La Corte di cassazione, Quinta sezione penale, con la sentenza n. 12511 depositata in data 24 marzo 2023, ha esaminato la questione relativa alla configurabilità del reato di diffamazione aggravata nel caso di comunicazione inviata a mezzo posta elettronica ordinaria a plurimi destinatari, escludendo che, ai fini dell’integrazione del reato, sia necessaria la prova che la mail sia letta, essendo sufficiente la prova che la stessa sia scaricata dal sistema.
Il fatto
Il ricorrente veniva prosciolto, con la formula della non punibilità per tenuità del fatto, dal reato di diffamazione aggravata contestatogli in ragione dell’invio, a plurimi destinatari, di una mail contenente espressioni ritenute, dalla persona offesa costituitasi parte civile nel processo, lesive della propria reputazione.
La sentenza veniva confermata in secondo grado.
Tuttavia, trattandosi di pronuncia avente efficacia di giudicato nel giudizio civile ex art. 651 bis c.p.p. quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’attribuzione all’imputato (oltre che soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale e idonea ad ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità), l’interessato deduceva in cassazione censure di legittimità in ordine alla ricorrenza, nel caso di specie, della fattispecie di reato contestata e alla maturazione della prescrizione del reato già nel giudizio d’appello.
In particolare, sotto il profilo della rilevanza penale del fatto contestato, la difesa del ricorrente contestava la ritenuta tipicità del fatto escludendo che fosse stata dimostrata la comunicazione con più persone sub specie di conoscenza effettiva dell’offesa da parte dei destinatari, essendo la diffamazione reato di evento, che si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono le espressioni offensive; contestava, altresì, l’antigiuridicità assumendo che la condotta fosse scriminabile in ragione dell’esercizio del diritto di critica.
La sentenza
La pronuncia appare di interesse in quanto la Corte di cassazione fornisce un’interpretazione del concetto di “comunicazione con più persone” nel caso di invio di messaggio di posta elettronica, con contenuto lesivo della reputazione altrui, a plurimi destinatari.
Già la Corte territoriale aveva ritenuto integrata la fattispecie di reato contestata affermando come fosse sufficiente per la consumazione del reato la mera conoscibilità della comunicazione mediale mediante scaricamento dal sistema, e non anche necessaria l’effettiva lettura.
Ed invero è noto che il reato di diffamazione possa essere commesso anche per via telematica o informatica, mediante, fra l’altro, trasmissione via e-mail, da un agente, a più persone, di messaggi atti ad offendere un soggetto, essendo l’azione idonea a ledere il bene giuridico dell’onore anche se la comunicazione con più persone e/o la percezione, da parte di costoro, del messaggio non siano contemporanee alla trasmissione e contestuali tra di loro.
La peculiarità della diffamazione a mezzo mail rispetto a quella perpetrata tramite social media è – osserva la Corte - l’esclusività della comunicazione posto che l’e-mail è diretta a destinatario predefinito ed esclusivo, anche quando plurimi siano i soggetti cui viene indirizzata, al quale viene recapitata presso il server di adozione, ed è potenzialmente conoscibile mediante collegamento allo stesso attraverso un proprio dispositivo e utilizzando delle chiavi di accesso personali, mentre il post caricato su sito web o diffuso tramite social media è diretto a destinatario non esclusivo: ciò significa che, mentre con riguardo a quest’ultimo, lo stesso uso del canale sociale è di per sé significativo della comunicazione a una pluralità di destinatari, nell’ipotesi dell’invio di messaggi di posta elettronica, la spedizione del messaggio non basta ma è necessaria la prova dell’effettivo recapito dello stesso, sia esso la conseguenza di un’operazione automatica impostata dal destinatario ovvero di un accesso dedicato al server.
Tali conclusioni, che hanno determinato il rigetto del relativo motivo di ricorso, non sono condivisibili se si considera la diffamazione come reato di danno la cui configurabilità dipende dalla percezione e dalla comprensione dell’offesa da parte di più persone. Il che significa che, per poter configurare il reato, è fondamentale che vi sia comunicazione con una pluralità di soggetti, presenti realmente o virtualmente, anche non contestualmente, ma anche che vi sia consapevolezza, da parte dei soggetti destinatari della comunicazione del fatto, che questa integri offesa all'altrui reputazione: circostanza che presuppone nel caso di mail, la lettura della stessa. Ed invero è costante insegnamento quello secondo cui perché possa ritenersi integrato il delitto di diffamazione è necessario che vi siano almeno due persone, con esclusione dell’agente e della persona offesa, in grado di percepire le parole diffamatorie: poiché l’evento tipico del reato di diffamazione è rappresentato dalla percezione dell’offesa da parte di due o più persone a cui sia rivolta la comunicazione penalmente rilevante, non è sufficiente la mera esternazione senza percezione, come per esempio avverrebbe nei confronti di persone distratte da altro e non in grado di percepire le frasi; del pari non dovrebbe ritenersi sufficiente il mero scaricamento della mail senza lettura o il mero inserimento del contenuto diffamatorio senza quantomeno visualizzazione.
Le diverse ragioni di accoglimento del ricorso
La Corte di cassazione ha ritenuto fondati gli altri due motivi di ricorso.
Quanto alla scriminante, ha stigmatizzato la mancanza di valutazione in ordine al requisito della verità delle affermazioni contenute nel messaggio inviato a fronte del costante principio secondo cui, in tema di diffamazione, ai fini della applicazione dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica, non può prescindersi dal requisito della verità del fatto storico ove tale fatto sia posto a fondamento della elaborazione critica.
La scriminante di cui all'art. 51 c.p. del legittimo esercizio del diritto di critica, giova ricordarlo, presuppone la verità del fatto storico posto a fondamento della elaborazione critica e la c.d. continenza, ossia l'uso di modalità espressive che siano proporzionate e funzionali all'opinione dissenziente manifestata: requisito, questo, per il quale occorre compiere non solo in astratto, ma soprattutto in concreto un ragionamento di tipo critico-logico che tenga conto di una serie di “parametri” quali, non solo il tenore letterale delle espressioni rese, ma anche il concetto o messaggio che si vuole esprimere o trasmettere, il contesto dialettico in cui le stesse dichiarazioni vengono rese e le modalità con cui esse sono manifestate e/o reiterate.
Quanto alla prescrizione, la Corte ne ha ritenuto maturato il termine già prima della pronuncia di secondo grado.
Nel riconoscere l’intervenuta prescrizione del reato prima della pronuncia della sentenza di appello e la sostituzione della relativa formula (estinzione del reato per intervenuta prescrizione) a quella della pronuncia originariamente non appellabile (tenuità del fatto) dalla parte civile per carenza di interesse, ha concluso per l’annullamento senza rinvio agli effetti penali e con rinvio agli effetti civili non essendovi dubbio che la parte civile non debba essere danneggiata — non a causa di una propria acquiescenza, bensì per impossibilità di impugnazione dell’originaria pronuncia — dalla necessità di iniziare ex novo il giudizio civile.