Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.23687 del 01/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22314-2011 proposto da:

F.F.S., elettivamente domiciliato in ROMA VIA STEFANO JACINI 68 presso lo studio dell’avvocato FABIO VALERIANI, rappresentato e difeso dall’avvocato FULVIO SALVATORE POTI;

– ricorrente –

contro

AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI MILANO ***** in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 88/2010 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 24/06/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/07/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

RILEVATO

che:

F.F.S. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 88/40/10, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia il 24.06.2010;

per quanto comprensibile dal ricorso ha riferito che a seguito della notifica di avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2001, con il quale l’Agenzia delle Entrate rettificava il reddito del contribuente, aveva adito la Commissione Tributaria Provinciale di Milano, contestando i maggiori redditi dominicali e professionali attribuiti. Il giudice di primo grado con sentenza n 514/02/2007 accoglieva solo in parte le ragioni del contribuente, confermando per il resto gli esiti dell’accertamento. Il F. appellava la sentenza dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia che con la sentenza ora impugnata riteneva fondate le sole ragioni relative al reddito di fabbricati, rigettando le altre.

Il ricorrente censura con un unico motivo la pronuncia, dolendosi della “violazione, falsa applicazione e/o omessa applicazione della L. n. 4 del 1929, art. 24,D.P.R. n. 600 del 1973, art. 70 – D.P.R. n. 633 del 1072, art. 75 – L. n. 241 del 1990, art. 3 – L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 12 – D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 – art. 2643 c.c. – artt. 2723,2724,2728,2729 c.c. – art. 2697 c.c. – art. 112 – D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 31” in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, sotto i profili della inadeguata e contraddittoria motivazione, della omessa trattazione di punti fondamentali, dell’inversione dell’onere della prova, dell’ultrapetizione, della violazione del diritto di difesa.

Ha chiesto la cassazione della sentenza senza rinvio.

L’Agenzia si è costituita, eccependo l’inammissibilità del ricorso per carenza di autosufficienza e per l’assenza della formulazione di motivi specifici di impugnazione.

CONSIDERATO

che:

il ricorso è ai limiti dell’inammissibilità sotto il profilo del confezionamento mediante la tecnica dell’assemblaggio.

In merito le modalità di redazione dell’atto introduttivo mediante integrale riproduzione di una serie di documenti si traduce in una esposizione dei fatti non sommaria, in violazione dell’art. 366 c.p.p., comma 1, n. 3, il che comporta un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza, sanzionabile con l’inammissibilità, a meno che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, qualora facilmente individuabili e isolabili, possa essere separato ed espunto dall’atto processuale, la cui autosufficienza pertanto, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi (Cass., Sez. 5, sent. n. 18363 del 2015; ord. n. 12641 del 2017). D’altronde nel ricorso per cassazione il necessario requisito della sommarietà dei fatti sostanziali e processuali della vicenda, da esporre in modo sintetico, essendo funzionale alla comprensione dei motivi nonchè alla verifica dell’ammissibilità, pertinenza e fondatezza delle censure proposte, costituisce principio consolidato espresso da questa Corte anche di recente (Cass., sent. n. 10072 del 2018; Sez. U, sent. n. 11308 del 2014).

Nel caso di specie il ricorso, senza alcuna esposizione preliminare della vicenda, riproduce quasi integralmente il ricorso introduttivo (sino a pag. 10), la sentenza della commissione provinciale (sino a pag. 12), le censure e il ricorso in appello (queste in maniera sintetica sino a pag. 15), dando poi inizio ad una sorta di commento a critica libera della stessa pronuncia sino a pag. 26, con digressioni sulla pronuncia di primo grado. Solo da pag. 26 viene formulato il motivo di ricorso (sino a pag. 38). E’ evidente che la costruzione dell’atto si pone ai limiti della osservanza della sommaria esposizione dei fatti di causa prescritta dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

In ogni caso ove, estrapolando gli atti riprodotti e con una volenterosa lettura costruttiva del libero commento alla sentenza, voglia ritenersi ugualmente rispettata la sommarietà espositiva dei fatti di causa, la modalità di redazione del motivo di censura non supera comunque il giudizio di ammissibilità.

Con esso il contribuente invoca numerose leggi e norme, dolendosi contestualmente della violazione di norme di legge sostanziale, della violazione di obblighi motivazionali, e infine, invocando l’art. 112 c.p.c., della violazione dì norme processuali.

Nello specifico poi il motivo mescola valutazioni generali sulle norme invocate, critiche al procedimento accertativo messo in essere dalla Amministrazione, questioni processuali, che avevano principalmente attinto il giudizio di primo grado, con critiche dunque afferenti la sentenza del giudice provinciale, riconsiderazioni in fatto della controversia, questioni di nullità per ultrapetizione, immediatamente relazionate però alla reiterata ricostruzione della vicenda fattuale.

Nel coacervo indistinto delle violazioni la ricorrente incorre nella inammissibilità del motivo perchè, invocando più vizi dell’art. 360 c.p.c., senza distinguere specificamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto (n. 3), i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (n. 5), la prospettiva della violazione delle norme processuali (n. 4), ha operato una confusione e una sovrapposizione di censure (cfr. Cass., Sez. 2, sent. 9793/2013). D’altronde in tema di ricorso per cassazione si è affermata l’inammissibilità della mescolanza e sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa, o quale insufficiente motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, o la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Si è infatti affermato che l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridico alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass., Sez. 1, sent. n. 19443/2011). Nel caso che ci occupa peraltro nell’unico motivo si è invocata l’ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., ampliando la confusione.

Solo per mera completezza il ricorrente, concludendo, ha chiesto la cassazione della sentenza senza rinvio, senza avvedersi che in relazione al petitum invocato avrebbe conseguito la reviviscenza e la definitiva efficacia dell’originario avviso di accertamento.

Il ricorso dunque va dichiarato inammissibile.

Considerato che:

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la soccombenza del F. nelle spese processuali, nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla Agenzia, che liquida nella misura di Euro 2.300,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018

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