Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.26700 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20650/2015 proposto da:

P.G., P.P., P.A., P.M., P.L., D.A.M., PA.AN., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GERMANICO 107, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO GELERA, rappresentati e difesi dagli avvocati CARLO SPILLARE, RANIERO BORDON, UGO DAL LAGO giusta procura speciale notarile;

– ricorrenti –

contro

GENERALI ITALIA SPA già ASSITALIA ASSICURAZIONI SPA, in persona dei procuratori speciali C.P. e PO.MA., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato MARCO VINCENTI, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

UNIPOLSAI SPA in persona dello speciale procuratore Dott. G.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIULIANO CARRUCCIU giusta procura speciale a margine del contrirocorso;

– controricorrenti –

e contro

ULSS ***** ALTO VICENTINO, co.fr., c.p., SIAT SOCIETA’ ITALIANA ASSICURAZIONI E RIASSICURAZIONI SPA, NUOVA TIRRENA SPA DI ASSICURAZIONI E RIASSICURAZIONI, REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI SPA, SASA ASSICURAZIONI E RIASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 191/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 27/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 10/01/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

FATTI DI CAUSA

1. D.A.M., nonchè PA.AN., P.A., P.M., P.L., P.G. e P.P., ricorrono, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Venezia n. 191/15, del 27 gennaio 2015, che – respingendo il gravame dagli stessi esperito avverso la sentenza n. 265/10 del 20 maggio 2010 del Tribunale di Vicenza, sezione distaccata di Schio – rigettava la domanda risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti nei confronti della U.L.S.S. n. ***** “Alto Vicentino” (d’ora in poi, U.L.S.S. n. *****), nonchè di co.fr. e di c.p..

2. Riferiscono, in punto di fatto, i ricorrenti di aver adito (nelle rispettive qualità, la D.A., di danneggiata diretta, nonchè di marito e figli della stessa, rispettivamente, PA.AN. e P.A., P.M., P.L., P.G. e P.P.) la sezione di Schio del Tribunale vicentino per conseguire il risarcimento dei danni scaturiti a loro dire – da un intervento di angiografia alla quale la D.A. fu sottoposta il 25 maggio 1999 presso un’apposita unità mobile presente nel cortile del Presidio Ospedaliero di *****, in provincia di Vicenza. Assumevano gli attori, ed odierni ricorrenti, che all’esito di tale intervento (effettuato per accertare le cause di un’emorragia cerebrale, accusata dalla donna il precedente 2 maggio) la D.A. fu colpita da ictus cerebrale comportante “emiparesi destra, disartria e deficit della mobilità oculare estrinseca da ischemie cerebrali multiple”, tanto da essere riconosciuta “invalida con totale e permanente inabilità lavorativa al 100% e con l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore”.

Proposta da costoro domanda risarcitoria nei confronti della U.L.S.S. n. *****, del primario che aveva prescritto l’esame angiografico (il dott. c.) e del radiologo che l’aveva eseguito (il dott. co.), il giudice di prime cure – dopo aver autorizzato ciascuno dei convenuti a chiamare in causa i rispettivi assicuratori (ovvero, per la U.L.S.S. n. *****, le società Assitalia – Le Assicurazioni d’Italia S.p.a., SIAT – Società Italiana Assicurazioni e Riassicurazioni S.p.a., Nuova Tirrenia S.p.a., Reale Mutua di Assicurazioni S.p.a., SASA – Assicurazioni e Riassicurazioni S.p.a., nonchè, per il co., la Milano Assicurazioni S.p.a. e, per il c., la società Assitalia-Le Assicurazioni d’Italia S.p.a.) – respingeva la domanda risarcitoria, con decisione confermata dalla Corte di Appello di Venezia.

3. Avverso la sentenza della Corte lagunare hanno proposto ricorso per cassazione la D.A. e di P., svolgendo cinque motivi.

3.1. I primi due motivi attengono, in particolare, al tema del consenso informato al trattamento sanitario.

Per l’esattezza, con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2043 c.c., oltre all’omessa motivazione “in ordine alla mancanza di un completo ed esauriente consenso informato alla paziente”.

Con il secondo motivo si denuncia – a norma dell’art. 360 codice di rito civile, comma 1, n. 5) – l’omessa motivazione “riguardo alla mancata informazione delle controindicazioni dell’esame angiografico ed alla falsità di uno dei documenti ex adverso prodotti”.

La doglianza di fondo indirizzata contro la sentenza impugnata è, in sostanza, quella di aver negato ristoro al danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, avendo il giudice di appello disatteso le risultanze delle due CTU disposte nel corso del giudizio di primo grado, laddove esse hanno escluso che i moduli utilizzati per acquisire il consenso informato dalla paziente potessero considerarsi “completi ed esaustivi” circa la descrizione sia dell’esame angiografico, sia, soprattutto, “della sua utilità e dei rischi correlati”, riconoscendo, infine, anche la falsità di uno di essi.

In particolare, avendo gli attori “sempre sostenuto che se adeguatamente informata la D.A. non si sarebbe sottoposta all’esame e comunque non in quelle specifiche condizioni”, la sentenza impugnata, nel negare rilievo alle circostanze suddette, avrebbe malamente applicato il principio enunciato da Cass. Sez. 3, sent. 9 febbraio 2010, n. 2847. Tale arresto giurisprudenziale, infatti, nel subordinare il ristoro del danno alla salute, derivante dall’assenza di adeguata informazione data al paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili dell’intervento praticato, alla condizione che il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, si riferirebbe ai soli interventi “necessari”. Il principio non sarebbe, invece, applicabile nel caso “de quo”, in cui “non sussisteva uno stato di necessità, inteso nel senso di obbligo di salvare il paziente dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”, ovvero (secondo quanto si legge a pag. 26 del ricorso, che riproduce pag. 42 dell’atto di appello) in “un caso – per così dire – “di vita o di morte””. Che l’ambito di operatività di tale principio in materia di consenso informato sia circoscritto ad interventi siffatti sarebbe confermato secondo i ricorrenti – pure da Cass. Sez. 3, sent. 6 giugno 2014, n. 12830.

3.2. I motivi di ricorso terzo e quarto censurano, invece, la sentenza impugnata laddove ha ritenuto raggiunta la prova liberatoria circa l’assenza di responsabilità dei sanitari e della struttura.

In particolare, con il terzo motivo, viene dedotta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 1218 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., per avere il giudice di appello “ritenuto assolto l’onus probandi da parte di ospedale e sanitari con il mero richiamo delle conclusioni delle CTU medico-legali e dell’iter argomentativo in esso contenuto”. In sostanza, poichè la CTU non costituisce un mezzo di prova, la valorizzazione delle sue risultanze per escludere che vi sia stata – come si legge nella sentenza impugnata – “errata esecuzione dell’esame” e, quindi, inadempimento dei soggetti convenuti in giudizio, rappresenterebbe un sovvertimento delle regole sulla distribuzione dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria, giacchè, a fronte della mera allegazione del creditore della prestazione sanitaria dell’esistenza di un inadempimento qualificato, ovvero “astrattamente efficiente alla produzione del danno”, si sarebbe esonerato il debitore della stessa prestazione dal “dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno”.

Il quarto motivo di ricorso ipotizza – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – “omessa motivazione” della sentenza impugnata “sullo specifico richiamo di alcune parti di ambedue gli elaborati peritali medico-legali entrambi svolti nel corso del primo grado del giudizio”, lamentando, in sostanza, che i giudici di appello (come già quello di prime cure) avrebbero attinto dalle risultanze delle due CTU “senza, però, mai enunciare gli elementi probatori, i criteri di valutazione e gli argomenti logico e giuridici che li hanno indotti a siffatte conclusioni”.

3.3. Infine, con il quinto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – si denuncia “omessa motivazione” con riguardo “al carico, seppur parziale, delle spese del grado di appello”.

4.1. Assume, in particolare, la Unipolsai – quanto ai primi due motivi di ricorso – che il tema relativo alla lesione del diritto all’autodeterminazione, a prescindere dai suoi riflessi sul diritto alla salute, sarebbe stato introdotto in giudizio tardivamente dagli odierni ricorrenti, essendosene fatta menzione solo con la comparsa conclusionale di primo grado.

Inoltre, si rileva come i ricorrenti reputino il consenso informato alla stregua di un “totem intoccabile”, mentre lo scopo insito nella sua manifestazione da parte del paziente è quello di permettere allo stesso di avere consapevolezza dei rischi del trattamento sanitario (preservando, così, la libertà di scelta dello stesso di sottoporvisi o meno), potendo, tuttavia, siffatta consapevolezza essere acquisita non solo attraverso la sottoscrizione di un documento, ma anche “aliunde”.

Quanto, poi, ai motivi terzo e quarto, si sottolinea come la doglianza relativa all’utilizzazione delle risultanze della CTU contrasti con la condotta assunta in corso di causa, avendo gli odierni ricorrenti richiesto (ed ottenuto) in primo grado il licenziamento di ben due consulenze, insistendo, nel giudizio di appello, perchè si desse corso ad una terza.

4.2. Anche gli altri controricorrenti assumono l’infondatezza dell’avversaria impugnazione.

Quanto, in particolare, al primo motivo di ricorso, premesso che le stesse risultanze di causa confermerebbero come l’intervento al quale fu sottoposta la D.A. fosse non solo necessario, ma addirittura indispensabile, per individuare la causa della precedente emorragia cerebrale, si sottolinea come, in ogni caso, la questione relativa alla mancanza di un’adeguata informazione fosse stata posta sempre in correlazione al diritto di non sottoporsi al trattamento sanitario.

Quanto al secondo motivo, se ne eccepisce – innanzitutto – l’inammissibilità, atteso che i fatti dei quali sarebbe stato omesso l’esame (la mancata informazione in ordine a tutti i rischi dell’angiografia e la contraffazione del modulo di consenso prodotto in giudizio dalla difesa del convenuto c.) non sarebbero sindacabili in sede di legittimità, essendo in tale ambito consentite solo censure in diritto, fermo restando, inoltre, che quei fatti non risulterebbero essere stati sottratti al vaglio del giudice di appello.

Quanto ai motivi terzo e quarto – riproposta la medesima eccezione di inammissibilità già formulata con riferimento al motivo che immediatamente li precede – si evidenzia, per un verso, come risulti “quantomeno azzardato” ipotizzare che, in materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, il giudice non possa fondare il proprio convincimento sulle risultanze della disposta CTU, dato il carattere, viceversa, “percipiente” della stessa.

In ogni caso, poi, si sottolinea che nessun sovvertimento dei principi di ripartizione dell’onere della prova risulta ipotizzabile nel caso di specie, se è vero che la sentenza impugnata – sulla scorta delle risultanze della duplice consulenza espletata in primo grado – ha affermato che “la procedura diagnostica e l’esecuzione dell’angiografia cerebrale vennero eseguite secondo gli standard delle metodiche angiografiche stabilite dalla prassi e dalla scienza medica”, sicchè la complicanza verificatasi nel caso di specie è stata “univocamente ricondotta dai consulenti” non “a scorretta esecuzione dell’esame”, nè “ad insufficienze o carenze degli strumenti ed attrezzature adoperate ma al concorso di più fattori, tutti indipendenti da condotte anche solo latamente riconducibili agli (…) appellati”.

Circa, infine, il quinto motivo, si rileva come lo stesso sia formulato – in modo inammissibile – sulla base della prognosi di accoglimento della proposta impugnazione e, quindi, della necessità di riforma della regolamentazione delle spese di lite.

5. Hanno presentato memoria sia i ricorrenti che la società Unipolsai.

Mentre la seconda ha, nella sostanza, ribadito le proprie argomentazioni, i primi hanno evidenziato – soprattutto in relazione al primo motivo di ricorso – come nella giurisprudenza più recente di questa Corte si attribuisca autonomo rilievo alla violazione dell’obbligo informativo nei confronti del paziente, a prescindere dai riflessi sulla corretta esecuzione della prestazione sanitaria (sono citate Cass. Sez. 3, sent. 12 giugno 2015, n. 12205, nonchè Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16503).

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Il ricorso non può essere accolto.

6.1. I primi due motivi non sono fondati.

La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi enunciati da questa Corte in tema di “consenso informato”, relativamente ai trattamenti medico-chirurgici, e ciò avuto riguardo alla effettiva natura della domanda risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti.

6.1.1. Sul punto occorre premettere che costoro si sono doluti, nell’atto introduttivo del presente giudizio, della mancanza di adeguata informazione fornita alla D.A. (soprattutto in relazione ai rischi ai quali l’avrebbe potuta esporre l’esame angiografico) per i riflessi che essa avrebbe avuto in termini di lesione del suo diritto all’integrità psico-fisica.

E’ quanto è dato desumere, innanzitutto, dalle conclusioni rassegnate nell’atto di citazione (come riprodotte a pag. 6 del presente ricorso), avendo parte attrice richiesto il risarcimento dei danni “in conseguenza dell’evento lesivo occorso a D.A.M. il 25 maggio 1999”. Ma è quanto conferma pure il riferimento, contenuto nel primo motivo del presente ricorso, alla ipotetica violazione del (solo) art. 32 Cost. e non (anche) dell’art. 13 Carta fondamentale, ovvero l’ulteriore norma costituzionale (cfr. Corte cost., sent. 23 dicembre 2008, n. 438) che – in uno con la prima citata – fonda l’autonomo rilievo, anche a fini risarcitori, del diritto all’autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari.

D’altra parte, che a formare oggetto della domanda risarcitoria non sia stata la violazione “ex se” del diritto della D.A. a ricevere adeguata informazione sul trattamento angiografico, ma i riflessi che la sua (supposta) mancanza avrebbe prodotto sulla salute della donna, è quanto conferma un’ulteriore circostanza. Ovvero, che la pretesa risarcitoria azionata nel presente giudizio non proviene dalla sola interessata, ma pure dai suoi congiunti, i quali – mentre sono sicuramente legittimati ad agire per il ristoro dei danni subiti in conseguenza della lesione all’integrità psicofisica della loro familiare non avrebbero avuto, invece, alcun titolo per far valere, in chiave risarcitoria, la violazione di un diritto personalissimo qual è quello all’autodeterminazione.

Deve, dunque, ritenersi che esuli dal presente giudizio il tema della violazione in sè del diritto all’autodeterminazione, la lesione del quale – come di recente ancora sottolineato da questa Corte – dà luogo ad un “danno conseguenza costituito dalla sofferenza e dalla contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente”, patite dal paziente “in ragione dello svolgimento sulla sua persona di interventi non assentiti” (Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16503, Rv. 644956-01), danno “che non necessita di una specifica prova, salva la possibilità di contestazione della controparte e di allegazione e prova, da parte del paziente, di fatti a sè ancora più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori” (Cass. Sez. 3, ord. 15 maggio 2018, n. 11749, Rv. 688644-01), pregiudizio che non può essere in alcun modo compensato “dall’esito favorevole dell’intervento” (Cass. Sez. 3, sent. 12 giugno 2015, n. 12205, Rv. 635626-01).

Ciò posto, quindi, “nel caso in cui l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico)”, ovvero proprio la situazione che si riscontra nel caso in esame, “si verifica una “mutatio libelli” e non una mera “emendatio”, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza” (così Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24072, Rv. 645833-01).

6.1.2. Tanto chiarito sul contenuto della pretesa risarcitoria azionata dagli odierni ricorrenti, la circostanza che, in corso di causa, risultino essere state riscontrate – secondo le risultanze delle disposte CTU – sia la mancata sottoscrizione di moduli informativi “completi ed esaustivi” (circa la descrizione tanto dell’esame angiografico, quanto, soprattutto, “della sua utilità e dei rischi correlati”), sia, addirittura, la falsità di uno di essi, non inficia la correttezza delle conclusioni raggiunte dal giudice di appello circa l’assenza delle condizioni per il risarcimento del danno, proprio perchè il tema dell’autonomo rilievo della lesione del diritto all’autodeterminazione ha esulato dal presente giudizio.

La sentenza impugnata si è, pertanto, correttamente richiamata al principio secondo cui in presenza di atto terapeutico “necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute” (Cass. Sez. 3, sent. 9 febbraio 2010, n. 2847, Rv. 611427-01; in senso analogo, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 16 febbraio 2016, n. 2998, Rv. 638979-01).

Facendo applicazione di tali principi, la sentenza impugnata – sul presupposto (non sindacabile in questa sede, perchè attinente ad un profilo squisitamente fattuale) che gli odierni ricorrenti non abbiano non solo provato, ma neppure allegato, che, in presenza di un’adeguata informazione, la D.A. non si sarebbe sottoposta all’angiografia – ha escluso la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda risarcitoria.

6.1.3. D’altra parte, neppure può accogliersi la censura dei ricorrenti circa l’insussistenza delle condizioni di operatività dei principi suddetti alla presente fattispecie, non ricorrendo, nel caso “de quo” un intervento “salvavita”.

Sul punto, infatti, pare sufficiente rilevare, per un verso, che gli interventi “necessari” ai quali fa riferimento il citato indirizzo giurisprudenziale non sono solo quelli in cui si pone (per dirla con i ricorrenti) “una questione di vita o di morte”.

Per altro verso, poi, neppure giova ai ricorrenti il richiamo a Cass. Sez. 3, sent. 6 giugno 2014, n. 12830, Rv. 631825-01, che assoggetta, obiettivamente, a principi del tutto peculiari il danno da mancata acquisizione del consenso informato nell’ipotesi di intervento di chirurgia estetica, ed esattamente quando alla sua esecuzione segua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o attenuare, essendo in tal caso sufficiente accertare, per affermare la responsabilità del medico, che il paziente non venne adeguatamente informato di tale possibile esito, ancorchè l’intervento risulti correttamente eseguito.

Tale regime derogatorio trova, infatti, la sua specifica ragione giustificativa nel fatto che “con la chirurgia estetica, il paziente insegue un risultato non declinabile in termini di tutela della salute, ciò che fa presumere come il consenso all’intervento non sarebbe stato prestato se egli fosse stato compiutamente informato dei relativi rischi”, ovvero il prodursi di inestetismi maggiori di quello che egli mirava ad eliminare, essendo, appunto, detta circostanza a legittimare l’automatismo risarcitorio, ovvero l’accoglimento della domanda “senza che sia necessario accertare quali sarebbero state le sue concrete determinazioni in presenza della dovuta informazione” (cfr., in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 12830 del 2014).

6.2. Non sono fondati neppure i motivi di ricorso terzo e quarto.

6.2.1. La sentenza impugnata – sulla scorta delle risultanze delle due CTU espletate in primo grado – ha affermato che “la procedura diagnostica e l’esecuzione dell’angiografia cerebrale vennero eseguite secondo gli standard delle metodiche angiografiche stabilite dalla prassi e dalla scienza medica”, soggiungendo che “la complicanza che si verificò durante l’angiografia è stata univocamente ricondotta dai consulenti, quindi, non a scorretta esecuzione dell’esame”, nè “inefficienze o carenze degli strumenti ed attrezzature adoperate, ma al concorso di più fattori, tutti indipendenti da condotte anche solo latamente riconducibili” ai sanitari (o alla struttura), precisando, infine, sia che la D.A. è risultata affetta da “un’anomalia dell’arteria cerebrale posteriore sinistra, verosimilmente congenita, che potrebbe aver favorito fenomeni microembolici”, sia che durante l’esame ebbe a verificarsi “una concomitante e imprevista crisi ipertensiva” la quale “ha verosimilmente favorito l’ischemia”.

6.2.2. Ciò detto, va qui evidenziato come questa Corte abbia di recente osservato che nei giudizi risarcitori da responsabilità medica si delinea “un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01).

Ne consegue, dunque, che “la causa incognita resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, resta a carico del convenuto relativamente alla possibilità di adempiere. Se, al termine dell’istruttoria, resti incerti la causa del danno o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto. Il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit., nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 4 novembre 2017, n. 26824, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01).

Nella specie, quindi, essendo mancata la prova “a monte” – che era il paziente/danneggiato a dover fornire – circa il nesso causale tra l’insorgenza della patologia della D.A. e la condotta dei sanitari (anzi, avendo la sentenza addirittura evidenziato, sulla scorta della CTU, l’esistenza di elementi che inducono all’opposta conclusione) nessun “sovvertimento” dei principi sull’onere dell’onere della prova risulta inficiare la sentenza impugnata, per avere essa escluso la sussistenza dei presupposti per la configurazione della responsabilità per malpractice medica.

6.2.3. Nè, d’altra parte, per concludere sui motivi di ricorso terzo e quarto, può accogliersi la censura relativa all’uso della CTU per “supplire” agli oneri (asseritamente) incombenti sui convenuti.

Al riguardo, infatti, è sufficiente richiamarsi al principio secondo cui, in materia di responsabilità sanitaria, “la consulenza tecnica è di norma “consulenza percipiente” a causa delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie, non solo per la comprensione dei fatti, ma per la rilevabilità stessa dei fatti, i quali, anche solo per essere individuati, necessitano di specifiche cognizioni e/o strumentazioni tecniche; atteso che, proprio gli accertamenti in sede di consulenza offrono al giudice il quadro dei fattori causali entro il quale far operare la regola probatoria della certezza probabilistica per la ricostruzione del nesso causale” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2014, n. 22225).

6.3. Infine, il quinto motivo di ricorso, è inammissibile.

Esso, risolvendosi nella semplice richiesta di una differente regolamentazione delle spese di lite, una volta acclarata – a dire dei ricorrenti – l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della loro pretesa risarcitoria, risulta affetto da inammissibilità.

Al riguardo va, infatti, ribadito che il motivo d’impugnazione “è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4)” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, n. 17330, Rv. 636872-01).

7. Le spese del presente giudizio vanno poste a carico dei ricorrenti e sono liquidate come da dispositivo.

8. A carico dei ricorrenti, rimasti soccombenti, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando D.A.M., nonchè PA.AN., P.A., P.M., P.L., P.G. e P.P., a rifondere le spese del presente giudizio a Unipolsai S.p.a., liquidandole in Euro 2.500,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, nonchè a Generali Italia S.p.a., U.L.S.S. n. ***** “Alto Vicentino”, c.p. e co.fr., liquidandole, complessivamente, in Euro 3.200, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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