LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Antonio – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – rel. Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13808/2014 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
C.M.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 551/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 20/05/2013 r.g.n. 791/2007.
RILEVATO
che con sentenza in data 20.5.2013 la Corte di appello di Catania ha riformato parzialmente la sentenza del Tribunale di Catania del 9.5.2006 confermando il giudizio di nullità del termine apposto al contratto intercorso tra Poste Italiane s.p.a. e C.M. per il periodo 1.2.2001/31.5.2001 la cui causale era riferita ad ipotesi individuata ai sensi dell’art. 25 del CCNL 11.1.2001 per “esigenze eccezionali conseguenti al processi di riorganizzazione ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento delle risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti dall’introduzione di nuove tecnologie, prodotto o servizi”.
che la corte ha ritenuto la legittimità della clausola ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, ma ha confermato la decisione del primo giudice in relazione alla mancata prova del rispetto della clausola di contingentamento del 5% su base regionale delle assunzioni a termine, rispetto al numero dei lavoratori in servizio al 31 dicembre dell’anno solare precedente.
che, quanto alle conseguenze risarcitorie, ha poi ritenuto doversi applicare lo jus superveniens di cui della L. n. 183 del 2010, art. 32, con condanna della società Poste spa al pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura di tre mensilità, oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione del diritto al saldo.
Che avverso la sentenza Poste s.p.a. ha proposto ricorso affidato a tre motivi, poi illustrati da memoria. E’ rimasta intimata la C..
CONSIDERATO
Che i motivi di ricorso hanno riguardato:
1) la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175,1375e 2697 c.c., per avere la corte territoriale respinto l’eccezione della società sulla intervenuta risoluzione consensuale del contratto, resa palese dal comportamento della C., di prolungata ed ininterrotta inerzia nell’impugnare la risoluzione del contratto per circa quattro anni dopo la scadenza del termine, incombendo alla lavoratrice fornire prove in ordine alle circostanze atte a contrastare la presunzione di risoluzione per mutuo consenso.
2) la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2 e art. 116 c.p.c., artt. 2697 e 2702 c.c. e dell’art. 215c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere errato la corte nel ritenere violata la clausola di contingentamento del 5%, nonostante che la teste escussa – dipendente dell’ufficio contenzioso legale delle ragione Sicilia di cui era stata disposta l’audizione in appello avesse confermato che il numero di assunzioni a termine era stato inferiore al 5% del personale in servizio al 15/2/2001, confermando che il doc. 41, allegato dalla società, era relativo ai dati regionali.
3) la violazione e falsa applicazione della L. n. 283 del 2010, art. 32, comma 5 e dell’art. 429 c.p.c., comma 3, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Corte territoriale avrebbe erroneamente indicato la data di decorrenza degli accessori di cui dell’art. 429 citato, comma 3, a far data dalla cessazione del contratto e non, come previsto dalla nuova normativa, dalla sentenza di primo grado, dichiarativa dell’illegittimità. Per la ricorrente l’indennità risarcitoria non ha natura di credito retributivo, essendo soltanto un ristoro omnicomprensivo dei danni conseguenti alla nullità del termine.
Che è infondato il primo motivo. L’accertamento di una concorde volontà delle parti diretta a sciogliere un contratto costituisce un giudizio che attiene al merito della causa (cfr. Cass. SU n. 21691/2016) costituendo un accertamento in fatto. Ciò comporta che, ove nel giudizio di merito sia stato valutato il comportamento delle parti e non si sia ritenuta l’esistenza di un comportamento omissivo perchè assenti ulteriori elementi convergenti, tale giudizio è sindacabile in sede di legittimità solo in base alle regole dettate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo la formulazione vigente ratione temporis.
Che tale orientamento ha espresso la cassazione anche con la sentenza n. 29781/2017 che, sulla scia della decisione prima ricordata, a cui questo collegio ritiene di dare continuità, ha rilevato come non è conferito alla Cassazione di riesaminare gli aspetti in fatto della vicenda processuale, solo potendosi valutare la coerenza logico-formale e la correttezza giuridica della decisione assunta dal giudice di merito, “senza che sia consentito al giudice di legittimità sostituire una diversa massima di esperienza diversa da quella utilizzata, quando questa non sia neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita”.
Che nel caso in esame la corte di merito ha valutato che l’elemento temporale, ossia il tempo intercorso tra la fine della prestazione lavorativa e la data di presentazione del ricorso di circa quattro anni non era rilevante, a fronte della notorie circostanze del tempo necessario per valutare l’eventuale illegittimità del termine e delle varie attività dirette ad impugnare il contratto. La motivazione della corte territoriale sul punto non può ritenersi priva di logicità e dunque non è sindacabile in questa sede, dove “l’oggetto del sindacato non è il rapporto sostanziale intorno al quale le parti litigano, bensì unicamente la sentenza di merito che su quel rapporto ha deciso”, (così Cass. n. 29781/2017 cit.).
Che è inammissibile il secondo motivo. Sotto il profilo della prova il giudice del merito ha affermato che le allegazioni difensive di Poste Italiane e la documentazione prodotta non dimostravano il rispetto della clausola di contingentamento in quanto la produzione documentale era carente di ogni riferimento preciso ai dati delle assunzioni e termine rispetto all’organico stabile su base regionale, ricavandosi dal doc. 41 prodotto solo il dato nazionale del personale in servizio, che tale lacuna non era stata colmata dalla deposizione testimoniale. Trattasi di un giudizio di fatto che, come espresso, avrebbe dovuto essere censurato con la deduzione di un vizio di motivazione ovvero allegando un preciso fatto storico decisivo non esaminato in sentenza.
Che deve invece trovare accoglimento il terzo motivo. Questa corte (Cfr Cass. n.5344/2016) ha che precisato che “: L’art. 429 c.p.c., comma 3, in tema di rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro trova applicazione anche nel caso dell’indennità di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, in quanto si riferisce a tutti i crediti connessi al rapporto e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva, fermo restando che alla natura di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva dell’indennità consegue la decorrenza, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, dalla data della sentenza che dispone la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.
Che la sentenza della Corte di Appello, nella parte in cui ha condannato la società Poste Italiane al pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi legali dalla scadenza del termine apposto al contratto di lavoro invece che dalla sentenza di primo grado, che aveva accertato la nullità del termine, non si è adeguata ai predetti principi e pertanto deve essere cassata limitatamente al capo investito dal terzo motivo del ricorso, rigettati gli ulteriori motivi.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, può procedersi alla pronuncia di merito, dichiarando che la rivalutazione monetaria e gli interessi legali sono dovuti dal datore di lavoro a decorrere dalla data della sentenza di primo grado.
Che la società, soccombente in primo grado, va condannata al pagamento delle spese di tale giudizio, liquidate nella stessa misura già indicata nella relativa sentenza, da distrarsi in favore dei difensori antistatari, mentre le spese del giudizio di appello e del presente giudizio possono compensarsi, tenuto conto dell’accoglimento di un solo motivo.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo,nei sensi di cui in motivazione, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito dispone che gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dovuti sull’ importo dell’indennità liquidata L. n. 183 del 2010, ex art. 32, decorrano dalla sentenza del 9.5.2006. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del primo grado in misura pari a quelle indicate nella relativa sentenza con distrazione in favore delle avvocati Maria Antonietta Sacco e Giuseppa Cannizzaro. Compensa per intero tra le parti le spese dell’appello e del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 23 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018
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