LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8309/2012 R.G. proposto da:
P.V.M., rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Damascelli, elettivamente domiciliata in Roma, via Giovanni Paisiello n. 15, presso lo studio dell’avv. Giovanni Bellomo.
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione n. 13, n. 69/13/11, pronunciata l’8/07/2011, depositata il 27/09/2011.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 17 luglio 2018 dal Consigliere Dott. Riccardo Guida.
FATTI DI CAUSA
P.V.M., esercente l’attività di vendita al dettaglio di carburanti (ossia di “benzinaio”), ricorre per due motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia (hinc: CTR) in epigrafe che – in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento che recuperava a tassazione, ai fini IVA, IRPEF, IRAP, ADD. COM., ADD.REG., per l’anno d’imposta 2004, maggiori redditi d’impresa non dichiarati, in applicazione dei parametri dello studio di settore – in accoglimento dell’appello dell’Ufficio, riformava la sentenza di primo grado, favorevole alla contribuente, e dichiarava legittimo l’atto impositivo.
Il giudice d’appello ha reputato legittima l’applicazione degli studi di settore e ha ritenuto non persuasiva la difesa della contribuente, secondo cui, per i continui controlli dell’Autorità, nel settore della vendita di carburanti sarebbe impossibile l’evasione fiscale; infine, ha ravvisato la carenza di motivazione della decisione di primo grado che aveva considerato irrilevante lo scostamento (pari a Euro 116.326,00) dei ricavi dichiarati rispetto a quelli presunti e la prospettata gestione antieconomica dell’attività, desumibile dalla differenza tra il reddito annuo dell’unico dipendente (Euro 13.000,00) e il reddito di impresa (Euro 9.000,00).
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Primo motivo di ricorso: “Vizio di motivazione. Omessa motivazione (esame documenti) circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62”.
Si deduce la lacuna dello sviluppo argomentativo della sentenza impugnata che non avrebbe preso in considerazione la documentazione (in particolare, la dichiarazione della Compagnia ERG riguardante l’effettiva quantità di carburanti fornita alla ricorrente), prodotta dalla parte, in fase contenziosa, atta a dimostrare l’inattendibilità delle risultanze dello studio di settore.
Sotto altro profilo, si fa valere l’insufficiente motivazione della decisione d’appello che, da un lato, non avrebbe chiarito perchè non sarebbe condivisibile l’affermazione del giudice di primo grado circa l’irrilevanza dello scostamento tra il reddito dichiarato e quello accertato presuntivamente con la procedura standardizzata; dall’altro, non avrebbe dato conto della ravvisata relazione causale tra il carattere antieconomico della gestione dell’attività e l’incoerenza dei redditi della titolare dell’attività e del dipendente.
1.1. Il motivo è infondato.
E’ ius receptum che: “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sè considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano stati disattesi. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente” (Cass. sez. un. 18/12/2009, n. 26635).
La CTR ha fatto corretta applicazione di questo principio di diritto rilevando puntualmente che, in fase amministrativa, la contribuente non aveva partecipato al contraddittorio coll’organo di controllo (cfr. pag. 2 della sentenza).
Invero: “Ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l’ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri” (Cass. 20/09/2017, n. 21778).
Del tutto generica e inconsistente si appalesa, inoltre, la tesi della ricorrente secondo cui essa avrebbe prodotto in giudizio documentazione (relativa ai carburanti acquistati), idonea a dimostrare che, in realtà, non vi era alcun scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli effettivi.
Costituiscono, invece, apprezzamenti di fatto, estranei al controllo di legittimità demandato alla Corte, le considerazioni della CTR – di per sè residuali e puramente rafforzative del condivisibile ragionamento che ha indotto il giudice d’appello a riconoscere l’operatività dell’accertamento standardizzato del reddito d’impresa mediante l’applicazione dei parametri di settori – riguardanti: l’evanescenza e la fragilità della tesi della contribuente secondo cui il settore della vendita dei carburanti sarebbe impermeabile al fenomeno dell’evasione fiscale a causa della frequenza dei controlli amministrativi; la rilevanza dello scostamento tra reddito dichiarato e reddito accertato tramite lo studio di settore; l’apparente antieconomicità dell’attività imprenditoriale desunta da ciò, che il reddito annuo del dipendente apparisse maggiore di quello della titolare dell’impresa.
2. Secondo motivo: “Violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39,comma 1, lett. d), L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1 e art. 2729 c.c., in combinato disposto. Denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), richiamato dal D.Lgs. n. 54 del 1992, art. 62”.
Un’altra censura si focalizza sulla ratio decidendi della sentenza impugnata che non avrebbe rilevato che la misura dello scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi accertati, con la procedura di accertamento standardizzato, era di poco inferiore al 15% (ricavi dichiarati: Euro 790.925,00; ricavi puntuali: Euro 907.251,00), percentuale inidonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a configurare quella “grave incongruenza”, tra i ricavi dichiarati e quelli accertati con lo studio di settore, che giustifica la ricostruzione presuntiva del reddito ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d, cit..
2.1. Il motivo è inammissibile.
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (Cass. 30/12/2015, n. 26110).
Nel caso in esame, è evidente che il rilievo rivolto alla decisione attiene alla ricostruzione della fattispecie concreta e, in particolare, al ravvisato grave scostamento tra reddito dichiarato e reddito accertato con gli studi di settore; la doglianza involge un (ipotetico) errore di fatto, censurabile come vizio del sostrato argomentativo della decisione, e, in effetti, come tale dedotto della contribuente, con il primo motivo di ricorso.
Non è, invece, consentito sollecitare la Corte ad un apprezzamento di fatto già insindacabilmente compiuto dal giudizio di merito; in disparte, per mera completezza d’analisi, la constatazione del carattere puramente assertivo della tesi della ricorrente, secondo cui una percentuale di scostamento di circa il 15%, tra reddito dichiarato e reddito accertato (per un ammontare di Euro 116.000,00), sarebbe “irrisoria” (cfr. pag. 14 del ricorso).
In precedenti pronunce (Cass. 11/07/2016, n. 22421) la Corte, scegliendo una chiave interpretativa del dato normativo (“grave incongruenza”) distonica rispetto a quella prospettata dalla ricorrente, ha avuto modo di affermare quanto segue: “Ciò precisato, osserva il Collegio che nel caso qui vagliato la differenza tra l’importo dei ricavi dichiarati dalla società contribuente (Euro 1.140.318,00) e quello risultante dall’applicazione degli studi di settore (Euro 1.237.640,00) restituisce un valore di quasi centomila Euro che integra senz’altro il requisito della grave incongruenza di cui all’art. 62 sexies più volte citato”.
3. Ne consegue il rigetto del ricorso.
4. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 17 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2018