Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.26432 del 19/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al r.g.n. 12918/2011 proposto da:

V.P., elettivamente domiciliato in Roma, via della Giuliana n.32 presso lo studio dell’Avv. Mara Grillandini e rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Stefania per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore centrale pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n.12 presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza n.401/25/11 della Commissione tributaria regionale della Puglia sezione distaccata di Foggia, depositata il 3 novembre 2010.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27 giugno 2018 dal relatore Cons. Roberta Crucitti.

RILEVATO

che:

nella controversia originata dall’impugnazione da parte di V.P. di avvisi di accertamento, conseguenti ad indagini su conti correnti bancari D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32 e relativi a Iva, Irpef e addizionali comunali e regionali degli anni 1999 e 2000, nonchè degli avvisi di irrogazioni sanzioni, per non avere il contribuente provveduto negli anni 1999, 2000 e 2001 alla tenuta delle scritture contabili obbligatorie, la Commissione tributaria regionale della Puglia-sezione distaccata di Foggia, in accoglimento degli appelli (riuniti) proposti dall’Agenzia delle entrate, riformava le decisioni di primo grado di accoglimento dei ricorsi introduttivi;

in particolare, il Giudice di appello ha ritenuto che la dichiarazione di terzo, di formazione extraprocessuale, non costituisse prova idonea a vincere la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e che le sanzioni fossero state legittimamente irrogate;

avverso la sentenza ricorre V.P. su quattro motivi; l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato in camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e dell’art. 380 bis 1 cod. proc. civ., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1 bis convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo (rubricato sub A) si deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37,comma 3 in combinato disposto con gli artt. 53 e 3 Cost. laddove la Commissione tributaria regionale delle Puglia (d’ora in poi C.T.R.) non aveva, secondo la prospettazione difensiva, ben interpretato la sentenza del Giudice di prime cure che aveva ritenuto illegittimo l’operato dell’Amministrazione finanziaria la quale aveva attribuito, d’ufficio, al ricorrente la partita IVA in assenza di un’organizzazione aziendale e nella inesistenza degli innumerevoli rapporti commerciali che, invece, l’Amministrazione finanziaria aveva presunto in capo al ricorrente;

con il secondo motivo (rubricato sub A.1) si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata laddove la C.T.R. non aveva motivato sul fatto decisivo rappresentato dall’attribuzione, d’ufficio, della partita IVA in totale assenza in capo al ricorrente degli elementi organizzativi e delle tracce di una pregressa attività di commercio esercitata in forma individuale;

con il terzo motivo (rubricato sub A.2) si deduce la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 in combinato disposto con l’art. 24 Cost., dell’art. 99 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. laddove la C.T.R. aveva ritenuto che le prove offerte in giudizio dal contribuente non fossero idonee a vincere la presunzione di cui al citato art. 32, errando, anche, sul valore probatorio da attribuire alle dichiarazioni rese dalla socia amministratrice della Mobilart s.r.l. ai verificatori;

con il quarto motivo (rubricato sub A.3) si deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 in relazione alla valenza probatoria dei dati e delle notizie fiscali raccolte presso le banche secondo la procedura prevista dalle predette norme;

premesso in fatto che, secondo la prospettazione difensiva, gli atti impositivi ed i conseguenti avvisi di irrogazioni sanzioni sarebbero illegittimi in quanto, in giudizio, erano state fornite ampie prove sul fatto che il conto corrente, oggetto di accertamento, pur formalmente intestato al V., fosse stato sempre ed esclusivamente utilizzato dalla Mobilart s.r.l., mentre l’Ufficio non aveva fornito alcun elemento probatorio in ordine all’effettivo e concreto svolgimento da parte del V. di attività di impresa nella forma individuale, i motivi vanno trattati secondo l’ordine logico giuridico delle questioni prospettate in ricorso, con l’esame per primo del quarto motivo;

la censura è manifestamente infondata avendo il Giudice di merito applicato correttamente la normativa di riferimento come costantemente interpretata da questa Corte;

in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto questa Corte è, infatti, ferma nel ritenere che “qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (cfr. tra le tante Cass. n.18081 del 04/08/2010). Si è, anche, precisato (Cass. n. 19692 del 27/09/2011) che i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari assumono sempre rilievo ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, se il titolare di detti conti non fornisca adeguata giustificazione, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 poichè questa previsione e quella di cui all’art. 38 del medesimo D.P.R. hanno portata generale, riguardando la rettifica delle dichiarazioni dei redditi di qualsiasi contribuente, quale che sia la natura dell’attività svolta e dalla quale quei redditi provengano”;

in ordine, poi, al tipo di prova che il contribuente ha l’onere di fornire al fine di vincere la presunzione legale di cui al citato art. 32 è ammesso anche il ricorso alle presunzioni semplici ma le stesse devono essere sottoposte ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo (Cass. 22502/2011 richiamata da Cass. 4585/15);

alla luce dei superiori principi è infondato anche il terzo motivo giacchè, da un canto, le circostanze fattuali prospettate con il mezzo di impugnazione non sono suscettibili di riesame di merito in questa sede, e dall’altro, il Giudice di merito ha correttamente negato che la dichiarazione resa dalla socia amministratrice della Mobilart s.r.l. potesse assurgere al valore di prova piena, idonea a vincere la presunzione legale di cui al citato art. 32;

il valore confessorio di tale dichiarazione, come invocato dal ricorrente, esplica la sua efficacia senz’altro nei confronti della Società, da quel soggetto rappresentata, ma certamente non in questo giudizio involgente un soggetto del tutto distinto e terzo rispetto all’ente collettivo societario;

il primo ed il secondo motivo di ricorso vanno, invece, dichiarati inammissibili;

il primo, per l’assoluto difetto di specificità, giacchè per costante orientamento di questa Corte (v., tra le altre, di recente Cass. n. 24298/2016) il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata;

nel mezzo di impugnazione, infatti, non si indica nè si specifica con quale argomentazione della sentenza impugnata sarebbe stata perpetrata dalla C.T.R. la dedotta violazione di legge mentre la censura è limitata ad una inesatta interpretazione della decisione di primo grado;

il secondo motivo, a parte l’inammissibilità conseguente alla contemporanea deduzioni di due vizi motivazionali tra loro incompatibili (omessa e insufficiente/contraddittoria motivazione), è inammissibile anche perchè inconducente rispetto al decisum giacchè, per come sopra esposto, la dedotta assenza di un’organizzazione aziendale in capo al V. avrebbe dovuto, al contrario, essere dimostrata dal contribuente e, comunque, non appare circostanza decisiva rispetto all’oggetto della controversia;

in conclusione, il ricorso va rigettato con condanna di V.P., soccombente, al pagamento in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alla refusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese processuali liquidate in complessivi Euro 10.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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