Se compare un messaggio diffamatorio sulla tua bacheca Facebook, puoi discolparti sostenendo che il post sia stato pubblicato da terzi, i quali hanno usato abusivamente il tuo profilo?
Della questione si occupa la Sezione Quinta della Cassazione con la sentenza n. 40309 depositata il 25 ottobre 2022.
Commenta per noi il provvedimento il Prof. Michele Iaselli.
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La Suprema Corte, nella vicenda in esame, si trova di fronte al classico caso di diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca Facebook che integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, c.p., poiché si tratta di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.
Il problema che sovente si pone rispetto a questa tipologia di reato è quello dell'accertamento in ordine alla provenienza dei post, potendo accadere ad esempio che una bacheca virtuale venga utilizzata da diversi utenti. In effetti, nel caso di specie, il ricorrente sostiene che non sarebbe stata raggiunta la prova certa che il messaggio fosse stato effettivamente scritto dall'imputato e la Corte di appello avrebbe lasciato del tutto inesplorata la possibilità che terze persone potessero aver scritto il messaggio, utilizzando abusivamente il profilo dell’imputato.
Il ricorrente, in particolare, lamenta il mancato accertamento sull'indirizzo IP della provenienza di tali messaggi e la valorizzazione da parte della Corte di appello della circostanza che l'imputato non aveva denunciato l'uso abusivo del proprio profilo Facebook. Ed invece per l’organo giudiziario proprio l’omessa denuncia del furto d’identità è un’argomentazione che appare corretta, in quanto risponde a criteri logici e a condivise massime di esperienza trarre elementi di rilievo - in ordine alla provenienza di un post da un determinato utente - dall'omessa denuncia dell'uso illecito del proprio profilo, eventualmente compiuto da parte di terzi.
In effetti la Suprema Corte ha già ritenuto, per il passato, che l'omessa denuncia del c.d. "furto di identità", da parte dell'intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione di post "incriminati", possa costituire valido elemento indiziario (Sez. 5, n. 4239 del 21/10/2021; Sez. 5, n. 45339 del 13/07/2018).
Si può, quindi affermare, che ormai la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che, anche in mancanza di accertamenti circa la provenienza del post di contenuto diffamatorio per il tramite dell'indirizzo IP dell'utenza telefonica intestata a un determinato soggetto, sia possibile pervenire alla riferibilità della diffamazione su base indiziaria: ciò, nei casi in cui si riscontri la convergenza, pluralità e precisione di dati quali il movente, l'argomento su cui avviene la pubblicazione, il rapporto tra le parti, la provenienza del post dalla bacheca virtuale dell'imputato con utilizzo del suo nickname, nonché l'assenza di denuncia di cd. furto di identità da parte dell'intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione dei post incriminati.
E’, invece, interessante ricordare che la stessa quinta sez. penale della Corte di Cassazione, qualche anno precedente, con la sentenza n. 05352/2018 ricordava, poi, come fosse importante nel caso di reati commessi attraverso la rete esaminare con attenzione gli aspetti di natura tecnologica che costituiscono elemento fondamentale ai fini della configurazione e valutazione della prova.
Nel caso di specie, difatti, la ricorrente aveva impugnato la sentenza della Corte di Appello di Lecce che aveva confermato la condanna pronunciata dal Tribunale di Brindisi nei suoi confronti, per il reato di cui all'art. 595, comma 3, cod. pen. alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile, da liquidarsi separatamente, per aver offeso la reputazione del sindaco del paese di residenza, diffondendo attraverso il social network Facebook, un messaggio diffamatorio.
Le contestazioni mosse dalla ricorrente si fondavano sul fatto che la motivazione della sentenza della Corte territoriale non prendeva in considerazione il dato - rilevato con i motivi di appello - dell'omessa verifica da parte dell'accusa dell'indirizzo IP di provenienza (codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, all'atto della connessione da una data postazione dal servizio telefonico, onde individuare il titolare della linea) della frase diffamatoria, così come mancava la prova fornita attraverso i cd. file di log, contenenti tempi e orari della connessione. Infine nelle indagini svolte in origine dalla parte civile, l'indirizzo IP individuato, era risultato intestato a altro profilo Facebook, sul quale scrivevano numerosi utenti.
La Suprema Corte, in quel caso, ritenne fondate tali contestazioni in quanto effettivamente la sentenza di primo grado, confermata dalla Corte territoriale, aveva ritenuto sussistente la responsabilità penale della ricorrente, considerando senz'altro riferibile ad essa la frase reputata offensiva, di cui all'imputazione, pur a fronte del mancato formale riscontro oggettivo dell'indirizzo IP di provenienza, segnalato dalla difesa, sulla base di elementi indiziari indicati come concordanti e gravi. Tale riferibilità, secondo il primo giudice, era desumibile dalla provenienza della frase da profilo Facebook intestato all’imputata, mai disconosciuto, nonché dalla carica rivestita dall'imputata, all'epoca dei fatti sindacalista, visti i verosimili dissapori rispetto alla linea politica adottata dal sindaco, sfociati nelle dichiarazioni pubblicate sul forum, nonché dal contenuto dei commenti di altri utenti intervenuti nella discussione telematica. Altro argomento rilevante sostenuto dalla Corte territoriale era la mancanza di qualsiasi denuncia per furto di identità da parte di terzi sporta dall’imputata.
E’ evidente, quindi, come la Suprema Corte con riferimento agli aspetti probatori del reato in argomento abbia cambiato nel corso del tempo la propria opinione ritenendo ormai decisivi importanti elementi concordanti di natura indiziaria a prescindere da accertamenti di carattere tecnico-informatico.
Il provvedimento: