LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12795/2013 proposto da:
M.B., *****, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOTERA 29, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO PIRANI, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO MANCINI;
– ricorrente –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato CLEMENTINA PULLI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati EMANUELA CAPANNOLO e MAURO RICCI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 9/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 15/01/2013 R.G.N. 576/2011.
RILEVATO
che:
M.B. ha chiesto l’indennità di accompagnamento ed il Tribunale di Ancona, all’esito di c.t.u., ha accolto la domanda riconoscendo la prestazione a decorrere dal mese di aprile 2010 e non dalla data di presentazione della domanda; proposto appello dal M., la Corte d’Appello di Ancona (sentenza 15.01.13) ha rigettato l’impugnazione, rilevando che il c.t.u. – le cui conclusioni erano state recepite dal primo giudice – aveva correttamente accertato che le condizioni di gravi difficoltà di orientamento e di deficit della memoria emerse dal certificato rilasciato il ***** dalla Dottoressa A. non fossero state confermate dagli ulteriori riscontri probatori e soprattutto dal test MMT, effettuato il ***** che aveva certificato un punteggio prossimo alla soglia di normalità cognitiva, e dalle stesse risultanze della visita effettuata dalla Commissione medica il *****, che avevano attestato le condizioni del paziente quale vigile ed orientato nel tempo;
con il ricorso per cassazione, M.B., con quattro motivi, deduce: 1) violazione dell’art. 2729 c.c. e art. 116 c.p.c., in ordine alla valutazione dei mezzi di prova nella determinazione della decorrenza temporale della prestazione; 2) violazione dell’art. 2909 c.c., per violazione del giudicato interno relativamente alla regola di valutazione dei mezzi di prova in relazione all’art. 2729 c.c. e art. 116 c.p.c.; 3) vizio di motivazione per omesso esame circa i fatti decisivi per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti consistenti nei certificati medici datati *****; 4) nullità della sentenza per l’omesso esame del motivo d’appello relativo all’eccepita mancanza di motivazione sulla decorrenza della prestazione, posto che la sentenza di primo grado era stata appellata per carenza di motivazione relativamente alla adesione prestata alle conclusioni del c.t.u.;
resiste l’Inps con controricorso.
CONSIDERATO
che:
il primo motivo, che sostanzialmente critica la sentenza impugnata in quanto avrebbe violato l’obbligo di apprezzare positivamente il certificato rilasciato dalla Dottoressa A. il *****, è inammissibile in primo luogo perchè attraverso il riferimento a violazioni di legge tende chiaramente a criticare l’esercizio dei poteri di apprezzamento delle prove acquisite al processo al fine della determinazione della data di decorrenza dello stato di perdita di autonomia della parte ricorrente, ma tale profilo non è suscettibile di disamina nel giudizio di legittimità in quanto in ordine alla valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940 del 12 ottobre 2017; n. 27000 del 2016);
inoltre, va ricordato che questa Corte di legittimità ha, in modo del tutto condivisibile, affermato (Cass. n. 17720 del 6 luglio 2018) che in tema di presunzioni di cui all’art. 2729 c.c., la denunciata mancata applicazione di un ragionamento presuntivo che si sarebbe potuto e dovuto fare, ove il giudice di merito non abbia motivato alcunchè al riguardo (e non si verta nella diversa ipotesi in cui la medesima denuncia sia stata oggetto di un motivo di appello contro la sentenza di primo grado, nel qual caso il silenzio del giudice può essere dedotto come omissione di pronuncia su motivo di appello), non è deducibile come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cioè come omesso esame di un fatto secondario (dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale), purchè decisivo e, nel caso di specie, il contenuto valutativo di un certificato medico che si contrappone ad altri di diverso segno non può assumere il rilievo di fatto “decisivo” proprio perchè ciò che si contesta non è la mancata considerazione del certificato in sè ma il fatto che la sentenza non abbia attribuito al medesimo il rilievo risolutivo auspicato dal ricorrente;
il secondo motivo è infondato perchè basato su di una errata concezione del concetto di oggetto possibile di giudicato, che confonde, in seno al giudizio su quanto viene devoluto in appello rispetto al tema processuale del primo grado, il ragionamento posto a base dell’ accertamento dei presupposti del diritto conteso con l’accertamento stesso. Questa Corte di cassazione (Cass. n. 19709 del 2 ottobre 2015) ha significativamente, chiarito che la mancanza di specifica contestazione, se riferita ai fatti principali, comporta la superfluità della relativa prova perchè non controversi, mentre se è riferita ai fatti secondari consente al giudice solo di utilizzarli liberamente quali argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, sicchè nel giudizio d’impugnazione il riesame dell’accertamento risultante dalla sentenza impugnata è subordinato alla proposizione di specifiche censure solo rispetto ai primi, operando in mancanza la preclusione derivante dal giudicato interno, mentre per i secondi è sufficiente, anche in assenza di contestazione, l’avvenuta impugnazione dell’accertamento riguardante i fatti costitutivi della domanda per la riapertura del relativo dibattito processuale; il terzo motivo è inammissibile ponendosi in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass. n. 16812 del 26 giugno 2018; n. 19150 del 2016) secondo la quale il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa. Ciò che nel caso di specie non è, giacchè è lo stesso ricorrente che a pag. 19 del ricorso ipotizza che la Corte d’appello avrebbe potuto espletare nuova c.t.u. se avesse diversamente valutato i certificati indicati;
il quarto motivo è del tutto infondato in quanto avulso dai contenuti della sentenza impugnata che, essendo interamente tesa a spiegare le ragioni della correttezza della determinazione della sentenza di primo grado che aveva prestato adesione alla c.t.u. svolta in quel grado, supera e contiene in sè qualunque ragione dell’unico motivo di impugnazione, relativo esclusivamente alla decorrenza del riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento;
il ricorso va, dunque, rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo;
il rigetto del ricorso comporta, altresì, l’accertamento dei presupposti per l’applicazione del disposto del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3000,00 per compensi, oltre al Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma l bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 18 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018
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