Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.25177 del 11/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6703-2016 proposto da:

V.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 27, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRA GRANATI, rappresentato e difeso dall’avvocato ROMANO SCIARRETTA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FRANCESCO DENZA 50-A, presso lo studio dell’avvocato NICOLA LAURENTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANTE GAZZARRI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1547/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 08/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/07/2018 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

RITENUTO

che:

1. V.F. ricorre, affidandosi a due motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Firenze che confermò la pronuncia del locale Tribunale con la quale era stata rigettata la domanda da lui proposta contro D.M.R. e C.G., nella rispettiva qualità di giornalista e direttore del quotidiano “*****” edizione di *****, per ottenere il risarcimento dei danni – ulteriori rispetto a quelli già riconosciuti a titolo di provvisionale in sede penale sia nei suoi confronti che in favore del ***** (da ora *****) – derivanti dal reato di diffamazione a mezzo stampa, commesso attraverso la pubblicazione, in una edizione locale del quotidiano nel *****, di un articolo in cui si affermava il coinvolgimento del partito e dei propri amministratori nella c.d. “*****”.

2. Ha resistito il controricorrente D.M..

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’erronea valutazione dei fatti da parte della Corte territoriale che, dopo aver dato atto della sussistenza dell’illecito, aveva contraddittoriamente affermato che l’unico soggetto leso doveva ritenersi il *****, valutando non correttamente il contenuto dell’articolo diffamatorio.

Con il secondo motivo, deduce altresì la violazione dell’art. 654 c.p.p. con riferimento all’efficacia del giudicato penale nel processo civile. Lamenta inoltre che la Corte territoriale aveva errato nell’affermare che non era stata data la prova del danno: assume, al riguardo, che “il reato di diffamazione a mezzo stampa è un reato particolare che va a ledere un diritto sacro ed inviolabile (art. 2 Cost.) della persona” lesivo della reputazione e valutabile in forma equitativa, previa considerazione dell’avvenuto rispetto dei criteri di verità, continenza ed interesse pubblico che nel caso di specie non erano stati osservati.

2. Tanto premesso, in disparte ogni considerazione in ordine alla totale assenza di rubricazione delle censure proposte e di riferimento specifico ai vizi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 sui quali si fonda il giudizio di legittimità, si osserva che deve essere preliminarmente affrontata la questione, rilevabile d’ufficio, relativa alla regolarità della procura speciale allegata al ricorso che, se conferita con atto separato, deve essere depositata unitamente ad esso (cfr. art. 369 c.p.c., comma 2, n 3).

Al riguardo, questa Corte ha avuto modo di chiarire che “è inammissibile il ricorso per cassazione allorquando la procura, apposta su foglio separato e materialmente congiunto al ricorso ex art. 83 c.p.c., comma 2, contenga espressioni incompatibili con la proposizione dell’impugnazione ed univocamente dirette ad attività proprie di altri giudizi e fasi processuali” (cfr. ex multis Cass. 6070/2005; Cass. 18257/2017; e, sulla stessa linea decisionale sia pur in diversa ipotesi, Cass. 1255/2018) 3. Nel caso in esame, ricorre proprio l’ipotesi sopra delineata: la procura del V. al difensore risulta, infatti, conferita su un foglio separato, privo di timbro di congiunzione con il ricorso e, pur contestuale alla data di esso, contiene, letteralmente, il riferimento “ad ogni fase e grado, anche nelle fasi dell’esecuzione, opposizione, incidentale, cautelare ed in sede di gravame”, ma nessun cenno nè a questa controversia nè al giudizio di legittimità che, come è noto, è caratterizzato dalla critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi ed è pertanto estraneo ai concetti di “grado” e di “gravame”, tipicamente riferibili alla richiesta di rivalutazione di merito della causa, consentita soltanto entro il giudizio d’appello.

A ciò consegue che le espressioni contenute nella procura allegata risultano incompatibili con la volontà consapevole del ricorrente di conferire al difensore lo speciale mandato per questo giudizio di legittimità, con conseguente violazione degli artt. 83 e 365 c.p.c..

4. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

6. Ricorrono, altresì, i presupposti per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., u.c.. Questa Corte ha recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista dalla norma testè richiamata, in relazione sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo sia alla evoluzione della fattispecie dei “danni punitivi” che ha progressivamente fatto ingresso nel nostro ordinamento.

6.1. Al riguardo, è stato affermato che “la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., commi 1 e 2 e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente (Cass. 27623/2017) e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione.

Tale pronuncia è stata preceduta da un altro fondamentale arresto secondo il quale “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poichè sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicchè non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei “risarcimenti punitivi”(Cass. SSUU 16601/2017)”: nella motivazione della sentenza richiamata l’art. 96 c.p.c., u.c, è stato inserito nell’elenco delle fattispecie rinvenibili, nel nostro sistema, con funzione di deterrenza.

6.2. In relazione a ciò, va ribadito, a mero titolo esemplificativo, che ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348 ter c.p.c., u.c., che ne esclude la invocabilità oppure, come nel caso di specie, non osservante da tutti gli incombenti processuali, anche di rilievo pubblicistico, necessari per l’ammissibilità e/o la procedibilità del giudizio di legittimità.

In tali ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, essendo non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma risolvendosi soltanto, oggettivamente, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

6.3. Nel caso in esame, il vizio della procura riscontrato, oltre a determinare la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, non è compatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia ed alla tutela dei diritti (cfr. art. 6 CEDU) e, dall’altra, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) e della necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni proposte senza l’osservanza delle norme procedurali o con gravi errori di diritto: in tale contesto questa Corte intende valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario (Cass. n. 10177 del 2015), proprio al fine di evitare la dispersione delle risorse per la giurisdizione (cfr Cass. SSUU. 12310/2015 in motivazione) e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria dei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo – rispetto alle azioni ed ai rimedi da promuovere – è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

7. Deve pertanto concludersi per la condanna del ricorrente, d’ufficio, al pagamento in favore del controricorrente, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in Euro 10.000,00, pari, all’incirca, in termini di proporzionalità (cfr. Cass. SU 16601/2017 sopra richiamata) alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore indeterminabile della causa.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8200,00 per compensi ed esborsi oltre accessori e rimborso spese forfettario nella misura di legge.

Condanna altresì il ricorrente al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., u.c., che liquida, in favore del controricorrente, in Euro 10.000,00.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile, il 18 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018

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