LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –
Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –
Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15976-2015 proposto da:
M.Q., rappresentato e difeso dagli avvocati GERARDO PILECI e BILOTTA MAURO GIULIO DARIO;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO ***** s.r.l. in Liquidazione, in persona del Curatore dott. C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI PRISCILLA 4, presso lo studio dell’avvocato STEFANO COEN, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DIEGO MANENTE;
– controricorrente –
contro
B.G.C.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 152/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI –
SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 08/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/03/2018 dal Consigliere ROSSANA GIANNACCARI.
Con atto di citazione notificato il 28.6.2005 M.Q. citava in giudizio innanzi al Tribunale di Tempio Pausania la società ***** s.r.l. e B.G.C., chiedendo dichiararsi l’avvenuto acquisto per usucapione di alcuni terreni siti in agro di *****, assumendo di aver esercitato il possesso uti dominus dal 1969.
Si costituivano i convenuti, resistendo alla domanda; entrambi spiegavano domanda riconvenzionale, chiedendo il rilascio dei fondi illegittimamente occupati dal M..
Il Tribunale di Tempio Pausania, con sentenza non definitiva N.342/2010 rigettava la domanda principale ed accoglieva la domanda riconvenzionali proposta da entrambi i convenuti; con sentenza definitiva N.176/2011 condannava M.Q. al risarcimento dei danni.
La Corte d’Appello di Cagliari, Sezione Distaccata di Sassari, con sentenza del 4.4.-8.4.2014 confermava la sentenza di primo grado.
Riteneva la corte territoriale che il M. non avesse fornito la prova dell’usucapione in quanto era emerso che il predetto aveva la detenzione dei terreni in virtù di contratto d’affitto fino al 1991 e, successivamente, non vi era stato alcun atto di interversio possessionis. La corte territoriale qualificava la riconvenzionale avanzata dalla ***** e dal B. come domanda di rilascio per illegittima occupazione, escludendo fosse mai stato chiesto l’accertamento della proprietà. Dall’escussione dei testi accertava che la ***** s.r.l. avesse esercitato il possesso, recintando il terreno e confermava, pertanto, la condanna al rilascio del terreno da parte del M..
Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.Q. sulla base di quattro motivi, cui resiste con controricorso il Fallimento ***** s.r.l. in liquidazione. B.G.C. è rimasto intimato.
Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., unitamente all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e violazione dell’art. 111 Cost., per avere la corte territoriale erroneamente interpretato la domanda riconvenzionale come domanda di rilascio e non invece come domanda di rivendicazione. Secondo il ricorrente, poichè la ***** s.r.l. aveva allegato il titolo di proprietà, la domanda di restituzione era espressione del diritto dominicale e quindi della proposizione di un’azione reale e non personale, con conseguente applicazione del regime probatorio di cui all’art. 948 c.c..
Con il secondo motivo di ricorso di deduce la violazione dell’art. 183 c.p.c., anche sotto il profilo del vizio di motivazione e la violazione dell’art. 111 Cost. per avere la corte territoriale fondato la sua decisione su una domanda nuova, introdotta tardivamente con le memorie ex art. 183 c.p.c., che, nella formulazione ratione temporis applicabile, anteriore al D.L. n. 80 del 2005, consentiva l’emendatio e non la mutatio libelli. Il ricorrente deduce che con l’introduttivo la ***** s.r.l. aveva fondato la domanda di rilascio del fondo sul titolo di proprietà, e, solo tardivamente, con le memorie ex art. 183 c.p.c., aveva allegato che la detenzione del bene da parte del M. derivava da un contratto di affitto scaduto.
Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 948 c.c., per avere la corte territoriale qualificato la domanda riconvenzionale come domanda restitutoria e non come domanda di rivendica, e, conseguentemente, per non aver applicato il regime probatorio attraverso il titolo, risalendo ai propri danti causa fino ad un acquisto originario.
I motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, non sono fondati.
E’ in primo luogo erronea la deduzione della violazione dell’art. 112 c.p.c., che attiene all’omesso esame della domanda e consente alla Corte l’esame degli atti processuali, dall’ipotesi in cui si censuri l’interpretazione che della domanda ha dato il giudice del merito.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito e questa Corte deve solo effettuare il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata.(Cassazione civile, sez. 6, 21/12/2017, n. 30684; Cassazione civile, sez. lav., 24/07/2008, n. 20373; Cassazione civile, sez. 1, 07/07/2006, n. 15603) Nella specie il giudice d’appello non ha omesso l’esame della domanda di rivendica, ma, nell’ambito del potere di interpretazione, ha ritenuto che la ***** s.r.l. avesse agito per il rilascio dei terreni, svolgendo un’azione di natura personale. Ha, quindi, escluso, sulla base della domanda, che la ***** s.r.l. avesse mai chiesto l’accertamento della sua proprietà; egli aveva chiesto che fosse dichiarata l’illegittima detenzione del fondo da parte del M., con conseguente condanna al rilascio, specificando di aver acquistato il fondo libero da persone e cose, sicchè l’eventuale detenzione sulla base di un contratto d’affitto con i suoi danti causa era illegittimo, perchè risolto con formale disdetta.
Il ricorrente, contestando che nell’atto introduttivo vi fosse un riferimento alla detenzione del bene sulla base di un precedente contratto, si è limitato a riportare stralci della comparsa di costituzione, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.
Come ribadito dalle S.U. di questa Corte nella sentenza N.7305/2014, l’azione personale di restituzione è destinata a ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire una cosa che è stata in precedenza volontariamente trasmessa dall’attore al convenuto, in forza di negozi quali la locazione, il comodato, il deposito e così via, che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario. Essa si distingue dall’azione di rivendicazione, con la quale il proprietario chiede la condanna al rilascio o alla consegna nei confronti di chi dispone di fatto del bene nell’assenza anche originaria di ogni titolo. In questo caso la domanda è tipicamente di rivendicazione, poichè il suo fondamento risiede non in un rapporto obbligatorio personale inter partes, ma nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione, mediante la probatio diabolica.
All’udienza ex art. 183 c.p.c., la ***** s.r.l. ha, inoltre, precisato ed allegato l’esistenza di un contratto d’affitto, concluso dal M. con i suoi danti causa.
Non sussiste, pertanto, la violazione dell’art. 183 c.p.c., non trattandosi di nuova domanda, preclusa in sede di udienza di trattazione, ma di precisazione della domanda inizialmente introdotta, avente natura personale e non finalizzata all’accertamento della proprietà.
Anche la censura relativa al vizio motivazionale è infondata, essendo stato eliminato il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione per effetto della novella introdotta con D.L. n. 83 del 2012 convertito nella L. n. 134 del 2012, nè è ravvisabile il vizio di omessa motivazione in quanto la corte territoriale ha argomentato in relazione alla qualificazione della domanda.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 1158 e 2967 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto che il M. non avesse fornito la prova dell’usucapione.
Il motivo è infondato.
Attraverso la censura la sentenza per violazione di legge, il ricorrente propone una diversa valutazione delle risultanze delle prove testimoniali, non consentito in sede di legittimità.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese di lite che liquida in Euro 2200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge, iva e cap come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 28 marzo 2018.
Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2018