Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.26679 del 22/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13113/2017 proposto da:

G.S., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo studio dell’avvocato DANIELA JOUVENAL, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MASSIMO PICONE CASA e PAOLO FOTI;

– ricorrente e controricorrente –

contro

ASL ***** SAVONESE, in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NICOLO’ TARTAGLIA 5, presso lo studio dell’avvocato SANDRA AROMOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO SPOTORNO;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 182/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 23/03/2017; R.G.N. 519/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/07/2018 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine per il rigetto di entrambi ricorsi;

udito l’Avvocato Piccone Casa Massimo;

udito l’Avvocato Spotorno Mario.

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Savona, con sentenza n. 166 del 2016, in sede di opposizione ex L. n. 92 del 2012, confermò il rigetto dell’impugnativa di recesso datoriale, esercitato al termine del semestre di prova, proposta da G.S., assunta con pubblico concorso quale dirigente delle professioni sanitarie, infermìeristiche e tecniche presso la ASL ***** Savonese.

2. La Corte di Appello di Genova, in riforma della sentenza impugnata dalla soccombente, con pronuncia del 23 marzo 2017, ha condannato la ASL al risarcimento del danno in favore della G. commisurato a dieci mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre accessori dal 18 ottobre 2013 al saldo.

La Corte territoriale, disattendendo sul punto il motivo di gravame della dipendente, ha ritenuto che “la prova abbia avuto in sè uno svolgimento non illegittimo”.

Ha invece considerato fondato il secondo motivo di appello quanto all’illegittimità della valutazione della prova effettuata dall’Azienda: esaminato il complesso probatorio ha ritenuto che ne emergesse “un apprezzamento datoriale privo di una motivazione sufficientemente specifica ed a tratti contraddittoria rispetto alla realtà di fatto”.

Esclusa tuttavia la nullità del recesso e la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro, la Corte ha affermato che dal “non corretto adempimento degli obblighi datoriali di motivazione e apprezzamento della prova” derivasse un risarcimento del danno stimato equitativamente in dieci mensilità.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso G.S. con unico articolato motivo, cui ha resistito la ASL ***** Savonese con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo; a quest’ultimo ha resistito la G. con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso principale della G. denuncia “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 disp. gen., comma 2; dell’art. 1418 c.c., in relazione all’art. 1324 c.c.; della L. n. 241 del 1990, artt. 3 e 21 septies; dell’art. 14, comma 5, CCNL Area Dirigenza dei ruoli sanitario, tecnico e amministrativo del SSN in data 8.6.2000; dell’art. 14, comma 1, CCNL cit.”.

Si sostiene che “nel rapporto di lavoro pubblico la motivazione dell’atto di recesso assurge a elemento essenziale dello stesso, la cui assenza ne determina la nullità per violazione della lex specialis”, anche per violazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, per cui la Corte di Appello avrebbe errato a negare la reintegrazione nel posto di lavoro.

2. Il ricorso incidentale denuncia “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 70, del D.P.R. n. 487 del 1994, art. 17, da esso richiamato e dell’art. 14, comma 5, CCNL 1998 – 2001 dell’Area Dirigenza SPTA del SSN” nonchè vizio di motivazione.

Secondo l’Azienda la Corte ligure avrebbe errato “laddove ha preteso che le motivazioni addotte per il recesso dovessero assumere le severe caratteristiche normalmente richieste per un recesso per giusta causa o giustificato motivo”. Si deduce che ciascuna delle valutazioni effettuate dalla dott.ssa A., direttrice della struttura ove era stata adibita la G., motivavano adeguatamente l’esito negativo della prova.

3. Per ragioni di priorità logico-giuridica occorre esaminare preliminarmente il ricorso incidentale dell’ente pubblico che rivendica la legittimità del recesso.

Esso è fondato nei limiti segnati dalla motivazione che segue.

3.1. Secondo l’art. 2096 c.c., in caso di “assunzione in prova”, il datore di lavoro ed il prestatore “sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova” (comma 2); “durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità”, salvo che la prova non sia stata stabilita per un tempo minimo necessario (comma 3); “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva” (comma 4).

La disciplina è integrata dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 10, che prevede l’applicabilità della normativa limitativa dei licenziamenti ai lavoratori in prova la cui assunzione sia divenuta definitiva e, comunque, decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.

3.2. In seguito alla privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e, successivamente, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165) si è precisato che le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex lege (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 13) e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale, la quale ultima è abilitata esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova per il tramite della contrattazione collettiva (Cass. n. 21586 del 2008; conf. Cass. n. 17970 del 2010).

3.3. In particolare – per quanto qui rileva circa i limiti del sindacato sul recesso datoriale – sono certamente applicabili al periodo di prova dei dipendenti pubblici i principi enunciati dalla Corte costituzionale (sent. 22 dicembre 1980, n. 189) in tema di recesso dal rapporto di lavoro subordinato di diritto comune in prova nonchè la giurisprudenza di legittimità che si è sviluppata in materia (in termini Cass. n. 21586/2008 cit.).

3.4. Il Giudice delle leggi, con la sentenza richiamata, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2096 c.c., comma 3, e L. n. 604 del 1966, art. 10, dirimendo i dubbi dei giudici a quibus che avevano ritenuto confliggente con i parametri costituzionali la mancanza dell’obbligo per l’imprenditore di motivare il licenziamento del lavoratore in periodo di prova, paventando che l’assoluta discrezionalità in tal modo garantita al datore di lavoro potesse dar luogo da parte sua a “comportamenti vessatori e lesivi della dignità del lavoratore”.

La Corte costituzionale, evidenziato l’obbligo delle parti “a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova” (art. 2096 c.c., comma 2), ne ha fatto discendere “un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore, nel senso che la legittimità del licenziamento da lui intimato durante il periodo di prova può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per la inadeguatezza della durata dell’esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato”.

In generale ha affermato che “la discrezionalità dell’imprenditore si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore, così che il lavoratore stesso il quale ritenga e sappia dimostrare il positivo superamento dell’esperimento nonchè l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito ben può eccepirne e dedurne la nullità in sede giurisdizionale”.

Successivamente la stessa Corte, con sent. n. 541 del 2000, innanzi al sospetto del giudice a quo secondo cui il lavoratore in prova che non abbia a disposizione l’atto scritto nel quale vengono indicate le ragioni del recesso “si troverebbe in una situazione di minorata tutela, non potendo organizzare in modo valido la propria difesa in sede giurisdizionale” – ribadito che “il lavoratore in prova ingiustamente licenziato può ricorrere in sede giurisdizionale per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento” – ha affermato che “egli può… allegare e provare l’eventuale sussistenza di ragioni del recesso estranee all’esito dell’esperimento; la maggiore o minore difficoltà di tale onere, a seconda delle varie circostanze, si risolve comunque in un problema di fatto che non assurge a violazione dell’art. 24 Cost.”.

Con altre sentenze la Corte costituzionale (sentt. n. 255 del 1989 e n. 172 del 1996) è giunta poi a conseguenze ulteriori con riferimento a due speciali ipotesi di rapporto di lavoro in prova, in cui si sovrappongono peculiari ragioni di tutela del prestatore: quella dei soggetti, appartenenti a categorie protette, avviati per il collocamento obbligatorio, e quella della donna in gravidanza o puerperio.

Sinteticamente può dirsi che dalla giurisprudenza costituzionale emerge che nel periodo di prova non c’è un mero regime di libera recedibilità dal rapporto essendo comunque consentito, entro ben definiti limiti, un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore.

3.5. La giurisprudenza di questa Corte si è orientata in coerenza con tali indicazioni, consolidando i seguenti principi, applicabili anche nell’ambito dei rapporti di lavoro “privatizzati” alle dipendenze di una pubblica amministrazione (come di recente ribadito da Cass. n. 9296 del 2017, conf. a Cass. n. 655 del 2015).

Il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quel che accade nel licenziamento assoggettato alla L. n. 604 del 1966 (Cass. n. 21586/2008 cit.; conf. Cass. n. 17970/2010 cit.).

L’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova che va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 8934 del 2015; Cass. n. 17767 del 2009; Cass. n. 15960 del 2005).

Pertanto non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova. Accade ciò, ad esempio, nel caso di esiguità del periodo in cui il lavoratore è sottoposto alla prova (Cass. n. 2228 del 1999; Cass. n. 2631 dei 1996) o allorquando il prestatore espleti mansioni diverse da quelle per le quali era pattuita la prova (Cass. n. 10618 del 2015; Cass. n. 200 del 1986).

Parimenti invalido è il recesso qualora risulti il perseguimento di finalità illecite (per tutte, ancora Cass. n. 21586/2008cit.). Al motivo illecito si affianca quello estraneo all’esperimento lavorativo, pure idoneo ad inficiare il recesso (v., diffusamente, Cass. n. 402 del 1998).

Infine, ancora in conformità all’opinione della Corte costituzionale, può essere dimostrato il positivo superamento della prova (tra le altre: Cass. n. 9797 del 1996; Cass. n. 4669 del 1993). Con la precisazione che il patto di prova mira ad accertare non solo la capacità tecnica ma anche la personalità del lavoratore e, in genere, l’idoneità dello stesso ad adempiere gli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza (Cass. n. 5696 del 1986; Cass. n. 5714 del 1999; Cass. n. 9948 del 2001; Cass. n. 5522 del 2004). Secondo Cass. n. 1180 del 2017, essendo “la valutazione datoriale in ordine all’esito della prova ampiamente discrezionale”, “la prova da parte del lavoratore dell’esito positivo dell’esperimento non è di per sè sufficiente ad invalidare il recesso, assumendo rilievo tale circostanza se ed in quanto manifesti che esso è stato determinato da motivi diversi”.

In tutti questi casi, comunque, l’onere della prova grava integralmente sul lavoratore (tra molte: Cass. n. 21784 del 2009; Cass. n. 15654 del 2001; Cass. n. 7644 del 1998); esso può essere assolto anche attraverso presunzioni, che, però, per poter assurgere al rango di prova, debbono essere “gravi, precise e concordanti” (Cass. n. 14753 del 2000).

Ferma l’applicabilità anche alla P.A. del principio secondo il quale il recesso del datore di lavoro per esito negativo della prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione, al rapporto di lavoro privatizzato non si estende l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi previsto dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3,trattandosi di atto gestionale del rapporto di lavoro adottato con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro (Cass. n. 16224 del 2013).

Ove poi l’obbligo di motivazione sia contrattualmente previsto, è ammessa la verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa, ma senza che resti escluso il potere di valutazione discrezionale dell’amministrazione datrice di lavoro, non potendo omologarsi la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova a quella della giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (Cass. n. 23061 del 2007; Cass. n. 143 del 2008).

E’ stato espressamente affermato – e più volte ribadito – che “in nessun caso lo stesso obbligo di motivazione può, da solo, comportare l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di provare la giustificazione del proprio recesso dal rapporto di lavoro in prova, in quanto ne risulterebbe – (almeno) su questo punto specifico la omologazione integrale – ai rapporto di lavoro definitivo – in palese contrasto con il nostro sistema giuridico (arg. ex art. 2096 c.c., e art. 10, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 5 cit.)” (in termini: Cass. n. 19558 del 2006, che ha chiarito come la motivazione abbia solo il compito di agevolare l’azione a tutela dei lavoratore).

Di recente questa Corte (Cass. n. 23061 del 2017) ha pure stabilito che “questo obbligo di motivazione, però, non può avere il medesimo contenuto prescritto nel caso di licenziamento di un lavoratore con rapporto a tempo indeterminato, perchè se così fosse si giungerebbe alla omologazione del recesso in prova al recesso da un rapporto stabile a tempo indeterminato, e, di conseguenza, anche alla omologazione del rapporto in prova a quello a tempo indeterminato con l’eliminazione di ogni effettiva differenziazione tra le due fattispecie”. “Quando, …, è prescritta la motivazione del licenziamento di lavoratore in prova, essa ha la funzione, in realtà, di dimostrare che il recesso del datore è stato determinato effettivamente da ragioni specifiche inerenti all’esito dell’esperimento in prova (che costituisce la causa del patto) e che non è dovuto a ragioni illecite, o comunque estranee al rapporto, ed in particolare a forme di discriminazione” (sulla funzione della motivazione v. anche Cass. n. 15638 del 2018).

La pronuncia ha altresì chiarito che “proprio per la sua funzione di dimostrare che il licenziamento non è dovuto a ragioni estranee all’esito dell’esperimento, la motivazione del recesso in prova può essere sintetica e non richiede la specificità necessaria per un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo”.

4. Tenuto conto della richiamata giurisprudenza può essere scrutinata la questione sottoposta all’attenzione del Collegio.

4.1. La Corte di Appello, nella sentenza impugnata, ha innanzitutto ritenuto che la prova cui era stata sottoposta la G. “abbia avuto in sè uno svolgimento non illegittimo”, respingendo il motivo di gravame con cui la lavoratrice aveva lamentato che l’Azienda avrebbe “esaminato prestazioni che non potevano essere assegnate o pretese” e condividendo sul punto l’assunto del Tribunale “secondo cui lo svolgimento della prova sarebbe stato coerente con gli obiettivi propri del patto di prova”.

Ha altresì affermato che “nel caso di specie, in ogni caso, non vi è nessuna concreta dimostrazione di un’illiceità dei motivi che hanno sorretto l’esercizio del recesso datoriale” (pag. 10 cent. impugnata).

Tuttavia la Corte territoriale, esaminando il motivo di appello concernente “la valutazione della prova” effettuata dalla G., ha ritenuto tale “atto di valutazione” operato della datrice di lavoro “non… legittimo” in quanto frutto “di un apprezzamento datoriale privo di una motivazione sufficientemente specifica ed a tratti contraddittoria rispetto alla realtà di fatto”.

4.2. Tale argomentazione concreta una falsa applicazione in diritto atteso che, per quanto detto, il lavoratore in prova che impugna il recesso ampiamente discrezionale del datore deve allegare e provare o la contraddizione tra le modalità di espletamento della prova e la sua funzione causale (ad ex. esiguità della durata; esperimento su mansioni estranee al patto di prova) o l’avvenuto superamento della prova oppure la sussistenza di un motivo illecito ovvero l’imputabilità della risoluzione ad un motivo estraneo all’esperimento della prova.

Non può, dunque, limitarsi a contestare il giudizio espresso dal datore di lavoro in ordine al mancato superamento della prova, anche laddove contenuto in una motivazione scritta.

Nella specie la Corte territoriale, dopo aver escluso che la prova della G. si fosse svolta con modalità illegittime che non consentissero l’esperimento ovvero che il recesso fosse determinato da un motivo illecito, non ha accertato nè il positivo superamento della prova nè ha individuato una ragione della risoluzione estranea all’esperimento; piuttosto ha indagato la motivazione – più che articolata – posta dall’amministrazione a giustificazione del giudizio negativo sulla prova, con un sindacato che travalica i limiti posti dalla legge in quanto si è tradotto nella valutazione dell’apprezzamento discrezionale di pertinenza datoriale, cui non può surrogarsi il giudice, indebitamente omologando così, nella sostanza, la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova alla giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo.

Invero l’obbligo di motivazione, che per quanto sopra detto può anche esprimersi in modo sintetico, non muta la natura discrezionale del potere conferito al datore di lavoro nè tanto meno grava questi dell’onere di provare il mancato superamento della prova, come invece in concreto ritenuto dalla Corte genovese.

5. Pertanto la sentenza impugnata va cassata con rinvio affinchè, previa ricognizione della fattispecie concreta, venga fatta applicazione del seguente principio di diritto ex art. 384 c.p.c.:

“Il lavoratore, anche ove dipendente di una pubblica amministrazione, che impugni il recesso motivato dal mancato superamento della prova deve allegare e provare o che le modalità dell’esperimento non risultassero adeguate ad accertare la sua capacità lavorativa oppure il positivo esperimento della prova ovvero la sussistenza di un motivo illecito o estraneo all’esperimento stesso, restando escluso che l’obbligo di motivazione possa far gravare l’onere della prova sul datore di lavoro e che il potere di valutazione discrezionale dell’amministrazione possa essere oggetto di un sindacato che omologhi la giustificazione del recesso per mancato superamento della prova alla giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo”.

6. Conclusivamente il ricorso incidentale deve essere accolto, con conseguente assorbimento del ricorso principale che presuppone l’accertata illegittimità del recesso invece ancora sub iudice; conseguono altresì la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte indicata in dispositivo che si uniformerà a quanto innanzi statuito, regolando anche le spese.

Stante l’accoglimento del ricorso incidentale e l’assorbimento del ricorso principale occorre dare atto che non sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,comma 17.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte di Appello di Torino, anche per le spese; dichiara assorbito il ricorso principale.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ed incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2018

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