LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. PERRINO A. M. – Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –
Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –
Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA Maria G. – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 28038 del ruolo generale dell’anno 2015 R.G. proposto da:
Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del direttore generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui Uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, è domiciliata;
– ricorrente –
contro
Puma Italia s.r.l., in persona dell’amministratore delegato e legale rappresentante pro tempore, Cad Alicargo s.r.l., in persona del presidente e legale rappresentante pro tempore, Cad B.
s.r.l., in persona dell’amministratore unico e legale rappresentante pro tempore, Alicargo s.r.l., in persona del presidente e legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difese dagli avv.ti Sara Armella e Marina Milli per procura speciale a margine del controricorso, elettivamente domiciliate presso lo studio dell’avv. Marini Milli in Roma, via Marianna Dionigi n. 29;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia n. 1973/7/2015, depositata in data 11 maggio 2015;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 gennaio 2018 dal Consigliere Dott. Giancarlo Triscari;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale dott.ssa ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità e, in subordine, per il rigetto del ricorso;
uditi per l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli l’Avvocato dello Stato Caputi Iambrenghi e per la società l’avv. Sara Armella.
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ricorre con quattro motivi per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia indicata in epigrafe con la quale è stato accolto l’appello proposto dalla società Puma Italia s.r.l., quale soggetto importatore, nonchè dalle società Cad Alicargo s.r.l., Cad B. s.r.l., e Alicargo s.r.l., quali spedizionieri e dichiaranti in dogana, e ritenuta la illegittimità degli avvisi di rettifica e contestuali atti di irrogazione di sanzioni ad esse notificati.
Il giudice di appello ha premesso, in punto di fatto, che: con gli atti impugnati l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in relazione a dichiarazioni doganali effettuate nell’anno 2010, aveva accertato la mancata inclusione, nella base imponibile dei prodotti importati dalla Puma Italia s.r.l., dei corrispettivi per diritti di licenza nella misura del 7,5% sugli importi netti fatturati che quest’ultima versava alla società Puma Ag per effetto del contratto di licenza da esse stipulato; la Commissione tributaria provinciale di Varese aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere relativamente a due avvisi di rettifica impugnati e rigettato per il resto i ricorsi riuniti, ritenendo, fra l’altro, che dall’esame della documentazione poteva evincersi che Puma Ag aveva il controllo esclusivo dei fornitori, imponendo, di fatto, ai licenziatari di avvalersi delle prestazioni della World Cat; avverso la suddetta pronuncia avevano proposto appello le società Puma Italia s.r.l., Cad Alicargo s.r.I., Cad B. s.r.l., e Alicargo s.r.l., deducendo l’erroneità della decisione del giudice di primo grado rilevando, fra l’altro, che non sussistevano le condizioni richieste dalla normativa doganale per l’inclusione del valore dei servizi resi da Puma Ag a Puma Italia s.r.l. nel prezzo di acquisto, sia in quanto i corrispettivi dovuti da Puma Italia s.r.l. a Puma Ag non costituivano diritti di licenza ma ripartizione di costi generali per una serie di servizi resi da quest’ultima, sia in quanto nella fattispecie il pagamento dei diritti di licenza non poteva essere considerato, come invece richiesto dalla normativa di riferimento, condizione del contratto di vendita.
Il giudice di secondo grado, in riforma della decisione del giudice di primo grado, ha accolto l’appello, ritenendo che, assorbite le questioni dedotte in via preliminare dagli intermediari Cad Alicargo s.r.l., Cad B. s.r.l. e Alicargo s.r.l. sulla illegittima attribuzione nei loro confronti della responsabilità solidale, i diritti di licenza corrisposti da Puma Italia s.r.l. a Puma Ag, tenuto conto della normativa di riferimento, non dovevano essere ricompresi nel valore dichiarato in dogana al momento della introduzione della merce nel territorio nazionale, in quanto il bene oggetto della importazione non era il frutto di una attività creativa dello stesso produttore ovvero dell’utilizzo da parte di questi di una licenza allo stesso rilasciata da un terzo, quanto, piuttosto, la mera esecuzione di un ordine di realizzare prodotti conformi a modelli forniti dallo stesso committente a sua volta autorizzato dal titolare del diritto. Il giudice di appello precisava che sulla medesima questione, relativa ad altra annualità, aveva avuto modo di pronunciare con la sentenza n. 1161 del 30 gennaio 2014, alle cui motivazioni si riportava.
Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli affidato a quattro motivi di censura.
Le società Puma Italia s.r.I., Cad Alicargo s.r.I., Cad B. s.r.l. e Alicargo s.r.l. hanno proposto controricorso e ricorso incidentale. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale.
Le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va preliminarmente respinta l’eccezione d’inammissibilità che la società in controricorso riferisce all’intero ricorso in base alla considerazione che l’Agenzia tenderebbe ad ottenere una nuova valutazione dei rapporti giuridici dedotti e richiedendo, quindi, in questo giudizio di legittimità, un nuovo giudizio sul merito delle questioni prospettate.
In realtà, parte ricorrente non ha contestato la ricostruzione dei fatti offerta in sentenza ma la corretta identificazione delle nozioni giuridiche (soprattutto di quelle di “condizioni di vendita” e di “legame” fra le parti), che delineano la portata precettiva delle disposizioni unionali applicate. L’inquadramento dei fatti accertati dal giudice di merito nello schema legale corrispondente si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può, di conseguenza, formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità, sia per quel che concerne la descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni, sul piano degli effetti, conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (in termini, Cass., ord. 5 dicembre 2017, n. 29111).
Pertanto, parte ricorrente ha censurato la sussunzione dei fatti come accertati nelle disposizioni di riferimento, in quanto sostiene che la fattispecie concreta è stata giudicata applicando non correttamente le previsioni normative di riferimento sicchè ha denunciato la violazione e falsa applicazione delle norme di seguito indicate, unitamente alla censura in ordine alla forza qualificante dei fatti accertati.
2. Con il primo motivo di ricorso principale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 136, per avere motivato facendo mero rinvio ad altra sentenza della medesima Commissione tributaria regionale che, peraltro, rinviava a sua volta ad altra decisione emessa per una controversia instaurata tra la società Puma Italia s.r.l. ed altro ufficio doganale, in relazione ad altri atti impositivi.
Il motivo è infondato.
Questa Suprema Corte ha più volte espresso il consolidato principio Secondo cui la sentenza di merito può essere motivata mediante rinvio ad altro precedente dello stesso ufficio, in quanto il riferimento ai “precedenti conformi” contenuto nell’art. 118 disp. att. c.p.c. non deve intendersi limitato ai precedenti di legittimità, ma si estende anche a quelli di merito, ricercandosi per tale via il beneficio di schemi decisionali già compiuti per casi identici o per la risoluzione di identiche questioni, nell’ambito di un più ampio disegno di riduzione dei tempi del processo civile; in tal caso, la motivazione del precedente costituisce parte integrante della decisione, sicchè la parte che intenda impugnarla ha l’onere di compiere una precisa analisi anche delle argomentazioni che vi sono inserite mediante l’operazione inclusiva del precedente, alla stregua dei requisiti di specificità propri di ciascun modello di gravame, previo esame preliminare della sovrapponibilità del caso richiamato alla fattispecie in discussione (Cass. civ, 6 settembre 2016, n. 17640).
Si è, inoltre, precisato che nel processo tributario, la motivazione di una sentenza può essere redatta “per relationem” rispetto ad altra sentenza non ancora passata in giudicato, purchè resti “autosufficiente”, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa, anche se connessa, causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico – giuridica. La sentenza è, invece, nulla, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, qualora si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, pertanto, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. civ. 8 gennaio 2015, n. 107).
Nella fattispecie, il giudice di appello ha precisato che le motivazioni della sentenza n. 1161 del 30 gennaio 2014, dalla stessa pronunciata, riguardava una questione sovrapponibile a quella in esame ed era relativa ad altra annualità, ed ha precisato, che non vi erano ragioni per mutare orientamento e che la suddetta motivazione dava conto delle ragioni per le quali gli appelli dovevano essere accolti, provvedendo, inoltre, alla testuale riproduzione del testo integrale della pronuncia, illustrando, specificamente, in tal modo, il completo percorso argomentativo seguito.
La circostanza dedotta dalla ricorrente che la controversia in esame era diversa da quella oggetto della pronuncia richiamata, risulta solo genericamente prospettata e, in ogni caso, si scontra con il contenuto della motivazione riportata, chiaramente riferibile ai fatti di causa oggetto di impugnazione.
3. Con il secondo motivo di ricorso principale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 29 e 32 del Regolamento Cee 2913/1992, degli artt. 157,160 e 143 del Regolamento Cee 2454/1993 nonchè degli artt. 1362 c.c. e ss. e dei principi di ermeneutica contrattuale.
In particolare, con il primo profilo del motivo in esame si lamenta che il giudice di secondo grado ha pronunciato senza tenere conto dei riscontri documentali procedendo ad una non corretta ricostruzione fattuale relativa alla configurazione dei pagamenti come diritti di licenza, ai rapporti economici e giuridici intercorsi tra i soggetti intervenuti nella operazione economica in esame; con l’ulteriore profilo del medesimo motivo si lamenta che erroneamente la pronuncia ha negato la legittima e corretta inclusione nel valore delle merci in dogana dei compensi corrisposti dalla società Puma italia s.r.l. alla società Puma Ag, essendo invece gli stessi da considerarsi condizioni della vendita e da considerarsi distinti dal corrispettivo per altri servizi erogati dalla licenziante.
Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per ulteriore violazione dell’art. 157 c.p.c., comma 2, del Regolamento Cee 2454/1993, avendo ritenuto che non vi sarebbe alcun legame oggettivo tra le importazioni e le royalties in quanto queste sarebbero corrisposte sulle vendite nette.
3.1 I motivi, che possono essere esaminati unitariamente, sono fondati, per quanto di ragione.
Con riferimento al primo profilo censurato con secondo motivo di ricorso principale, lo stesso è inammissibile.
A tal proposito, va tenuto conto del principio secondo cui, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), bensì un errore di valutazione dei fatti, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 15 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (da ultimo, Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).
Fondati sono, invece, il secondo motivo, nel profilo sopra richiamato, e il terzo motivo di ricorso principale.
La nozione coinvolta è quella del valore in dogana delle merci importate, che, di regola, è il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve le rettifiche da effettuare conformemente all’art. 32 tale codice (Corte giust. 12 dicembre 2013, Christodoulou e a., causa C-116/12, punti 38, 44 e 50, nonchè 21 gennaio 2016, Stretinskis, causa C-430/14, punto 15).
Esso deve comunque riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (in termini, da ultimo, Corte giust. 20 dicembre 2017, causa C-529/16, Hamamatsu).
Anche i diritti di licenza, quindi, sono destinati ad incidere sulla determinazione del valore doganale qualora i corrispondenti beni immateriali siano incorporati nella merce, così esprimendone o contribuendo ad esprimerne il valore economico.
Sicchè, qualora il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate non ne includa il relativo importo, l’art. 32 codice doganale comunitario (reg. n. 2913/92) stabilisce che al prezzo si addizionano “…c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare… “”.
Il Regolamento n. 2454/93, contenente disposizioni di attuazione del codice doganale comunitario, specifica questa regola.
In generale, esso stabilisce che “…quando si determina il valore in dogana di merci importate in conformità delle disposizioni dell’art. 29 codice (doganale) si deve aggiungere un corrispettivo o un diritto di licenza al prezzo effettivamente pagato o pagabile soltanto se tale pagamento:
– si riferisce alle merci oggetto della valutazione, e;
– costituisce una condizione di vendita delle merci in causa” (art. 157, par. 2).
Occorre dunque che ricorrano tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare.
In particolare, con riguardo al caso in cui il diritto di licenza si riferisca a un marchio di fabbrica, ossia al diritto d’importare e di commercializzare prodotti riportanti marchi commerciali, il regolamento di attuazione specifica che il relativo importo si aggiunge al prezzo effettivamente pagato o da pagare “soltanto se: -il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, – le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e – acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore” (art. 159).
Ancora più specificamente, per il caso in cui l’acquirente paghi un corrispettivo o un diritto di licenza a un terzo, il regolamento prescrive che “…le condizioni previste dall’art. 157, par. 2 si considerano soddisfatte solo se il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento” (art. 160).
La disciplina generale fissata dall’art. 157, par. 2 dunque, trova specificazione in quelle particolari, rispettivamente concernenti il caso in cui il diritto di licenza riguardi un marchio di fabbrica e quello in cui il corrispettivo del diritto debba essere versato ad un terzo.
Le particolarità finiscono col contrassegnare, più di ogni altra, l’identificazione delle “condizioni di vendita delle merci in causa”, che devono rispondere ai presupposti, dianzi richiamati, rispettivamente richiesti dagli artt. 159 e 160, in relazione alle ipotesi da essi contemplate.
3.2. Nel caso in esame, ricorre la prima delle due condizioni per l’applicazione della rettifica stabilita dall’art. 32 codice doganale comunitario.
Il giudice d’appello assume, come presupposto del proprio ragionamento, che si discutesse di diritti di licenza, il corrispettivo dei quali non era stato computato ai fini della determinazione del valore doganale.
Ricorre altresì la seconda delle due condizioni.
La Corte di giustizia (con sentenza 9 marzo 2017, causa C-173/15, GE Healthcare GmbH c. Hauptzollamt Dlisseldorf) ha stabilito che l’art. 32, par. 1, lett. c) codice doganale non prevede che l’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza sia determinato al momento della conclusione del contratto di licenza o al momento dell’insorgenza dell’obbligazione doganale, affinchè i corrispettivi dei diritti di licenza siano considerati relativi alle merci da valutare.
E’ vero che l’art. 161 del Regolamento n. 2454/93 fissa la presunzione relativa che il pagamento del corrispettivo o diritto di licenza si riferisca alle merci oggetto di valutazione quando il metodo di calcolo di esso si basa sul prezzo delle merci importate; ma aggiunge che “Tuttavia, il pagamento del corrispettivo o del diritto di licenza, può riferirsi alle merci oggetto della valutazione quando l’ammontare di tale corrispettivo o diritto di licenza venga calcolato senza tener conto del prezzo delle merci importate”.
Ininfluente è, allora, la considerazione del giudice d’appello che “l’importo percentuale del diritto di licenza dovuto a Puma AG era ragguagliato non al valore delle merci importate, e, quindi, al prezzo pagato al fornitore, ma all’importo delle vendite nette, cioè al prezzo dei prodotti fatturati al cliente al momento della vendita”. D’altronde, in una situazione simile, in cui “…l’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza dipende dalla percentuale del volume d’affari generato con la vendita a terzi delle merci importate in base al contratto di licenza” (punto 49 della sentenza in causa C-173/15), la Corte di giustizia ha appunto stabilito che il versamento di tali corrispettivi o diritti “si riferisce” alle merci da valutare.
In definitiva, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d’appello, le modalità di calcolo delle royalties non incidono sulla necessità della loro inclusione nel valore doganale, come ha successivamente esplicitato il paragrafo 1, secondo nucleo normativo, dell’art. 136 del regolamento di esecuzione n. 2015/2447/UE, a norma del quale “Il metodo di calcolo dell’importo dei corrispettivi o dei diritti di licenza non è determinante”.
3.3. La questione dirimente risulta, allora, quella concernente la terza condizione, data dalla configurabilità del versamento dei diritti di licenza come condizione di vendita della merce.
Va evidenziato, a tal proposito, che nè l’art. 32, par. 1, lett. c) codice doganale nè l’art. 157, par. 2, del Regolamento n. 2454/93 precisano cosa si debba intendere per “condizione di vendita” delle merci da valutare.
A fornire elementi idonei a riempire la lacuna soccorre l’interpretazione che della disciplina ha offerto la Corte di giustizia che, con la sentenza dinanzi indicata, ha stabilito, facendo leva sul punto 12 del commento n. 3 del comitato del codice doganale (sezione del valore in dogana) relativo all’incidenza dei corrispettivi e dei diritti di licenza sul valore in dogana, che l’identificazione della condizione di vendita si traduce nella verifica se il venditore sia disposto, o no, a vendere le merci senza che sia pagato il corrispettivo del diritto di licenza.
In generale, dunque, il pagamento in questione è una “condizione di vendita” delle merci da valutare qualora, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore, o la persona ad esso legata, e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere.
Nel caso in esame, peraltro, ricorrono i presupposti di applicazione di entrambe le discipline particolari contemplate dagli artt. 159 e 160 del Regolamento n. 2454/93.
Per un verso, i diritti di licenza si riferiscono difatti anche ai marchi di fabbrica; per altro verso, la loro corresponsione spetta ad un soggetto diverso dal venditore. Ed è irrilevante che tale soggetto non sia qualificato come terzo: è difatti sufficiente per l’identificazione delle “condizioni di vendita”, com’è specificato nel punto 67 della sentenza dinanzi indicata, che il pagamento dei corrispettivi dei diritti di licenza sia richiesto all’acquirente da “una persona legata al venditore”.
Occorre dunque verificare la sussistenza di un legame, diretto o indiretto, tra il fornitore asiatico della licenziataria Puma Italia e la PUMA Ag, titolare del diritto di licenza e la sua forza.
Occorre cioè, come ha chiarito la Corte di giustizia (in causa C173/15, punto 68), “verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter, garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente”.
Sul punto, l’allegato 23 delle DAC – Note interpretative in materia di valore in dogana all’art. 143, par. 1, lett. e) (a norma del quale due o più persone sono considerate legate se l’una controlla direttamente o indirettamente l’altra), stabilisce che “si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda”.
Il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perchè è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perchè ci si contenta dell’effetto di “orientamento” del soggetto controllato.
Quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene.
Utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento TAXUD/800/2002, nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, par. 1, lett. c) codice doganale (ormai parte dell’acquis communautaire, ossia del diritto materiale dell’Unione, con valore di soft law): queste indicazioni, ha precisato la Corte di giustizia in causa C-173/15, punto 45, “sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sè considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice”.
Va rilevato che il documento in questione annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti:
– il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente;
– il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione);
– il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente;
– il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti;
– il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci;
– il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.
– il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti;
– il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre;
– il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore;
– il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante;
– le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica);
– le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante.
Più d’uno di tali indicatori ricorrono nell’ipotesi in esame.
Si legge difatti in sentenza che Puma Italia s.r.l. è società controllata dalla PUMA Ag e che, in virtù dell’accordo stipulato da queste due società, col quale la prima ha ricevuto dalla seconda la concessione in licenza di marchi e modelli, Puma Italia s.r.l. può fabbricare o far fabbricare, ma previa approvazione scritta di PUMA Ag, e in base alla disciplina, prevista per contratto, della scelta dei fornitori, i prodotti in licenza che portano i marchi in licenza.
Per tutti i prodotti in licenza fabbricati da o per la licenziataria e da questa venduti, a PUMA Ag spetta una royalty, pari al 7,5% delle vendite nette realizzate.
A sua volta Puma Italia s.r.l. ha stipulato con World Cat Limited, anch’essa controllata da PUMA Ag, un contratto di agenzia in virtù del quale l’agente l’avrebbe assistita nella scelta dei fabbricanti dei prodotti. Difatti, la contribuente ha stipulato tramite il suo agente contratti con società dei paesi asiatici per la produzione dei beni oggetto della licenza di marchi e modelli di PUMA Ag.
In definitiva, risulta in fatto che PUMA Ag:
– controlla la scelta dei fabbricanti, in quanto ne disciplina la selezione;
– pretende la corresponsione del compenso per tutti i prodotti in licenza fabbricati da o per la licenziataria e da questa venduti;
– controlla sia la licenziataria, sia l’agente che la coadiuva nella scelta dei fabbricanti e nelle operazioni di vendita.
L’intera operazione risulta quindi conformata dalla licenziante PUMA Ag che incide, in maniera determinante, sulla individuazione dei fornitori, sia in virtù delle pattuizioni del contratto di licenza, sia per mezzo dell’operato dell’agente di vendita, che, se, da un lato, stipula il contratto di agenzia con la controllata Puma Italia s.r.l., d’altro lato, è a propria volta integralmente controllato dalla licenziante.
In base agli stessi elementi valorizzati in sentenza, allora:
– i fornitori non possono che rispondere ai parametri e al gradimento della licenziante;
– la licenziataria non può che acquistare dai fornitori selezionati con l’ausilio dell’agente di vendita, che rispondano al gradimento della licenziante;
– gli acquisti riguardano i prodotti in licenza, che portano i marchi in licenza: il che significa che si tratta di prodotti destinati ad essere “rivenduti tal quali” con l’apposizione del marchio di fabbrica;
– per tutti i prodotti in licenza con i marchi in licenza poi venduti la licenziataria deve versare i corrispettivi dei diritti relativi alla licenziante.
3.4. La connessione dei fattori in questione deriva dalle regole di esperienza proprie del rapporto di licenza.
Questo rapporto è difatti di norma connotato da penetranti poteri di controllo del titolare del marchio sul licenziatario al fine di garantire che tutti i prodotti contrassegnati dal medesimo segno distintivo siano omogenei e funzionali (come si evince, d’altronde, anche dall’art. 8, sia pure di natura dispositiva, della direttiva n. 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ratione temporis applicabile).
Il contratto di licenza, che pur sempre mira a salvaguardare le prerogative del licenziante, solitamente comporta di per sè che i terzi individuati per la produzione non possano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma debbano ritrasferirli ai distributori designati dal licenziante, ossia ai licenziatari, i quali corrispondono a costui i diritti di licenza.
Risponde quindi a una massima di comune esperienza, l’applicazione della quale non è contrastata, nel caso in esame, da elementi di segno contrario, che il titolare del marchio e dei modelli riesca a controllare tutta la filiera produttiva e distributiva, massimizzando il profitto che ne deriva.
Se la PUMA Ag non fosse stata in grado di controllare il produttore, nell’accezione stabilita dall’art. 143, lett. e) regolamento n. 2454/93 e dall’allegato 23 sopra indicato, questi sarebbe stato libero di vendere i prodotti in licenza, recanti i marchi in licenza, direttamente o indirettamente ai distributori, e la società titolare dei beni immateriali non avrebbe incassato le relative royalties.
3.5. In definitiva, nel caso in esame va applicato l’art. 157, par. 2 regolamento n. 2454/93.
Sicchè i motivi vanno accolti, in quanto la sentenza impugnata si pone al riguardo in contrasto con tale norma, così come ricostruita nella sua portata.
3.6. Ne segue l’affermazione del seguente principio di diritto:
“In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza”.
Preme peraltro precisare, ai fini della completa indicazione dei principi cui il giudice del rinvio dovrà attenersi nella definizione della controversia, che questa Suprema Corte, con la pronuncia 6 aprile 2018, n. 8473 ha precisato che l’accertamento in fatto dell’assolvimento dell’Iva intracomunitaria elide la pretesa impositiva corrispondente, ma non anche la maggiore pretesa concernente la maggiore Iva scaturente dalla base imponibile aumentata dell’importo dei corrispettivi dei diritti di licenza.
4. Con il quarto motivo di ricorso principale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 303 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70 per avere implicitamente annullato, come conseguenza dell’annullamento degli avvisi di accertamento, anche le sanzioni, che costituiscono corretta applicazione delle previsioni normative in materia di violazioni doganali.
L’accoglimento dei motivi di ricorso principale sopra indicati comporta l’accoglimento anche del presente motivo.
5.1. Con riferimento al ricorso incidentale, lo stesso è inammissibile in tutti i motivi nei quali esso è articolato.
Gli stessi, invero, riguardano questioni ritenute assorbite dal giudice d’appello. Sicchè va applicato il principio in base al quale è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorchè proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito bensì a questioni su cui il giudice di appello non si è pronunciato ritenendole assorbite, atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione, salva la facoltà di riproporre le questioni medesime al giudice del rinvio, in caso di annullamento della sentenza (tra varie, Cass. 22 settembre 2017, n. 22095; in motivazione, sez. un., 23 novembre 2015, n. 23833). 6.1 In conclusione, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai profili accolti, con rinvio, anche per l’esame delle questioni rimaste assorbite delle quali dà conto la società in controricorso e ricorso incidentale e per la regolazione delle spese, alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione.
Poichè il ricorso incidentale è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della controricorrente ricorrente incidentale, dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il secondo, per quanto di ragione, terzo e quarto motivo di ricorso principale, rigetta il primo, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata per i profili accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia in diversa composizione.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della controricorrente incidentale del contributo unificato dovuto per il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2018.
Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2018