LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente f.f. –
Dott. MANNA Felice – Presidente di Sez. –
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –
Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10223-2018 proposto da:
C.G.C., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANNAROSA FRANCINI;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 27/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata l’1/02/2018;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del11/09/2018 dal Consigliere Dr. ANTONELLO COSENTINO;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dr.
MATERA MARCELLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato Annarosa Francini.
FATTI DI CAUSA
Il dott. C.G.C., magistrato ordinario in servizio presso il tribunale di Pisa con funzioni di giudice, ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con cui la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha irrogato nei suoi confronti la sanzione disciplinare della censura, ritenendolo responsabile dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), perchè, commettendo atti integranti la violazione di specifici precetti penali – in relazione agli artt. 582,594 e 612 c.p. – idonei a ledere l’immagine del magistrato:
a) cagionava a L.C., colpendo con un calcio la portiera dell’autovettura Opel Agila, che sbatteva contro la gamba della predetta, lesioni personali guarite entro il 20^ giorno;
b) offendeva l’onore decoro di L.C., dicendole “sei una maledetta”;
c) minacciava un ingiusto male a L.C., dicendole: “adesso te la faccio vedere io che me la paghi”.
Nel capo di incolpazione si precisa che per tali fatti, commessi *****, il procedimento penale si era definito con sentenza del giudice di pace di La Spezia di non doversi procedere per estinzione dei reati ex D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35, in quanto l’imputato aveva riparato il danno conseguente ai reati ed aveva eliminato le conseguenze dannose dei reati stessi.
La Sezione Disciplinare ha ricostruito la vicenda nei termini seguenti.
L’antefatto risale al momento in cui la signora L. percorreva, in *****, la corsia di destra della ***** (strada su cui è consentita la circolazione su due file parallele); ella si vide avvicinare, fin quasi all’urto, dalla Vespa guidata dal dottor C., che si era immesso nella corsia di sinistra della medesima *****, e suonò il clacson per attirare l’attenzione di costui. Risulta peraltro che la stessa signora L. riteneva, erroneamente, che il dottor C. si fosse immesso nel flusso della circolazione senza rispettare uno “stop” (in effetti il dottor C. aveva solo l’obbligo di dare precedenza).
Giunta a destinazione, la signora L. parcheggiò la propria automobile in una piazzetta e fu avvicinata dal dottor C..
La dinamica degli accadimenti svoltisi nella piazzetta diverge nella ricostruzione dei fatti offerte dai due soggetti della vicenda.
Secondo quanto sostenuto dalla signora L. nella querela da lei presentata, il dottor C. l’avrebbe seguita fino alla suddetta piazzetta e, quindi, mentre ella usciva dalla propria Opel (avendo già aperto la portiera ed appoggiato a terra la gamba sinistra) l’avrebbe raggiunta, avrebbe sferrato un calcio sulla portiera stessa (che, chiudendosi sulla gamba, le avrebbe prodotto una profonda ferita) e l’avrebbe apostrofata con l’espressione “sei una maledetta” e minacciata con le parole “adesso te la faccio vedere io che me la paghi”.
Secondo il dottor C., al contrario, egli non avrebbe seguito la signora L., ma sarebbe arrivato alla piazzetta prima di lei, avrebbe visto sopravvenire la Opel dopo aver parcheggiato la propria Vespa, e si sarebbe avvicinato alla Opel solamente perchè chiamato dalla medesima signora L., che inveiva contro di lui. Il dottor C. ha negato di aver sferrato alcun calcio sulla portiera della Opel, ha negato di aver proferito l’espressione “sei una maledetta” ed ha ammesso soltanto di aver detto la frase “questa me la paghi”.
La Sezione Disciplinare, dopo aver dato atto che le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza di un vicino albergo consentivano di rilevare che effettivamente il dottor C. era arrivato nel parcheggio prima della signora L. (circostanza poi da costei confermata in sede dibattimentale) e, per contro, non consentivano “di cogliere la immagine del calcio che la L. afferma essere stato sferrato dal C. contro la portiera della sua autovettura” (pag. 7, primo capoverso, della sentenza), riteneva tuttavia provata la responsabilità del dottor C. sia in relazione al fatto integrativo del delitto di minaccia (l’uso dell’espressione “questa me la paghi”), sia in relazione al fatto integrativo del delitto di lesioni personali.
Quanto al fatto integrativo del delitto di ingiuria, la Sezione Disciplinare – dopo aver affermato che la relativa depenalizzazione, disposta dal D.Lgs. n. 7 del 2016, art. 1, non rilevava ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare, essendo quest’ultimo riconducibile alla categoria degli illeciti amministrativi, in relazione ai quali non opera il principio dell’efficacia retroattiva dell’abolitio criminis fissato dall’art. 2 c.p., comma 2, ha comunque evidenziato che “nella complessiva valutazione dei fatti nessun rilievo potrebbe avere nella determinazione della sanzione il fatto che non si tenga conto della frase “sei una maledetta”, a fronte dell’intero contesto della condotta del C. e in particolare della fase che segue, “questa me la paghi”, e delle provocate lesioni alla gamba della L.” (pag. 7, terzultimo capoverso, della sentenza). L’impugnata sentenza – dopo aver sottolineato l’irrilevanza delle incongruenze nella versione dei fatti fornita dalla signora L., perchè concernenti le modalità di contorno dell’episodio e non la sostanza della condotta contestata e, comunque, ascrivibili “allo spavento causato nell’occasione alla donna, tra l’altro sicuramente insicure e fragile, come emerso anche nel corso della sua escussione in udienza” (pag. 5, ultimo capoverso, della sentenza) – pone a fondamento del giudizio di accertamento della responsabilità dell’incolpato i seguenti rilievi:
– l’avere il dottor C. versato la somma di Euro 3.000 a titolo di riparazione del danno cagionato alla L.; condotta interpretata dalla Sezione Disciplinare come “riconoscimento della sua colpa, avuto anche riguardo all’entità non del tutto irrilevante della cifra” (pag. 6, primo capoverso, della sentenza);
– l’avere il dottor C. ammesso di aver pronunciato la frase “questa me la paghi”;
– l’avere la signora L., poco dopo l’alterco con l’incolpato, ricevuto una medicazione al pronto soccorso “per un’escoriazione (tumefazione dei tessuti molli periarticolari) alla gamba sinistra giudicata guaribile in sette giorni” (pag. 6, terzo capoverso, della sentenza); al riguardo l’impugnata sentenza afferma l’irrilevanza della circostanza che la signora L. soffrisse di condropatia del ginocchio sinistro, evidenziando l’autonomia della tumefazione accertata al pronto soccorso, e sottolinea che se la lesione in questione non fosse stata cagionata dal dottor C. “l’atteggiamento dell’incolpato sarebbe stato maggiormente collaborativo, e non così indifferente all’accaduto” (pag. 6, ultimo capoverso, della sentenza).
Il ricorso per cassazione del dottor C. si articola su sette motivi.
La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 11.9.18, per la quale non sono state depositate memorie illustrative e nella quale il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso come in epigrafe.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione degli articoli 117, primo comma, Cost., e 7, p. 1, CEDU, in cui la Sezione Disciplinare sarebbe incorsa sanzionando il dottor C., in violazione del principio di retroattività della legge più favorevole, per l’illecito disciplinare costituito dall’aver commesso un fatto costituente il delitto di ingiuria, idoneo a ledere l’immagine del magistrato, nonostante che, successivamente alla commissione del fatto, tale delitto sia stato depenalizzato, dal D.Lgs. n. 7 del 2016.
Il ricorrente argomenta che le sanzioni disciplinari previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006 avrebbero natura sostanzialmente penale, alla stregua dei criteri fissati dalla Corte EDU nella sentenza Engel dell’8 giugno 1976, e, conseguentemente, che anche a tali sanzioni dovrebbe applicarsi il principio della retroattività della legge più favorevole.
Col secondo mezzo di ricorso il ricorrente solleva la questione di legittimità costituzionale, con riferimento all’art. 117 Cost. ed all’art. 7 CEDU, del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), ove interpretato nel senso che esso non preveda l’applicazione del principio di retroattività della legge più favorevole nelle ipotesi di abrogazione del reato richiamato dalla norma sanzionatoria che prevede l’illecito disciplinare.
I primi due motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente, perchè entrambi inammissibili, in quanto attinenti ad una statuizione priva di portata decisoria.
Nella sentenza gravata, infatti, si afferma espressamente, con statuizione non specificamente impugnata dal ricorrente, che la condotta ingiuriosa ascritta all’incolpato sarebbe irrilevante non solo ai fini dell’accertamento della sua responsabilità disciplinare ma anche ai fini del conseguente trattamento sanzionatorio (vedi pag. 7, terzultimo capoverso, della sentenza: “nella complessiva valutazione dei fatti nessun rilievo potrebbe avere nella determinazione della sanzione il fatto che non si tenga conto della frase “sei una maledetta”). Pertanto, quand’anche si ritenesse fondato l’assunto del ricorrente secondo cui l’illecito disciplinare compiuto commettendo il delitto di ingiuria non sarebbe sanzionabile per effetto della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice penale, egualmente non si potrebbe pervenire alla cassazione della sentenza impugnata, perchè il relativo decisum si sorregge autonomamente sull’accertamento della responsabilità disciplinare in cui l’incolpato è incorso commettendo i delitti di lesioni e di minaccia; donde la rilevate inammissibilità dei due mezzi di impugnazione.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla credibilità soggettiva della signora L. ed alla attendibilità obiettiva delle sue dichiarazioni. Il ricorrente evidenzia le contraddizioni in cui costei sarebbe incorsa sia nella ricostruzione dell’antefatto, laddove ha sostenuto che il dott. C. avrebbe violato un obbligo di “stop” (pacificamente insussistente) e l’avrebbe successivamente seguita fìno alla piazzetta in cui entrambi veicoli si fermarono (risultando dalle videoregistrazioni che il dott. C. precedette, e non seguì, la signora L. fino alla suddetta piazzetta); sia nella ricostruzione del fatto, laddove ha sostenuto che il calcio sferrato dall’ incolpato sulla portiera della Opel avrebbe lasciato lo stampo della scarpa sulla lamiera, pur non avendo segnalato nè documentato alcun danneggiamento alla carrozzeria della propria vettura in sede di costituzione di parte civile nel giudizio penale.
Il quarto motivo di ricorso denuncia il travisamento della prova con riguardo alla registrazione video avente ad oggetto i fatti di cui all’incolpazione, nonchè la contraddittorietà della motivazione in ordine alla sussistenza del contestato fatto di lesioni. Il ricorrente deduce che dalla videoregistrazione risulterebbe che il dottor C. parlava con la signora L. in una posizione, in rapporto all’automobile, incompatibile con repentino atto di colpire con un calcio la portiera della Opel e che, peraltro, nel momento successivo a quello in cui sarebbe stato inferto il calcio alla portiera, la signora L. non mostrava alcun atteggiamento sintomatico di una percezione di dolore. Ad avviso del ricorrente, l’assunto della Sezione Disciplinare secondo cui la videoregistrazione avrebbe “carattere neutro, ai fini della prova del fatto contestato” (pag. 7, primo capoverso, della sentenza) traviserebbe la prova positiva e diretta, emergente da tale videoregistrazione, dell’insussistenza del fatto addebitato al dottor C.. Sotto altro aspetto, il ricorrente lamenta l’illogicità dell’argomento speso dell’impugnata sentenza secondo cui l’atteggiamento dell’incolpato sarebbe stato maggiormente collaborativo con la signora L. se egli fosse stato estraneo alla causazione della lesione alla gamba.
Il quinto motivo di ricorso denuncia la illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla valutazione probatoria della condotta riparatoria tenuto dall’incolpato dall’ambito del procedimento penale. Nel mezzo di impugnazione si argomenta che la pretesa della Sezione Disciplinare di assimilare la condotta riparatoria tenuta dal dottor C. nelle circostanze del processo penale ad una sostanziale ammissione di colpevolezza, capace di dispiegare i propri effetti nell’autonomo contesto del procedimento disciplinare, risulterebbe manifestamente viziata dall’erroneo presupposto interpretativo in ordine ai requisiti alle funzioni dell’istituto disciplinato dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35. Al riguardo il ricorrente sostiene che a detto istituto risulterebbe del tutto estraneo il riconoscimento di colpa a cui ha fatto riferimento il giudice disciplinare e che, sotto altro aspetto, l’argomentazione della sentenza impugnata finisce coll’ampliare indebitamente il catalogo dei provvedimenti penali dotati di efficacia nel procedimento disciplinare ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20.
I motivi terzo, quarto e quinto – tutti rubricati con riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), – vanno trattati congiuntamente, perchè tutti e tre criticano l’accertamento di fatto operato dalla Sezione Disciplinare in ordine alla dinamica dei fatti di causa, contestando la tenuta logico-argomentativa di tale accertamento sotto tre diversi, ma convergenti, profili, rispettivamente concernenti l’eccessiva attendibilità attribuita alle dichiarazioni della signora L., la sottovalutazione delle risultanze emergenti dalla videoregistrazione, la sostanziale equiparazione della riparazione del danno ad una ammissione di responsabilità.
Tali motivi non possono trovare accoglimento, perchè in sostanza si risolvono in una censura dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato dalla Sezione Disciplinare nell’esercizio dei poteri di accertamento del fatto che compete al giudice di merito.
Deve quindi farsi qui applicazione del principio, più volte affermato da questa Sezione Unite, che il ricorso avverso le decisioni della Sezione Disciplinare non può essere rivolto ad un riesame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte della sezione stessa e che la Corte di cassazione deve limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza e logicità della motivazione che sorregge la decisione (v., tra le altre, le sentenze nn. 7505/04, 13904/04, 20133/04, 18451/05, 27689/05, 10313/2006, 27172/06, 1821/07, 2685/07, 25815/07, 28813/11).
Nella specie, la motivazione della sentenza gravata si sottrae alle censure di illogicità proposte dal ricorrente, perchè dà conto della ratio decidendi con il riferimento ad una serie di convergenti circostanze di fatto che la Sezione Disciplinare ha valutato non isolatamente, ma – correttamente – nel loro complesso, quali:
a) l’intervenuta riparazione del danno, con un esborso da parte dell’incolpato espressamente valutato dalla Sezione Disciplinare come “non del tutto irrilevante”(pag. 6, primo capoverso, della sentenza gravata);
b) l’ammissione dell’incolpato di aver proferito la frase “questa me la paghi”;
c) la certificazione medica di pronto soccorso rilasciata alla signora L. lo stesso giorno *****, attestante una “tumefazione dei tessuti molli periarticolari”, che la Sezione Disciplinare espressamente giudica “indipendente dalle patologie pregresse di cui soffriva la L., a causa delle quali aveva ricevuto il riconoscimento di invalidità e che comprendevano pure, come rilevato dalla difesa, la condropatia del ginocchio sinistro” (pag. 6, penultimo capoverso, della sentenza gravata);
l’atteggiamento indifferente e non collaborativo mostrato dal dottor C. al momento della verificazione della lesione, espressamente valutato, nell’impugnata sentenza, come incompatibile con l’ipotesi di una lesione non provocata dal medesimo dottor C..
In definitiva, í mezzi di impugnazione in esame prospettano una ricostruzione dei fatti di causa alternativa a quella fatta propria dalla giudice di merito; quest’ultimo, tuttavia, perviene all’esito decisorio censurato dal ricorrente sulla scorta di una motivazione nè insufficiente, nè illogica, la quale, pertanto, resiste all’impugnazione. Come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di chiarire, infatti, il controllo sulla motivazione della sentenza di merito previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) non comprende la possibilità di censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui risultano inammissibili tutte le doglianze che contestano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità, quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr. Cass. Pen. 13809/15).
Con specifico riferimento al quinto motivo di impugnazione, è infine necessario dissipare l’equivoco che pare sotteso all’affermazione contenuta a pagina 31, terzo capoverso, del ricorso, laddove si legge: “la pretesa di assimilare la condotta riparatoria, tenuta dal dott. C. nelle circostanze del processo penale, ad una sostanziale ammissione di colpevolezza o, più esattamente, ad una confessione stragiudiziale, capace di dispiegare i suoi effetti nell’autonomo contesto del procedimento disciplinare, risulta manifestamente viziata da un erroneo presupposto interpretativo in ordine ai requisiti e alla funzione dell’istituto disciplinato dal D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35”. La Sezione Disciplinare, contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, non ha sostenuto che la condotta riparatoria tenuta dall’imputato ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35 produrrebbe effetti giuridici equivalenti all’ammissione, o addirittura alla confessione, del fatto addebitato; nè, tanto meno, ha sostenuto che la sentenza di non doversi procedere adottata dal giudice di pace ai sensi della suddetta disposizione avrebbe una “generica valenza di giudicato circa le asserite condotte commesse dall’imputato” (così a pag. 33, ultimo capoverso, del ricorso per cassazione). L’impugnata sentenza, al contrario – lungi dall’affrontare il tema degli effetti giuridici extra penali della condotta riparatoria tenuta dall’imputato ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35 o il tema della efficacia extra penale del giudicato formatosi sulla sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato emessa dal giudice di pace per effetto della suddetta condotta riparatoria – si è limitata ad una valutazione di mero fatto; la condotta riparatoria tenuta dal dottor C. è stata, cioè, apprezzata dalla Sezione Disciplinare su un piano esclusivamente fenomenico, quale argomento indiziario (fondamentalmente basato su un canone di esperienza, tratto dall’id quod plerumque accidit) idoneo, insieme ad altri, a sorreggere la prova logica della commissione dei fatti addebitati all’incolpato.
Con il sesto motivo di ricorso si denuncia la erronea applicazione dell’art. 612 c.p. in cui la Sezione Disciplinare sarebbe incorsa ascrivendo efficacia di minaccia all’espressione “questa me la paghi”, rivolta dall’incolpato la signora L., senza contestualizzarne la portata e senza vagliarne l’effettiva attitudine intimidatoria, anche alla luce del rilievo, pacifico in causa, che il dottor C. non aveva in alcun modo esplicitato la propria qualifica di magistrato.
Il motivo va giudicato infondato, perchè l’apprezzamento in ordine alla valenza minacciosa della frase “questa me la paghi” costituisce giudizio di fatto che compete alla Sezione Disciplinare, la quale ha motivato in ordine alle ragioni del proprio convincimento.
Va peraltro richiamato il principio, già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, ai fini dell’integrazione del delitto di minaccia, non è necessario che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito, essendo semplicemente sufficiente che la condotta posta in essere dall’agente sia potenzialmente idonea ad incidere sulla libertà morale del soggetto passivo (cfr. Cass. Pen. n. 44128/16; conf. Cass. Pen. n. 46528/08; si veda anche, Cass. Pen. n. 22710/17, in motivazione).
Il reato di minaccia è, infatti, reato di pericolo, che non presuppone la concreta intimidazione della persona offesa, ma solo la comprovata idoneità della condotta ad intimidirla (Cass. Pen. n. 47739/08). Detto altrimenti, non è richiesto che il bene tutelato sia realmente leso mediante l’induzione di timore nella vittima, essendo invece sufficiente che i(male prospettato sia idoneo a incutere timore nel soggetto passivo, menomandone, per ciò solo, la sfera della libertà morale (Cass. Pen. n. 14628/1999). Non pertinente risulta poi il richiamo del ricorrente al precedente di Cass. Pen. 25080/16, perchè, nel caso esaminato da tale precedente, l’intrinseca attítudíne offensiva della condotta (la formulazione della frase “vieni fuori che facciamo pugni”) era stata esclusa sul rilievo di una circostanza di fatto (che tale frase era stata pronunciata da un ottantaquattrenne ad un uomo di vent’anni più giovane) di per se stessa idonea ad escludere l’insorgenza dí qualunque effettivo di timore nella vittima; laddove, come già evidenziato, nel mezzo di impugnazione in esame non si indica alcuna circostanza di fatto capace, nella concreta dinamica della vicenda, di inibire l’effetto di intimidazione strutturalmente connesso all’affermazione “questa me la paghi”.
Con il settimo motivo di ricorso si denuncia la erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis in cui la Sezione Disciplinare sarebbe incorsa negando la scarsa rilevanza del fatto.
Il ricorrente lamenta che il giudice disciplinare abbia valorizzato esclusivamente i riflessi mediatici della vicenda che ha coinvolto l’incolpato, senza considerare le modalità oggettive della condotta, il contesto in cui la stessa sì inseriva, il grado di partecipazione soggettiva dell’agente e il comportamento processuale da lui tenuto.
Nel mezzo di gravame, infine, si deduce l’erroneità dell’affermazione della impugnata sentenza secondo la quale l’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis non sarebbe applicabile alle ipotesi di illecito disciplinare conseguente a reato.
Il settimo motivo va disatteso, ancorchè la motivazione della sentenza gravata vada corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..
Osserva al riguardo il Collegio che la statuizione che ha negato l’applicazione, nella specie, dell’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis si fonda su due autonome ragioni, vale a dire:
1) sul rilievo che “non è revocabile indubbio che la vicenda de qua abbia compromesso l’immagine del dottor C., oltre che il prestigio di cui deve necessariamente godere la magistratura, ove si consideri che della vicenda stessa si è occupata anche la stampa locale” (pag. 8 della sentenza);
2) sul rilievo che l’esimente di cui il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis non sarebbe applicabile alle ipotesi di illecito disciplinare conseguente a reato previste dal D.Lgs. cit., art. 4.
La seconda ratio decidendi non è conforme a diritto. Essa trova, in effetti, riscontro in taluni precedenti di queste Sezioni Unite, che hanno valorizzato il rilievo che l’esimente di cui il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis si riferisce alle condotte previste nelle disposizioni generali (sentt. nn. 16541/08, 7934/13, 14889/10); ma questo orientamento si è formato prima della entrata in vigore dell’art. 131-bis c.p., introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, il quale, sotto la rubrica “Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”, dispone, al comma 1, che “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale”, prevedendo poi, nei commi successivi, ipotesi nelle quali non può essere ravvisata la particolare tenuità del fatto e specificando cosa sia, ai fini del primo comma, il comportamento abituale.
Si tratta, come queste Sezioni Unite hanno avuto modo di precisare nella sentenza n. 18987/17, di modificazione normativa che certamente spiega efficacia sul piano della interpretazione sistematica del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis e art. 4, comma 1, lett. d).
L’art. 3 bis – ispirato ad un criterio di ragionevolezza e di proporzione, in un sistema che prevede un regime di stretta tipizzazione degli illeciti – ha infatti introdotto nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell’illecito va comunque riscontrata alla luce della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post (Cass., S.U., n. 14800 del 2016, e sentenze ivi richiamate). Si tratta di disposizione che tende ad attenuare la rigidità di quella tipizzazione: in riferimento a tutte le ipotesi previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 2 e 3, la condotta, pur astrattamente rientrante in una delle fattispecie astratte colà individuate, costituisce, in concreto, fatto disciplinarmente rilevante soltanto se supera la soglia della non scarsa rilevanza (Sez. Un., 31 maggio 2016, n. 11372).
Ciò posto è inevitabile concludere – come si conclude nella menzionata sentenza n. 18987/17, alla quale il Collegio intende dare conferma e seguito – che, una volta che la offensività di un fatto reato possa, nel concorso delle circostanze descritte dall’art. 131-bis c.p., essere in concreto esclusa, non può più in alcun modo predicarsi la preclusione della operatività della disposizione che nell’ordinamento disciplinare della magistratura può consentire di non configurare come illecito disciplinare un fatto di scarsa rilevanza, per il caso in cui il fatto disciplinarmente rilevante sia costituito dalla commissione di un reato (anche se lo stesso sia estinto o l’azione penale non possa essere iniziata o proseguita).
Tanto precisato, va comunque rilevato che la prima ratio decidendi resiste alla critica portata con il settimo mezzo di impugnazione, giacchè tale critica si risolve, in definitiva, nella censura di un apprezzamento di fatto – sulla rilevanza dell’illecito – che rientra delle prerogative del giudice di merito e che risulta sorretto da motivazione sufficiente ed immune a vizi logici. Queste sezioni Unite hanno infatti più volte affermato che la valutazione di scarsa rilevanza del fatto ex D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis costituisce compito esclusivo della Sezione Disciplinare ed è soggetta al sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (SS.UU 7934/13, SS.UU 14800/16).
Il ricorso va quindi rigettato.
Non vi è luogo a regolazione di spese, nè – ratione materiae – al raddoppio del contributo unificato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2018
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