LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7667-2017 proposto da:
B.A.M., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI FERRAU;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
e contro
D.C.I.;
– intimato –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di. MESSINA, depositato il 29/09/2016, RG.n. 153/2016, Cron.n. 570/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.
FATTI DI CAUSA
I sigg.: 1. B.A.M., + ALTRI OMESSI, con ricorso presentato, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n 89 e depositato in data 24/5/2013, adivano la Corte di Appello di Messina per sentire riconoscere il loro diritto all’indennizzo per l’irragionevole durata di un giudizio, svoltosi presso il Tribunale di Catania in primo grado ed in grado di Appello presso la Corte della medesima città.
La Corte di Appello di Messina, con decreto dell’11/6/2013 dichiarava inammissibile tale ricorso in quanto improponibile per difetto del requisito della definitività della decisione che aveva concluso il giudizio presupposto. La notifica, infatti, della sentenza del giudizio presupposto era stata eseguita presso l’Avvocatura, ma solo in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, unico organo riconosciuto legittimato dal punto di vista passivo, mentre, non risultava essere stata effettuata alcuna notifica nei confronti del Ministero dell’Istruzione e di quello dell’Economia, che pur si erano costituiti, sempre, nel giudizio presupposto.
Avverso detto decreto, proponevano opposizione gli interessati ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5 ter ma la Corte, con decreto datato 6/12/2013, rigettava lo stesso, sostenendo la fondatezza della motivazione del decreto opposto.
Ricorrevano in Cassazione, i ricorrenti, e la Corte di legittimità, con sentenza n. 2892 del 2016, cassava il decreto impugnato e rinviava sempre alla Corte di Appello di Messina in diversa composizione per un nuovo giudizio, anche relativamente alle spese processuali del giudizio di legittimità. Sosteneva il Supremo Collegio nella sua sentenza appena indicata che, per la natura che assume il giudizio di opposizione, la Corte di Appello avrebbe dovuto procedere a quanto necessario per valutare la questione, non essendo, peraltro, neppure escluso che la parte potesse produrre ulteriore documentazione per dimostrare la definitività della sentenza emessa al termine del giudizio presupposto.
Riassunto il processo a cura dei ricorrenti, si costituiva il Ministero della Giustizia, chiedendo “la corretta applicazione del principio di diritto fissato dalla Suprema Corte”, nonchè “la sussistenza di tutti i presupposti di ammissibilità della domanda e le condizioni di accoglibilità della stessa e, in ogni caso, liquidare l’eventuale indennizzo in misura equa”.
La Corte di Appello di Messina con decreto n. cronolog. 570 del 2016 accoglieva l’originario ricorso e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di Euro 3.600,00 a favore di ciascuno dei ricorrenti, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo. Compensava le spese del giudizio Secondo la Corte distrettuale posto che il giudizio presupposto instaurato dai ricorrenti, tutti medici specializzandi, ha avuto una durata (dal 21/6 e 7/8 del 2001 al 21 giugno 2012) di undici anni, la durata irragionevole del processo poteva essere fissata in sei anni. Considerati i parametri fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 l’indennità poteva essere calcolata nella complessiva somma di Euro 600,00 per ogni anno di ritardo.
La cassazione di questo decreto è stata chiesta da B.A.M., più altri 27, così come indicati in epigrafe con ricorso affidato a due motivi, illustrati con memoria. Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.= Con il primo motivo i ricorrenti indicati in epigrafe lamentano error in iudicando art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Violazione e/o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis. Misura dell’indennizzo di equa riparazione. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11 preleggi. Efficacia della legge nel tempo. Secondo i ricorrenti la Corte distrettuale, nel determinare la misura dell’indennizzo per l’eccesiva durata del processo presupposto, avrebbe erroneamente applicato i parametri fissati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis nella versione non ancora entrata in vigore al tempo della proposizione della domanda di equo indennizzo. La nuova normativa prevede l’indennizzo di una somma di denaro non inferiore ad Euro 400 e non superiore ad Euro 800 per ciascun anno, ma non sarebbe applicabile al procedimento de quo. Piuttosto, ritengono i ricorrenti nel caso in esame sarebbe applicabile la norma vigente ratione temporis in virtù della quale il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro non inferiore ad Euro 500 e non superiore ad Euro 1.500 per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Tra l’altro, specificano i ricorrenti, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ritenuto che l’indennizzo può essere ordinato ordinariamente nella misura di Euro 750 per i primi tre anni e di Euro 1000 per gli anni successivi. E la Corte, considerando l’esito del processo, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa non avrebbe potuto ridurre tali parametri.
1.1.= Il motivo è infondato.
La L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, stabilisce che il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500,00 e non superiore a 1.500,00 Euro, per ciascuno anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, eccedente il termine di durata ragionevole (1 comma); e prevede che l’indennizzo sia determinato ai sensi dell’art. 2056 c.c., tenendo conto dell’esito del processo in cui si è verificata la violazione, del comportamento del giudice e delle parti, della natura degli interessi coinvolti e del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte (comma 2). Detta norma positivizza un campo di variazione dell’indennizzo (500,00 – 1.500,00 Euro per ogni anno di ritardo) ormai acquisito nella giurisprudenza di questa Corte Suprema già prima della modifica legislativa, essendosi individuato nel criterio di 500,00 Euro all’anno una misura idonea a contemperare la serietà dell’indennizzo con l’effettiva consistenza della pretesa fatta valere nel giudizio presupposto (cfr. tra le più recenti, Cass. n. 5277/15, secondo cui tale approdo consente di escludere che un indennizzo di 500,00 Euro per anno di ritardo possa essere di per sè considerato irragionevole e, quindi, lesivo dell’adeguato ristoro che la giurisprudenza della Corte Europea intende assicurare in relazione alla violazione del termine di durata ragionevole del processo). La nuova norma, inoltre, è stata ritenuta conforme al dettato costituzionale da Cass. n. 22772/14, che ha dichiarato, tra l’altro, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU, della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis atteso che la ragionevolezza del criterio di 500,00 Euro per anno di ritardo recepisce indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU. Ciò posto, poichè compresa tra il minimo ed il massimo anzi detto, la scelta del moltiplicatore annuo da applicare al ritardo, nella definizione del processo presupposto, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale deve decidere, tenendo conto (come recita la norma) dei parametri di valutazione elencati nel medesimo art. 2-bis, comma 2, lett. da a) a d).
1.2.= Con l’ulteriore precisazione che i parametri di cui si dice costituiscono indicatori cui il giudice può variamente attingere per orientare il quantum della liquidazione equitativa dell’indennizzo. La norma, se da un lato esclude che siano valorizzabili fattori di natura diversa, dall’altro non detta dei tassativi temi di accertamento, tutti e ciascuno oggetto di specifica indagine e di singola valutazione in punto di fatto. Il giudice di merito, pertanto, nel determinare l’ammontare dell’equa riparazione non è tenuto ad esaminare ognuno dei suddetti parametri, ma deve tenere conto di quelli tra questi che ritiene maggiormente significativi nel caso specifico. Lo scrutinio e la valutazione degli elementi della fattispecie che consentono di formulare il giudizio di sintesi sul paterna derivante dalla durata irragionevole del processo, costituisce un caratteristico apprezzamento di puro fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5.
1.3.= Ora nel caso in esame la Corte distrettuale ha rispettato questi principi, specificando sia pure in modo sintetico, che nel determinare l’equo indennizzo richiesto ha considerato a tal fine “la non certo rilevante natura della materia del contendere, la circostanza che si trattava di una controversia “collettiva” di molti specializzandi, che reclamavano anche per tale periodo una qualche forma di retribuzione (controversia che ha visto per altro coinvolti, non solo gli odierni ricorrenti, ma moltissimi altri loro colleghi in tutta Italia) e la stessa conclusione del giudizio presupposto favorevole senza dubbio ai ricorrenti, ma che non ha coinvolto per ciascuno degli stessi, rilevantissimi interessi economici (il riconoscimento riconosciuto ha oscillato da alcune migliaia di Euro a poche decine di migliaia di Euro, a seconda degli anni di durata della stessa specializzazione) (….)”.
2.= Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Compensazione delle spese inammissibile Condanna alle spese del giudizio Omessa pronuncia in ordine alle spese vive per ottenimento copia conforme alla L. n. 89 del 2001, ex art. 3, comma 3. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. I ricorrenti si dolgono che la Corte distrettuale abbia disposto la compensazione delle spese in violazione della normativa di cui all’art. 92 c.p.c. in ragione del comportamento del Ministero della Giustizia che si è limitato in primo grado, nel secondo grado del giudizio e anche in quello di legittimità a richiedere l’osservanza della legge, senza tener conto della soccombenza dello stesso Ministero.
2.1.= Il motivo è fondato.
La Corte d’Appello ha compensato le spese processuali in ragione della sussistenza di giusti motivi – individuati nella mancata opposizione del Ministero alla liquidazione del danno – ed è perciò incorsa in violazione di legge, in quanto l’art. 92 c.p.c., nel testo introdotto dalla L. n. 69 del 2009, art. 45 applicabile ratione temporis; riconosce al giudice il potere di compensare le spese, oltre che nel caso di soccombenza reciproca – che qui evidentemente non ricorre -, a fronte di gravi ed eccezionali ragioni, da esplicitare in motivazione che nel caso non sussistono. Come è stato già detto da questa Corte in altra occasione (Cass. n. 23632 del 17/10/2013) la mancata opposizione dell’Amministrazione alla domanda di equa di riparazione rivolta nei suoi confronti non giustifica, di per sè, la compensazione delle corrispondenti spese processuali, allorchè comunque l’istante sia stato costretto ad adire il giudice per ottenere il riconoscimento del diritto.
In definitiva, va accolto il secondo motivo del ricorso e rigettato il primo, il decreto impugnato va cassato, e non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, la causa può essere decisa nel merito liquidando, a favore dei ricorrenti, le spese per ciascun grado del giudizio di merito nella misura di Euro 1198,00 e le spese dei due gradi di giudizio di legittimità nella misura di Euro 900,00 oltre spese generali ed accessori come per legge. Le somme così liquidate vanno distratte a favore dell’avv. Giovanni Ferrau che si è dichiarato antistatario.
PQM
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso e rigetta il primo, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito liquida a favore dei ricorrenti la somma di Euro 1.198,00 per ciascun grado del giudizio di merito e la somma di Euro 900,00 per i due giudizi di legittimità oltre spese generali ed accessori come per legge. Le somme così liquidate vanno distratte a favore dell’avv. Giovanni Ferrau che si è dichiarato antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 22 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018