La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 46 del 25 gennaio 2023, ha salvato alcune disposizioni in materia di sanzioni tributarie tacciate di illegittimità costituzionale sollevate dall’allora Commissione Tributaria Provinciale di Bari, oggi denominata Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Bari, fornendone un’interessante e condivisibile chiave di lettura compatibile con la nostra Carta fondamentale.
La Consulta, invero, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 13 del D.lgs n. 471/1997, nel contesto di un’interpretazione costituzionalmente orientata, ha fissato alcune importanti conclusioni:
1) le sanzioni tributarie non penali devono essere ragionevoli e proporzionate alla gravità del comportamento del contribuente;
2) il dimezzamento della sanzione deve intervenire anche quando l’interessato attenua o elimina del tutto le conseguenze dell’evasione iniziale, ad esempio presentando le dichiarazioni mancanti o pagando il dovuto anche se in ritardo;
3) la diminuzione sino alla metà delle sanzioni, inoltre, può essere decisa d’ufficio dalla stessa Amministrazione finanziaria o, addirittura, richiesta dal contribuente qualora sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo.
Così richiamanti i termini della questione, è opportuno ora fornire una puntuale disamina della pronuncia della Consulta la quale è degna di nota non solo per la pregevole conclusione cui addiviene, ma anche e soprattutto perché la decisione si colloca a favore di una sistematica riforma e ripensamento in chiave innovativa del sistema sanzionatorio tributario inaugurata dalla neo approvata Delega al Governo per la Riforma fiscale.
La questione trae l’abbrivio dalla ordinanza del 25 marzo 2022, con la quale la Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 della Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, primo periodo, e 13, comma 1, del Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, recante la “Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi”.
La prima disposizione censurata prevede che “nei casi di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive, si applica la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento dell’ammontare delle imposte dovute, con un minimo di euro 250”.
A sua volta l’art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 471 del 1997, dispone che “chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento diconguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a novanta giorni, la sanzione di cui al primo periodo è ridotta della metà. Salva l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al secondo periodo è ulteriormente ridotta a un importo pari a un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo”.
La questione è sorta nel corso di un giudizio riguardante due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società consolidante, con riferimento agli anni di imposta 2014 e 2015, non avendo essa provveduto alla presentazione della dichiarazione dei redditi relativa al consolidato fiscale. In particolare, con i due avvisi di accertamento sono state comminate sanzioni per omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, pari al centoventi per cento delle imposte accertate; tuttavia, la società ricorrente era riuscita a dimostrare di avere pagato integralmente le imposte dovute, unitamente agli interessi e alle sanzioni ridotte, prima di aver ricevuto gli avvisi di accertamento impugnati.
La Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Bari, ravvisando dubbi di legittimità costituzionale delle norme impugnate, rimetteva la questione alla Consulta.
Con riferimento all’art. 1, comma 1, primo periodo, del D.lgs. n. 471 del 1997, la C.G.T. di Primo grado sosteneva che esso confliggerebbe, sotto un primo profilo, con l’art. 3 della Costituzione, con riferimento ai principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, nella parte in cui prevede che, ove alla omessa presentazione della dichiarazione dei redditi faccia comunque seguito, prima della ricezione di avvisi di accertamento, il versamento spontaneo dell’imposta, lasanzione dal centoventi al duecentoquaranta per cento si applichi sull’intero ammontare di tutte le imposte dovute sulla base della dichiarazione omessa, anziché solo sull’importo residuo delle imposte da versare da parte del contribuente.
Ad avviso del rimettente, infatti, dovrebbe rimanere ben distinta l’offensività della condotta di chi omette la presentazione della dichiarazione al fine di evadere il pagamento delle imposte da quella di chi, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione dei redditi, paga spontaneamente le imposte dovute pur senza un previo accertamento fiscale.
La sanzione prevista dall’art. 1, comma 1, primo periodo cit., invero, colpisce indiscriminatamente il contribuente, senza alcun riguardo all’entità oggettiva e soggettiva della violazione commessa, sottoponendo così al medesimo trattamento condotte fra di loro eterogenee e aventi conseguenze diverse.
In altre parole, la suddetta previsione normativa avrebbe ancorato la sanzione al criterio meramente formale ed estrinseco della omessa presentazione della dichiarazione fiscale, invece che a quello sostanziale dell’ostacolo all’accertamento e della evasione del pagamento dell’imposta, senza considerare che la condotta di chi, pur non presentando la dichiarazione dei redditi, effettui i pagamenti per intero, prima della ricezione dell’avviso di accertamento, sarebbe meno grave di quella di chi ometta non solo la presentazione della dichiarazione dei redditi ma anche il pagamento delle imposte.
Inoltre, l’art. 3 della Costituzione, subirebbe un vulnus anche sotto un ulteriore profilo, in quanto scoraggerebbe l’adempimento tardivo, ma spontaneo, del pagamento delle imposte, demotivando i contribuenti che non ne ricaverebbero alcun vantaggio.
La norma de qua contrasterebbe, poi, con i parametri costituzionali di cui agli artt. 53 e 76 della Costituzione, dal momento che divergerebbe dallo scopo indicato dalla legge delega di riforma tributaria n. 825/1971 ed in particolare da quello di commisurare le sanzioni “all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni”.
La seconda disposizione oggetto di doglianza (art. 13, comma 1, del D.Lgs. n. 471/1997) sarebbe incostituzionale nella parte in cui esclude la possibilità di fruire del regime di favordel ravvedimento per il contribuente che, pur avendo omesso la presentazione della dichiarazione fiscale, abbia provveduto al versamento spontaneo delle imposte dovute.
La norma censurata sarebbe, dunque, in contrasto con gli artt. 3, 53 e 76 della Costituzione nella parte in cui prevede che solo chi abbia presentato la dichiarazione fiscale senza eseguire i prescritti versamenti sia soggetto alla sanzione amministrativa pari al 30% dell’importo non pagato e possa fruire delle riduzioni previste nel caso di versamento spontaneo e non anche chi abbia omesso di presentare la dichiarazione fiscale ma abbia poi effettuato spontaneamente il pagamento delle imposte prima di ricevere un avviso di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Ricostruiti i fatti di causa, la Consulta ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale delle norme impugnate, fornendo tuttavia una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata delle stesse.
La pronuncia del Giudice delle Leggi, che qui si commenta, è degna di nota, come prima detto, sia perché effettua una ricognizione puntuale dei crismi fondamentali che sono alla base del sistema tributario sanzionatorio non penale, sia perché si inserisce nell’indirizzo innovativo inaugurato dalla Delega fiscale appena approvata dal Governo e che mira proprio a calibrare le sanzioni penali e amministrative sulla situazione specifica e sul comportamento del contribuente, per evitare di colpire allo stesso modo chi evade le imposte con dolo e chi non risponde puntualmente alle richieste del Fisco perché non in grado di farlo.
Per fare ciò, la Consulta richiama i principi fondamentali su cui si basa il nostro sistema fiscale, il quale, essendo un sistema di fiscalità di massa, poggia sul principio dell’autoliquidazione delle imposte, cui deve corrispondere, nell’ambito dell’imposta sui redditi, la fedele compilazione e la tempestiva presentazione della dichiarazione
Tramite la dichiarazione dei redditi il contribuente è pertanto chiamato a collaborare con l’Amministrazione finanziaria, esponendosi di conseguenza ai relativi controlli. Tale dichiarazione ha, invero, una rilevanza procedimentale: consente all’Agenzia delle Entrate, innanzitutto, di attivare i controlli automatizzati e formali, di cui rispettivamente agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973; condiziona poi l’accertamento e determina, in particolare, i metodi di rettifica del reddito dichiarato.
In tal modo la presentazione della dichiarazione agevola le attività del Fisco, che dovrà al contrario ricorrere ad altri e più impegnativi strumenti nei confronti di quei contribuenti poco virtuosi che, non assumendo tale atteggiamento collaborativo, presumibilmente sono orientati a sottrarsi totalmente al versamento dei tributi dovuti.
L’accertamento d’ufficio, però, implica un impegno ben superiore rispetto a quello normalmente richiesto per la effettuazione degli altri controlli e , in particolare, di quelli automatizzati e formali. Da qui l’esigenza, per il buon funzionamento del sistema tributario, che l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi sia presidiata da una sanzione con un forte effetto deterrente.
Ciò precisato, il problema della ragionevolezza e proporzionalità della sanzione in questione permane e viene risolto dalla Consulta mediante una lettura innovativa delle disposizioni in tema di sanzioni tributarie non penali, che mette per la prima volta in stretta correlazione le norme censurate dalla Corte rimettente con l’art. 7 del D.Lgs 472/97.
Emblematica, al riguardo, è la fattispecie al vaglio della Corte Costituzionale: il contribuente ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi relativa al regime fiscale del consolidato, ma, tuttavia, ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione, in tal modo esponendosi inequivocabilmente ai controlli dell’Agenzia delle Entrate; il ricorrente, inoltre, ha interamente versato le imposte dovute, seppure in ritardo, ma pur sempre prima di aver ricevuto l’avviso di accertamento.
La circostanza che, nonostante il comportamento tenuto, tale contribuente, per effetto dell’applicazione del minimo edittale, debba versare una cifra maggiore dell’imposta già versata – il centoventi per cento dell’imposta dovuta – evidenzia, più in generale, che nella fattispecie sanzionatoria censurata può venir meno, in determinate situazioni, un rapporto di congruità tra il concreto disvalore dei fatti e la misura della sanzione.
La soluzione del problema è possibile mediante una lettura sistematica della norma censurata, posta in correlazione con l’art. 7 del D.lgs. n. 472 del 1997. Tale soluzione, senza minare in radice l’effetto deterrente delle norme in esame, è in grado di ricondurre entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza la sanzione prevista dall’art. 1 D.l.gs 471/1997 in riferimento a situazioni come quella del giudizio a quo.
Per effettuare una siffatta lettura innovativa, condivisibilmente, la Consulta ripercorre brevemente l’evoluzione del sistema sanzionatorio tributario che ha portato all’introduzione dell’art. 7 D.lgs 472/1997.
La disciplina delle sanzioni tributarie, come ricorda la Corte Costituzionale, rinviene le proprie radici nella Legge del 07 gennaio 1929, n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie), che ha previsto due differenti modelli sanzionatori per la repressione dell’illecito fiscale, distinguendo tra le violazioni che danno luogo a reati e quelle che generano obbligazioni di carattere civile: la pena pecuniaria, che aveva carattere afflittivo, e la soprattassa, a carattere retributivo e risarcitorio (artt. 3 e 5). Con la delega contenuta nell’art. 3, comma 133, della Legge n. 662 del 1996, il sistema sanzionatorio tributario non penale è stato poi innovato profondamente.
In attuazione di tale delega sono stati quindi emanati, per quello che ci interessa: a) il D.lgs. n. 471 del 1997, relativo alle sanzioni e nel quale, eliminando la frammentazione che caratterizzava il sistema previgente, sono state inserite unitariamente quelle in materia di imposte dirette ed IVA; b) il d.lgs. n. 472 del 1997, in base al quale la sanzione amministrativa tributaria è stata adeguata ai principi generali della legge 24 novembre 1981, n. 689.
Il nuovo modello di sanzione amministrativa pecuniaria, che è emerso da questa riforma, ha sotto più profili mutuato la propria disciplina dal diritto punitivo, come dimostra, ad esempio, l’introduzione del principio della intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi e quello della retroattività della normativa successiva più favorevole.
Nell’ambito di questa evoluzione, ai fini che qui rilevano, va soprattutto considerata l’innovazione rappresentata dall’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997.
Il comma 1 del medesimo articolo ha infatti stabilito, che «nella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali».
Il comma 4, poi, ha contemplato la facoltà di ridurre in modo consistente la misura della sanzione: «qualora concorrano eccezionali circostanze che rendano manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo».
Con la Legge dell’11 marzo 2014, n. 23 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita), infine, l’esigenza di una migliore commisurazione delle sanzioni all’effettiva entità oggettiva e soggettiva delle violazioni è stata nuovamente ribadita, con un riferimento esplicito al «principio di proporzionalità» delle sanzioni tributarie.
All’art. 8, comma 1, infatti, dopo aver dettato principi e criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, la richiamata legge delega ha previsto la revisione del sistema sanzionatorio amministrativo al fine di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all’effettiva gravità dei comportamenti.
È in attuazione di tale disposto che l’art. 16, comma 1, lettera c), numero 2), del D.Lgs. n. 158 del 2015, ha eliminato, nel menzionato art. 7, comma 4, l’aggettivo «eccezionali», dinanzi al termine «circostanze», rendendo quindi applicabile in via ordinaria la possibilità di riduzione della sanzione.
Nonostante questa evoluzione, tuttavia, il criterio di proporzionalità introdotto dal comma 4 dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997, è rimasto pressoché lettera morta, probabilmente anche a causa di una imprecisa e generica formulazione della disposizione che, legando il giudizio sulla sanzione all’entità del tributo, non appare in grado di fornire un criterio interpretativo valido e esaustivo.
Al riguardo, tra i circoscritti casi in cui la citata disposizione è stata presa in considerazione nella giurisprudenza, infatti, si può ricordare, essenzialmente, quella di legittimità in tema di sanzioni attinenti al reverse charge.
A fronte di questo quadro normativo e giurisprudenziale, la possibilità di ricondurre nell’ambito dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità una sanzione come quella comminata dalla norma censurata, passa attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 che va applicata al sistema delle sanzioni tributarie.
In ipotesi come quella del giudizio a quo, infatti, la risposta sanzionatoria all’omessa presentazione della dichiarazione della società consolidante deve tener conto del comportamento del contribuente che, da un lato, ha tempestivamente presentato la propria dichiarazione, di fatto rendendosi visibile all’Erario; e dall’altro, sebbene con alcuni anni di ritardo rispetto alle scadenze legali, ma comunque prima di ricevere gli avvisi di accertamento, ha interamente versato le imposte.
In relazione a situazioni consimili, la previsione di una sanzione pari al centoventi per cento dell’imposta dovuta non potrebbe, di per sé, superare il sindacato di proporzionalità.
La frizione con il dettato costituzionale, peraltro, si manifesterebbe anche con riguardo al sindacato di ragionevolezza, dal momento che il peso della sanzione potrebbe effettivamente disincentivare l’adempimento tardivo.
Il contrasto con tali principi è però evitato, considerando, nella determinazione delle sanzioni, le potenzialità offerte dal citato art. 7 del D.lgs. n. 472 del 1997 che, interpretato in correlazione con l’art. 3 Cost., può riportare l’art. 1 D.lgs 471/1997 nell’alveo della legittimità costituzionale, consentendo al giudice a quo di ridurre la sanzione in concreto applicabile a una misura proporzionata e ragionevole.
Occorre quindi che il comma 4 non venga letto atomisticamente, ma in correlazione con il comma 1 del medesimo art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997: in questi termini, infatti, il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le «circostanze» – non più necessariamente “eccezionali” – che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo, e in particolare la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze.
Valorizzato in questi termini, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, l’art. 7 del D.Lgs 472/1997 è in grado di mitigare l’applicazione di sanzioni, come quella stabilita dall’art. 1 D.Lgs 471/1997, che, strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire, però, eccessive e sproporzionate (o meglio, “draconiane”, per utilizzare le parole della Consulta) quando colpiscono contribuenti che invece non manifestano tale intento.
La riduzione nei sensi indicati potrà essere operata già da parte dell’Agenzia delle entrate, poiché questa spesso dispone, fin dal momento della irrogazione della sanzione, degli elementi di valutazione utili al riguardo. In ogni caso, la riduzione potrà essere applicata dal giudice nell’ambito del contenzioso, anche a prescindere da una formale istanza di parte, ogni qualvolta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo.
Tale valorizzazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 472 del 1997 alla luce dell’art. 3 Cost. trova solide basi nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, che in più occasioni ha precisato, da un lato, che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito è applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative e, dall’altro, che anche per le sanzioni amministrative si prospetta l’esigenza che non venga manifestamente meno un rapporto di congruità tra la sanzione e la gravità dell’illecito sanzionato, in particolare dando rilievo al disvalore concreto di fatti pure ricompresi nella sfera applicativa della norma.
Ciò in quanto il principio di proporzionalità postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto e tale adeguatezza non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella perpetrazione dell’illecito.
La pronuncia della Consulta, in conclusione, è pregevole sotto diversi aspetti: innanzitutto, il Giudice delle Leggi sancisce che il combinato disposto degli artt. 1 e 7 del D.Lgs 471/97 consente la riduzione delle sanzioni altresì fuori dai casi in cui interviene il ravvedimento operoso, qualora il contribuente riesca a dimostrare le circostanze che consentono una diminuzione della sanzione. Quando queste sono pacifiche, la riduzione potrà essere disposta d’ufficio dall’Amministrazione finanziaria.
In secondo luogo, è evidente come la pronuncia in epigrafe faccia propria e sviluppi ulteriormente la ratio legis alla base della Delega fiscale appena approvata. La prima, come la seconda, hanno come fine ultimo quello di estendere alla materia tributaria il principio di proporzionalità delle sanzioni e di incentivare il pagamento spontaneo, seppure talvolta tardivo, del contribuente, nell’ottica di garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali e l’adeguamento della normativa interna alla giurisprudenza sovranazionale applicabile alla materia de qua.
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