Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.25367 del 12/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10218-2015 proposto da:

MINISTERO DIFESA *****, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

F.M., B.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 135, presso lo studio dell’avvocato COSENZ GIOVANNA, rappresentati e difesi dall’avvocato NOTARO MATTEO giusta procura in calce al controricorso;

e contro

B.E., B.F., B.R., F.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 720/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

FATTI DI CAUSA

1. Il Ministero della Difesa ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano n. 720/15, del 26 gennaio 2015, che – rigettando il gravame dallo stesso esperito contro la sentenza del Tribunale di Milano n. 4730/11 – ha confermato la condanna dell’odierno ricorrente al pagamento, in favore di B.A. e F.M., nonchè di B.E., F. e R., al risarcimento dei danni da costoro subiti in conseguenza del sinistro in cui rimase coinvolto B.G. (rispettivamente figlio dei primi due e fratello degli altri tre), mentre viaggiava a bordo di un mezzo condotto da F.G., dipendente del suddetto Ministero.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente Ministero di essere stato convenuto in giudizio, dai predetti congiunti di B.G., innanzi al Tribunale meneghino, il quale – istruita la causa anche attraverso il licenziamento di duplice CTU – riconosceva ai soli B.A., F.M. e B.F. (in assenza di prova per le altre parti attrici) il risarcimento del danno biologico “psichico”, conseguente alle gravissime lesioni personali riportate dal proprio congiunto all’esito del sinistro occorsogli il 25 dicembre 2000, danno che stimava in Euro 20.000,00, per il primo, in Euro 35.000,00, per la seconda e Euro 7.200,00, per il terzo. L’adito Tribunale, poi, in ragione della “irrimediabile compromissione della vita familiare e dei rapporti parentali” risarciva a ciascuno degli attori il “danno morale”, peraltro “differenziando la posizione dei genitori da quella dei fratelli del macroleso”, e dunque liquidando, solo in favore dei primi, la somma di Euro 200.000,00 cadauno, accordando, invece, il diverso importo di Euro 50.000,00 a ciascuno dei germani.

Proposto appello dal Ministero, che assumeva la “erronea quantificazione dei danni operata dalla sentenza”, la Corte milanese lo rigettava.

3. Avverso la decisione della Corte di Appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione il Ministero, sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi del n. 3) del comma 1 dell’art. 360 cod. proc. civ. – è dedotta “violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ.”.

Si censura la decisione della Corte meneghina per “avere in sostanza ritenuto non esaminabile, e quindi di fatto inammissibile, l’impugnazione proposta dal Ministero”, ritenendo – erroneamente privi di specificità i motivi di gravame proposti.

3.2. Il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), – deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 cod. proc. civ.”, nonchè “omessa pronuncia sui motivi di appello”, dolendosi, in particolare, il Ministero del fatto che il riferimento, da esso compiuto nel proprio atto di gravame, al D.P.R. 22 aprile 2009, n. 37 (che fissa, per i danni patiti dal personale impiegato nelle missioni militari all’estero, il criterio per la liquidazione del danno morale nella misura di 2/3 del valore percentuale del danno biologico), era stato formulato a titolo di esempio.

Il gravame, infatti, si incentrava sulla “quantificazione del danno morale operata in maniera svincolata dal calcolo del danno biologico”, aspetto sul quale il giudice di appello avrebbe omesso di pronunciarsi.

3.2. Il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1259 c.c. (recte: art. 2059)”, ed in particolare “errata quantificazione del danno non patrimoniale del tutto svincolato dalla quantificazione del danno biologico, così come quantificato dal CTU”.

Escluso, infatti, che la lesione di diritti inviolabili determini, di per sè, la sussistenza di un danno non patrimoniale, il ricorrente assume che il danno morale – stante l’unitarietà del danno risarcibile a norma dell’art. 2059 cod. civ. – vada liquidato come forma di personalizzazione del danno biologico.

4. Hanno resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, B.A. e F.M., chiedendone la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, il rigetto.

Evidenziano, in primo luogo, i controricorrenti – con riferimento al primo motivo di ricorso – che il Ministero della Difesa, in sede di appello, non ebbe in alcun modo a censurare “alcune proposizioni contenute nella sentenza di primo grado, da sole idonee a giustificare tale pronuncia” (o meglio, l’attribuzione, in favore di tutti i congiunti di B.G., di un ulteriore voce di danno non patrimoniale, accanto a quello alla salute psichica, riconosciuto in favore dei soli genitori del macroleso e al di lui fratello Francesco), ed in particolare l’accertata “irrimediabile compromissione della vita familiare e dei rapporti parentali”. L’allora appellante, infatti, ebbe ad incentrare il suo gravame unicamente sul fatto che la liquidazione di tale ulteriore voce di danno “sarebbe stato determinato in modo svincolato rispetto al danno biologico clinicamente accertato”, senza prendere posizione “rispetto a tutte le rationes decidendi evincibili dalla sentenza di primo grado”, in tal senso, dunque, dovendosi intendere – e non come rilievo di violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. – il riferimento, contenuto nella sentenza di appello, all’assenza di una “critica specifica” delle decisione del primo giudice.

Quanto, invece, agli altri due motivi di ricorso, i controricorrenti non senza eccepirne, con riferimento in particolare al secondo, il carattere “contraddittorio e perplesso” (per eterogeneità delle censure, giacchè formulate, indistintamente, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3, 4 e 5) – sottolineano come la duplice, conforme, decisione di merito si allinei al principio enunciato da questa Corte secondo cui, in caso di danni subiti dai congiunti della vittima primaria di un illecito, il risarcimento deve tener conto non solo dell’eventuale pregiudizio recato alla loro integrità psico-fisica, ma anche di quello morale e da cd. “lesione del rapporto parentale”.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso non può essere accolto.

6.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato, al pari del secondo, che è, peraltro, anche in parte inammissibile.

6.1.1. Quanto ad essi, tuttavia, deve preliminarmente rigettarsi l’eccezione di inammissibilità, formulata dalla parte controricorrente sull’assunto dell’eterogeneità delle censure in cui i medesimi si sostanziano.

Invero, “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).

6.1.2. Ciò detto, i due motivi qui in esame si scindono, appunto, in censure diverse, le prime due delle quali sono suscettibili di trattazione congiunta, nella parte in cui ipotizzano che la Corte milanese – nel ritenere inammissibile (erroneamente, a dire del ricorrente) il proposto gravame, per difetto di specificità dei motivi avrebbe omesso di pronunciarsi su di essi, donde l’ipotizzata violazione, in particolare, degli artt. 342 e 112 cod. proc. civ..

L’assunto del Ministero è, tuttavia, destituito di fondamento, giacchè il giudice di appello – come hanno esattamente osservato i controricorrenti – non ha affatto dichiarato inammissibile, per genericità, l’esperito gravame, ma lo ha respinto, esaminandolo nel merito. La sentenza oggi impugnata, infatti, ha affermato che “a fronte di una motivata e differenziatamente articolata quantificazione del danno relativamente a ciascuna delle persone degli attori”, operata dal Tribunale (avendo esso riconosciuto, per taluni di essi, l’esistenza di un danno alla salute e, invece, per tutti, il danno “morale”, da lesione del rapporto parentale), l’appellante, lungi dal sottoporre a “critica specifica” tale asserzione, si è doluto della natura “sproporzionata e immotivata” della liquidazione, in particolare, del danno “morale”, evenienza che si sarebbe evitata “se si fosse seguito il criterio di cui al D.P.R. n. 37 del 2009”, criterio ritenuto, però, non applicabile dalla Corte meneghina perchè concernente i soli danni a “personale impiegato nelle missioni militari all’estero” (evenienza, nella specie, non ricorrente).

Orbene, siffatti rilevi escludono non solo che il ricorso sia stato dichiarato inammissibile, ma evidenziano come alcun vizio di “omessa pronuncia” (con conseguente violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dedotta a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) sia ipotizzabile nel caso di specie, visto che esso è ravvisabile solo “ove manchi qualsivoglia statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte, così dando luogo alla inesistenza di una decisione sul punto della controversia, per la mancanza di un provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 23 marzo 2017, n. 7472, Rv. 644826-03).

6.1.3. Inammissibile è, invece, il secondo motivo di ricorso, nella parte in cui ipotizza violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ..

Si tratta, infatti, di censura non correlata ad alcuna specifica statuizione della sentenza impugnata, sicchè trova, nella specie, applicazione il principio secondo cui “il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4)” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, n. 17330, Rv. 636872-01).

6.2. Infine, il terzo motivo di ricorso non è fondato.

Non coglie nel segno, infatti, l’affermazione del ricorrente secondo cui il danno “morale” (o meglio, “consistente nella conseguenze pregiudizievoli sul rapporto parentale”; cfr., ex multis, Cass. Sez. 3, sent. 14 giugno 2016, n. 12146, Rv. 640287-01), patito dai congiunti della vittima primaria dell’illecito, deve essere liquidato come forma di “personalizzazione” del danno biologico dagli stessi subito, o meglio correlandolo ad esso in termini frazionistici o percentuali.

Sul punto va evidenziato che, già da tempo, questa Corte ha chiarito che, “in tema di risarcimento del danno ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali”, spetta a costoro “anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva della vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 cod. civ., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso” (Cass. Sez. 3, sent. 3 aprile 2008, n. 8546, Rv. 602633-01).

Quanto, poi, alla sue modalità di liquidazione, questa Corte ha chiarito che tale danno, “pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari del danno biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato a parte, con criterio equitativo che tenga debito conto di tutte le circostanze del caso concreto”, sicchè è “errata la liquidazione di tale pregiudizio in misura pari ad una frazione dell’importo liquidato a titolo di danno biologico, perchè tale criterio non rende evidente e controllabile l’iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, nè permette di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo” (Cass. Sez. 3, sent. 16 febbraio 2012, n. 2228, Rv. 621460-01).

Una conclusione, questa che si impone, in ragione della “differenza ontologica esistente tra di essi, corrispondendo, infatti, tali danni a due momenti essenziali della sofferenza dell’individuo, il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana” (Cass. Sez. 3, sent. 3 ottobre 2013, n. 22585, Rv. 628153-01).

Si tratta di principi ancora di recente meglio precisati da questa Corte, secondo cui in “tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti” (e tale è certamente quello in esame, alla stregua di quanto previsto dagli artt. 29 e 30 Cost., nonchè – mercè la norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 CEDU – dallo stesso art. 117 Cost., comma 1), “il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo “in pejus” con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti” (Cass. Sez. 3, sent. 17 gennaio 2018, n. 901, Rv. 64712502).

7. Le spese del presente giudizio vanno poste a carico del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.

8. Non sussiste a carico del Ministero ricorrente, rimasto soccombente, l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, poichè questa norma non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 29 gennaio 2016, n. 1778, Rv. 638714-01).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condannando il Ministero della Difesa a B.A. e F.M. a rifondere le spese del presente giudizio, che liquida – complessivamente, per entrambi – in Euro 7.800,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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