lo status quo ante la commissione di un reato, privando così l’autore delle utilità economiche eventualmente conseguite mediante l’illecito.
Con evoluzione dei traffici giuridici, il legislatore ha con il tempo sentito l’esigenza di affiancare alla confisca tradizionale, c.d. “diretta”, anche la confisca c.d. “di valore” o “per equivalente”, da taluni ritenuta una vera e propria pena di natura patrimoniale, avente ad oggetto qualsiasi utilità di cui l’autore di un reato abbia la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo, profitto o prodotto del reato, finalizzata a privare l’autore degli eventuali vantaggi connessi all’attività criminosa.
In entrambi i casi, la confisca ha un oggetto ben definito: il prezzo, il prodotto o il profitto del reato, nella declinazione diretta, oppure qualsiasi utilità di valore corrispondente, nella forma per equivalente.
A tali forme di confisca ordinaria si è, nel tempo, aggiunta in relazione ad alcuni reati un’ulteriore fattispecie: la confisca “in casi particolari” o, meglio, la c.d. confisca “allargata” o per sproporzione; partendo da una presunzione relativa di accumulazione illecita evidenziata dalla commissione di alcuni illeciti definiti “reati-spia”, la confisca colpisce tutti quei beni di cui si abbia la disponibilità in modo sproporzionato al reddito o all’attività economica esercitata e dei quali non si riesca a giustificarne la provenienza.
Il sistema penale tributario delineato dal D. Lgs. n. 74/2000 contempla, in particolare, tutte le forme di confisca prima ricordate; peraltro, prevedendosi per alcuni reati tributari anche la responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del D. Lgs. n. 231/2001, con relative sanzioni pecuniarie, interdittive e confische cui si aggiungono le sanzioni amministrative del D. Lgs. n. 472/1997.
Nell’ambito dei reati tributari, quindi, è prevista in danno della persona fisica: la confisca diretta o per equivalente, ex art. 12-bis del D. Lgs. n. 74/2000, del profitto o del prezzo del reato; la c.d. confisca allargata o per sproporzione ex art. 240-bis c.p., nelle ipotesi previste dall’art. 12-ter del D. Lgs. n. 74/2000, dei beni o delle altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità ma non sia in grado di giustificare la provenienza e che appaiano sproporzionati rispetto al suo reddito o alla sua attività economica.
Con riferimento all’ente collettivo, invece, è ammessa: la confisca diretta o per equivalente del prezzo o del profitto in danno dell’ente, ex art. 19 del D. Lgs. n. 231/2001, per i reati presupposto in materia tributaria individuati dall’art. 25-quinquiesdecies del D. Lgs. n. 231/2001; la confisca diretta del profitto o del prezzo del reato nella disponibilità dell’ente in nome e per conto del quale la persona fisica abbia agito; la confisca per equivalente su beni della persona giuridica quando si assuma che questa rappresenti soltanto uno schermo fittizio attraverso il quale agisca la persona.
Si considera profitto del reato l’utilità economica conseguita, direttamente o indirettamente, con la commissione del reato. Nella nozione di profitto che consente la confisca diretta non rientrano solo i beni appresi per effetto diretto e immediato dell’illecito, ma altresì ogni altra utilità comunque ottenuta dal reato, anche in via indiretta o mediata, come ad esempio i beni acquistati con il denaro ricavato dall’attività illecita o l’utile derivante dall’investimento del denaro di provenienza criminosa.
In tema di reati tributari, il profitto confiscabile è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale ottenuto con la commissione del reato, il quale si può, altresì, concretare in un risparmio di spesa, quale quello derivante dal mancato pagamento di un tributo, il quale si traduce non già in un miglioramento della situazione patrimoniale, quanto piuttosto in un mancata diminuzione del patrimonio.
In relazione ai reati tributari (dichiarativi e di omesso versamento), generalmente, il profitto si identifica con l’imposta evasa, maggiorata degli interessi ma non anche delle sanzioni, costituendo queste ultime – a rigore – un costo del reato, originato infatti dalla sua commissione e, per tale ragione, necessariamente successivo ad essa.
Soltanto per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di cui all’art. 11 del D. Lgs. n. 74/2000, il profitto del reato comprende anche le sanzioni, dal momento che la condotta illecita è finalizzata ad evitare il pagamento complessivo dell’imposta comprensivo delle sanzioni.
Ciò posto in linea generale sulla ormai pacifica applicabilità della confisca ai reati tributari, è opportuno analizzare un profilo alquanto complesso che concerne la corretta interpretazione e quindi applicazione del comma 2 dell’art. 12-bis del D.Lgs 74/2000, il quale testualmente dispone che “La confisca non opera per la parte che il contribuente s’impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.
Più in dettaglio e per quello che concerne più da vicino la trattazione in esame, in dottrina e in giurisprudenza si è posta la questione dellacompatibilità del comma 2 dell’art. 12-bis del D.Lgs 74/2000 con l’ipotesi particolare del condono fiscale, comportante l’esclusione dell’applicabilità della confisca quando sia operante tale istituto di favor.
Brevemente, si ricorda che per condono fiscale (o “condono tributario”, o “pace fiscale”) si intende un procedimento che viene messo in atto dal Governo e che consente ai contribuenti in situazione irregolare con il Fisco di regolarizzare la propria posizione. Attraverso il condono i cittadini possono evitare parzialmente o totalmente le sanzioni legate ad alcuni reati fiscali. Si parla di "condono tombale" quando la sanatoria invece è totale e il contribuente regolarizza completamente il suo rapporto con il Fisco. Sarà il Governo stesso a stabilire le caratteristiche del condono e i suoi limiti.
Per poter sanare una situazione fiscale irregolare attraverso un condono, è necessario versare una quantità di denaro stabilita per legge. L'ammontare della somma dipenderà dal reato fiscale effettuato e dall'entità dell'irregolarità. I contribuenti non sono obbligati ad aderire al condono ma possono decidere liberamente se utilizzarlo o meno.
Da ultimo, la Legge 29 dicembre 2022, n. 197, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025”, c.d. Legge di Bilancio 2023 ha introdotto la c.d. tregua fiscale.
Ebbene, dal momento che con il condono fiscale il contribuente può regolarizzare la propria posizione debitoria verso l’Erario, versando le imposte dovute senza applicazione di sanzioni e interessi, si è posto il problema dell’applicabilità del comma 2 dell’art. 12 bis D.Lgs 74/2000, e quindi della non operabilità della confisca “per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro”. La risposta al quesito è sicuramente affermativa per le ragioni che di seguito si esporranno.
Innanzitutto, per comprendere la portata applicativa e innovativa del secondo comma del citato art. 12 bis del D.Lgs 74/2000 e quindi la sua applicazione anche alla ipotesi di condono fiscale, è d’uopo individuare gli scopi perseguiti dal legislatore con l’introduzione della disposizione prima richiamata.
La lettura della norma permette una prima intuitiva considerazione: la scelta di escludere la misura ablatoria allorché il contribuente s’impegni a versare all’erario quelle stesse somme potenzialmente confiscabili, pare espressiva della volontà di far prevalere le pretese ‘creditorie’ dell’Agenzia delle entrate su quelle ablatorie conseguenti alla confisca.
È agevole osservare, inoltre, come tale logica sia altresì sottesa alle norme immediatamente successive a quella in esame, ossia agli artt. 13 e 13-bis del D.Lgs 74/2000. L’ art. 13 introduce una causa di non unibilità in caso integrale estinzione del debito tributario che, per taluni reati, viene riconosciuta purché il pagamento avvenga prima dell’apertura del dibattimento di primo grado; e, per altri, allorchè avvenga prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
L’art. 13-bis del D.Lgs 74/2000, invece, prevede che, fuori dei casi di non punibilità di cui sopra (ossia quelli previsti dall’art. 13), l’integrale pagamento - anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento - del debito tributario (comprensivo di sanzioni amministrative e interessi) prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, comporta una diminuzione di pena fino alla metà oltre all’esclusione delle pene accessorie.
Ne emerge un coacervo di norme in base al quale l’estinzione del debito può consentire di evitare in toto la condanna (art. 13) o di diminuire la pena (art. 13-bis); inoltre l’impegno ad estinguere il debito può permettere di evitare la confisca (art. 12-bis, comma 2).
Evidente, dunque, è il fil rouge intercorrente tra le disposizioni menzionate: far prevalere le pretese creditorie dell’erario su quelle punitive e ablatorie statali. Da ciò deriva la scelta di consentire e incentivare il pagamento spontaneo, anche se tardivo, del contribuente, piuttosto che ricorrere al processo penale e procedere all’apprensione coattiva del profitto del reato tributario.
L’art. 12-bis, comma 2 del D.Lgs 74/2000 persegue uno scopo ultroneo, che si aggiunge a quelli appena esaminati. Si può infatti scorgere nella previsione in esame l’intento legislativo di positivizzare un approdo giurisprudenziale già ampiamente consolidato.
L’orientamento a cui si fa riferimento è quello secondo cui, nei reati tributari, la ‘restituzione’ all’erario del profitto derivante dal reato elimina in radice lo stesso oggetto sul quale dovrebbe incidere la misura ablatoria; si ritiene, cioè, che la sanatoria della posizione debitoria con l’Amministrazione finanziaria faccia venire meno lo scopo principale perseguito con la confisca e con il sequestro ad essa prodromico.
La conseguenza che questa stessa giurisprudenza ne desume è che, qualora l’agente provveda al pagamento dell’imposta, dato che il profitto suscettibile di confisca corrisponde sostanzialmente all’ammontare dell’imposta evasa, viene automaticamente meno qualsiasi indebito vantaggio da aggredire col provvedimento ablatorio.
La ratio di tale approdo giurisprudenziale risiede nel fatto che, qualora si procedesse a confiscare l’intero profitto, senza tener conto di quanto (dell’imposta evasa) è stato già versato all’erario dopo la consumazione del reato, si verificherebbe un’inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto col principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivante dal reato”. I fautori di tale orientamento, insomma, evidenziano come la ratio della confisca penale tributaria risieda nel recupero del debito tributario, di guisa che una volta estinto quest’ultimo la funzione della misura ablatoria viene meno.
L’originaria disciplina della confisca penale tributaria, fondata sul richiamo all’ art. 322-ter c.p., nulla disponeva al riguardo. La giurisprudenza aveva comunque chiarito come l’estinzione del debito tributario impedisse l’applicazione della confisca, imponendo di conseguenza anche la revoca dell’eventuale sequestro preventivo già disposto: l’avvenuta integrale estinzione della posizione debitoria determina, infatti, il venire meno dello scopo della confisca escludendone l’applicazione, pena un’inaccettabile duplicazione sanzionatoria.
Lo stesso principio vale ovviamente anche in caso di pagamento parziale (ad esempio rateale) del debito tributario: la confisca non può essere disposta sulla parte di debito già saldato, mentre l’interessato può attivarsi per ottenere, in ragione del progressivo pagamento delle rate, una doverosa riduzione della misura del sequestro per un valore corrispondente al versato.
Nessun rilievo era invece attribuito al semplice accordo intervenuto tra contribuente ed Amministrazione finanziaria per la definizione delle pendenze debitorie del primo, ma non ancora seguito dall’effettivo pagamento delle somme dovute.
Con l’introduzione dell’art. 12-bis del D.lgs. 74/2000 il legislatore è intervenuto direttamente sul tema affermando, al comma secondo, con un linguaggio alquanto sibillino, che “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.
Se è certa la portata innovativa della disposizione rispetto all’assetto previgente, meno certa ne è l’esatta interpretazione. Pacifico che per “impegno a versare” debba intendersi un impegno formalmente assunto dal contribuente con l’Amministrazione finanziaria, e non un semplice intendimento unilaterale del primo: un accertamento con adesione, una transazione fiscale ex art. 182-ter L. F., un piano di rateazione, etc.
Sebbene infatti la dizione atecnica utilizzata dalla norma sembrerebbe suggerire come sufficiente ai fini dell’esclusione della confisca “la mera esternalizzazione unilaterale del proposito di adempiere al pagamento svincolato da ogni scadenza e da ogni obbligo formale nei confronti della controparte”, una tale conclusione condurrebbe inammissibilmente a far dipendere la operatività della sanzione da propositi unilaterali, sforniti di ogni sanzione in caso di mancato rispetto dell’impegno assunto.
Più complicata è invece l’interpretazione della disposizione nel suo complesso, con particolare riferimento all’espressione per cui “la confisca non opera…”. Due sono le possibili chiavi di lettura. La prima, suggerita almeno prima facie dal testo della disposizione, sembrerebbe sostenere l’inapplicabilità della confisca tributaria in sentenza anche come conseguenza del semplice accordo intervenuto tra contribuente ed Amministrazione senza che peraltro il pagamento delle somme dovute dal primo si sia ancora concretizzato.
Questa impostazione comporterebbe ovviamente anche l’inapplicabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Secondo invece una seconda e più accreditata tesi, la confisca “non operativa” sarebbe una confisca applicata ma non ancora concretamente eseguibile per effetto dell’intervenuta intesa tra fisco e contribuente.
Una confisca i cui effetti sarebbero dunque subordinati al verificarsi di un evento futuro e incerto, costituito dall’eventuale mancato pagamento del debito (confisca, per meglio dire, “condizionata”). Evidente è il discrimine tra le due impostazioni.
Nel primo caso il giudice non potrebbe disporre la confisca, e quindi neppure il sequestro preventivo ad essa finalizzato, con il conseguente rischio di dispersione delle garanzie patrimoniali del debitore che ben potrebbe in seguito non adempiere l’impegno assunto.
Nel secondo caso la confisca può invece essere applicata dal giudice, salvo poi non essere eseguita fino a che il contribuente non si renda inadempiente all’impegno assunto con l’Amministrazione finanziaria. La giurisprudenza, nel rilevare come la prima tesi rischierebbe di fatto di vanificare il ruolo di sequestro e confisca nel settore tributario, ha ragionevolmente ritenuto la seconda interpretazione preferibile dal punto di vista sistematico oltre che logico.
In particolare, la Suprema Corte (sent. nn. 42087 e 28225 del 2016) ha precisato che “anche in presenza di un piano rateale di versamento, la confisca potrà continuare ad essere comunque consentita, sia pure per gli importi non corrisposti, così continuando ad essere consentito il sequestro ad essa finalizzato”.
Il sequestro manterrà i suoi effetti anche dopo la pronuncia della sentenza di condanna qualora sia stata disposta la confisca ancorché condizionata delle cose sequestrate. All’eventuale verificarsi della condizione sospensiva, costituita dal mancato pagamento, la confisca sarà pienamente produttiva di effetti e spetterà al Pubblico Ministero, ricevuta apposita comunicazione di inadempimento da parte dell’Agenzia delle Entrate, dare concreta esecuzione alla misura.
Ciò posto sulla corretta interpretazione del comma 2 dell’art. 12 bis, gli ermellini (con la sentenza n. 32213/2028) hanno chiarito che la disposizione de qua esprime un atteggiamento di favor del legislatore per le forme di definizione del profilo strettamente tributario delle vicende connesse alla violazione delle disposizioni penali di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 che consentano comunque all'Erario di conseguire il pagamento delle imposte ritenute dovute.
In materia di confisca di beni costituenti il profitto o il prezzo di reati tributari, invero, la previsione di cui all'art. 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, introdotta dal D.lgs. n. 158 del 2015, secondo la quale, anche in caso di condanna o di applicazione della pena concordata, la confisca, diretta o per equivalente, "non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'erario anche in presenza di sequestro", si riferisce alle assunzioni d'impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore, ivi compresi gli accertamenti con adesione, la conciliazione giudiziale, le transazioni fiscali ovvero l'attivazione di procedure di rateizzazione automatica o a domanda.
Indubbiamente tale principio, in forza del quale deve attribuirsi rilevanza determinante, ai fini della esclusione della confiscabilità del profitto del reato tributario, alla quantificazione di esso operata in sede amministrativa, anche laddove la stessa sia divergente rispetto a quella acquisita in sede penale in ragione dell'intervenuto raggiungimento di forme di accordo, conciliazione o transazione fiscale fra il contribuente e la Agenzia delle Entrate, è, a fortiori, operante laddove non di solo impegno ad adempiere alla obbligazione tributaria si tratti ma anche di effettivo adempimento di essa, comprensivo di interessi e sanzioni.
E difatti tale interpretazione è in linea con quanto affermato sempre dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell'Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all'ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della Corte di Giustizia Tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di "sgravio" da parte dell'Amministrazione finanzia.
In conclusione, così come la previsione di cui al comma 1 dell'art. 12-bis del D. Lgs. n. 74 del 2000, disponendo, come obbligatoria, la confisca dei beni che, ai fini che qui rilevano, costituiscono il profitto dei reati tributari, è posta a garanzia della pretesa tributaria, parimenti l'ipotesi del comma 2 sta a significare che se non vi è pretesa tributaria, in seguito al condono fiscale e a tutte le altre alle assunzioni d'impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore, nemmeno vi può essere confisca e, di conseguenza, neanche la cautela reale ad essa finalizzata.