Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.25679 del 15/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20370-2017 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui uffici, in ROMA, via dei Portoghesi 12, domicilia per legge;

– ricorrente –

contro

G.M.A., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dagli Avvocati MASSIMO FERRARO e ALESSANDRO FERRARA, presso il cui studio in Roma, via Barnaba Tortolini 30, per procura speciale in calce al controricorso

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

nonchè

F.F.;

– intimato –

avverso il decreto 1122/2017 della CORTE D’APPELLO DI ROMA depositato il 3/2/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 22/3/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

FATTI DI CAUSA

La corte d’appello di Roma, con decreto depositato il 3/2/2017, ha accolto la domanda volta ad ottenere l’equa riparazione per la violazione dei termini di durata ragionevole del processo, proposta, con ricorso depositato in data 4/8/2011, da G.M.A., + ALTRI OMESSI, condannando il Ministero della giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di Euro 4.200,00.

La corte, in particolare, dopo aver premesso che dai documenti prodotti risulta che ciascuno dei ricorrenti ha chiesto, con domanda del 24/3/1999, di essere ammesso al passivo del fallimento della s.r.l. Sudappalti, dichiarato con sentenza del 3/2/1999, ha ritenuto, per un verso, che la durata della procedura, pari a dodici anni al momento del deposito del ricorso, supera quella ritenuta ragionevole, e, per altro verso, che, avuto riguardo proprio alla durata del processo, obiettivamente non giustificabile, la prova del danno non patrimoniale deve ritenersi in re ipsa, sicchè, determinata in sei anni la durata irragionevole (sottraendo ai dodici anni di durata della procedura tre anni “come da giurisprudenza della Cassazione” ed ulteriori tre anni “per la complessità del fallimento”), ha determinato l’indennizzo, in via equitativa, in Euro 700,00 per ogni anno, avendo riguardo alla natura degli interessi in gioco.

Il Ministero della giustizia, con ricorso spedito il 30/8/2017, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione di tale decreto.

Hanno resistito con controricorso G.M.A., + ALTRI OMESSI.

F.F. è rimasto intimato.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo di ricorso, il Ministero ricorrente, lamentando, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la motivazione perplessa su un fatto decisivo della controversia, in relazione al parametro costituzionale ex art. 111 Cost., comma 2, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello, pur dando atto della peculiare complessità della procedura, con elevazione di tre anni del termine di durata ragionevole, ha individuato in tre anni il termine di durata ragionevole, riferibile di per sè a procedura di complessità ben al di sotto della media. Inoltre, ha aggiunto il ricorrente, la corte, pur dando atto di una durata complessiva pari a dodici anni circa e pur avendo determinato la durata non ragionevole in sei anni, ha accertato, in dispositivo, una durata non ragionevole di sette anni, sicchè, ha concluso il ricorrente, il decreto è, in punto di an debeatur, sostanzialmente immotivato, non essendo possibile stabilire in base a quale iter logico-giuridico la corte sia pervenuta al risultato finale, tanto più che la stessa corte, in decreto reso con riguardo alla medesima procedura, ha stabilito in sette anni la durata ragionevole, tenuto conto delle dimensioni della società fallita, delle numerose revocatorie esperite, del numero dei creditori e dei piani di riparto eseguiti 2.11 motivo è infondato, pur dovendosi correggere la motivazione del decreto impugnato. Escluso, infatti, ogni rilievo al decreto pronunciato su analoga domanda proposta per la medesima procedura fallimentare ma da ricorrenti differenti e, come tale, priva di qualsivoglia effetto di giudicato nel presente giudizio, occorre premettere che è compito del giudice di merito addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del procedimento da considerare nella sua concreta articolazione, giacchè l’accertamento della sussistenza dei presupposti della domanda di equa riparazione, ovvero la complessità del caso, il comportamento delle parti e la condotta delle autorità, cosi come la misura del segmento, all’interno del complessivo arco temporale del processo, riferibile all’apparato giudiziario, in relazione al quale deve essere emesso il giudizio di ragionevolezza della relativa durata, si risolve in un apprezzamento di fatto che appartiene unicamente al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizi attinenti alla motivazione. Ora, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, “la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc), la proliferazione di giudizi connessi o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata complessiva di sette anni” (Cass. n. 8468 del 2012; conf., Cass. 18538 del 2014, in motiv.). Nel caso di specie, la corte d’appello, avendo ritenuto che, “per la complessità del fallimento”, la durata ragionevole della procedura presupposta avrebbe dovuto essere, complessivamente, di sei anni (tant’è che su tale durata, e non su quella erroneamente indicata in dispositivo, ha, poi, calcolato l’indennità dovuta), non si è discostata dal predetto principio. Per il resto, non può che evidenziarsi che, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo conseguente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con la L. n. 134 del 2012, ed applicabile al caso in esame per essere stato emesso il decreto impugnato il 3/2/2017, è deducibile solo il vizio d’omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti, confinando così il controllo della motivazione solo al caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4 (cfr. Cass. SU n. 8053/2014).

3. Con il secondo motivo, il Ministero ricorrente, lamentando la motivazione omessa su un fatto decisivo della controversia che ha formato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello, nel pronunciarsi sull’an debeaur, è stata omissiva in ordine all’eccezione di indeterminatezza del ricorso, svolta dalla resistente nella comparsa di risposta, per la mancata prova del dies a quo, vale a dire la presentazione dell’istanza di insinuazione allo stato passivo – a nulla rilevando la data del 24/3/1999, in assenza di specifici documenti sul punto – tant’è che la stessa corte d’appello, in decreto reso nella medesima procedura, ha individuato, in mancanza di sicuri dati di riferimento, il dies a quo nella data del 3/5/2000 di approvazione dello stato passivo.

4. Il motivo è fondato. Nella giurisprudenza di questa Corte si è, infatti, chiarito che “in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la nozione di procedimento presa in considerazione dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali include anche i procedimenti fallimentari” (Cass. n. 950 del 2011). Tuttavia, se si tratta dei creditori, occorre aver riguardo, quale dies a quo, al decreto con il quale ciascuno di essi è stato ammesso, in via tempestiva o tardiva (artt. 97,101 e 99 L.fall.), al passivo (irrilevante, invece, rimanendo, rispetto alla ragionevole durata della procedura fallimentare, il momento in cui il presunto creditore abbia proposto la domanda di ammissione al passivo, che, al più, può valere ai fini della ragionevole durata del procedimento di accertamento della pretesa, a norma degli artt. 92 ss. L.fall.). Solo dal momento dell’ammissione, infatti, i creditori, effettivamente riconosciuti come tali, subiscono gli effetti della irragionevole durata dell’esecuzione fallimentare nella quale si sono insinuati, rimanendo, per gli stessi, irrilevante, la durata pregressa della procedura, alla quale sono rimasti, fino a quel momento, estranei, salvo che per gli accantonamenti nei riparti parziali, a norma dell’art. 113 l.fall., i quali, tuttavia, richiedono o una misura cautelare in sede di opposizione ovvero l’accoglimento dell’opposizione con decreto non ancora definitivo (in senso contrario, sul punto, Cass. n. 2207 del 2010; Cass. n. 20732 del 2011; Cass. n. 2013 del 2017, in motiv., che hanno dato rilievo, rispetto alla procedura di fallimento, alla domanda di ammissione al passivo, e Cass. n. 22422 del 2013, che ha dato, invece, rilievo, al medesimo fine, alla sentenza dichiarativa di fallimento). Nel caso in esame, la corte d’appello, avendo stabilito, sia pur implicitamente, che il dies a quo dovesse essere individuato nel giorno in cui i creditori hanno proposto la domanda di ammissione, non ha considerato il fatto decisivo, dedotto in giudizio, costituito dalla data di ammissione al passivo di ciascun ricorrente.

5.Con il terzo motivo, il Ministero ricorrente, lamentando la motivazione omessa su un fatto decisivo della controversia che ha formato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha determinato in Euro 700,00 per ogni anno di ritardo, anzichè nella misura base di Euro 500,00 per anno di ritardo, nonostante le eccezioni circostanziate svolte in comparsa di risposta, dove sono stati richiamati fattori contestualmente riduttivi (della posta in gioco) ed anticipatori (sul piano della durata), come l’intervento del fondo di garanzia relativamente al t.f.r. ed alle ultime tre mensilità, ed il piano di riparto del 30/10/2007, senza che la corte abbia ritenuto di indagare sul grado di esigibilità dei crediti residui vantati dai ricorrenti nè sull’accertamento dell’entità della posta in gioco, per cui non è dato evincere in base a quali parametri la corte d’appello sia pervenuta alla liquidazione dell’indennizzo.

6.Con il quarto motivo, il Ministero ricorrente, lamentando la motivazione apparente in relazione al parametro costituzionale ex art. 111 Cost., comma 2, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui la corte d’appello ha determinato l’indennizzo nella somma di Euro 700,00 per anno di ritardo, senza fare alcun riferimento alla posta in gioco ed alla residua entità, a fronte dei molteplici piani di riparti) parziali intervenuti nel corso della procedura, dei crediti degli istanti.

7. Il terzo ed il quarto motivo sono assorbiti.

8. Il decreto impugnato dev’essere, quindi, cassato, in relazione al motivo accolto, con rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Roma, anche ai fini della regolazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

la Corte così provvede: rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo di ricorso; assorbiti gli altri; cassa, in relazione al motivo accolto, il decreto impugnato, con rinvio, per un nuovo esame, ad altra sezione della corte d’appello di Roma, anche ai fini della regolazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2018

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