Qual è il modo migliore e più giusto di vivere?
Quando non facciamo ciò che condanniamo negli altri.
Fu questa la risposta di Talete di Mileto, il primo filosofo della storia secondo Aristotele.
Secondo Talete, non il diritto posto dall'esterno come norma di condotta deve fungere da parametro delle nostre azioni, ma il giudizio che usiamo verso gli altri.
Ciò che vietiamo agli altri, vietiamolo prima a noi stessi: precetto non molto lontano dall'ebraico “Non fare al prossimo tuo ciò che è odioso a te”.
La giustizia sta dunque nel non ritenersi autorizzati a fare qualsiasi cosa che, se fatta da un altro, sarebbe da noi condannata. Un invito all'umiltà, o quantomeno ad una posata osservazione di se stessi.
L'invito di Talete non è rivolto a far rispettare un particolare precetto, quanto invece a tener fermo un principio: quello dell'uguaglianza.
Un'uguaglianza sotto un certo profilo radicale e pre-giuridico, che impone di considerare se stessi identici agli altri in quanto a condotta da tenere. Un'uguaglianza basilare, che dovrebbe essere scontata ed ovvia in un'idea di diritto che presuppone una pluralità di soggetti di diritto tutti quanti ugualmente portatori della medesima capacità giuridica.
Ma come giungere ad un grado di onesta intellettuale adeguata ad atteggiamento di questo tipo?
Sempre pronto a giustificare se stesso, l'homo oeconomicus è volto alla ricerca del proprio vantaggio e saprà vedere nel caso specifico una dettaglio tale da far ritenere la situazione da lui vissuta come diversa da quella che, invece, giudicherebbe guardando ad un altro.
Sempre pronto ad estendere i confini della propria sfera giuridica, annettendo sempre nuovi diritti soggettivi, l'homo oeconomicus è incline a condannare l'altro ed assolvere se stesso, e molto poco avvezzo a misurare il peso delle proprie responsabilità anche sacrificando ogni coerenza di giudizio.
Ma quel che vien meno, in realtà, non è la coerenza di giudizio, quanto invece il ritenersi eguale al proprio consociato.